Un eccesso di aggressività si avverte: madri che uccidono figli che uccidono padri che uccidono mogli, stupri, lacerazioni con l’acido, cadaveri occultati, giochi di pulsione distruttiva per dirla freudianamente. Precedentemente ho parlato del conflitto interiore, il dubbio, l’angoscia correlata. In questo articolo l’intenzione è quella di dare un senso alle teorie sull’aggressività e la frustrazione, estremamente collegate alle teorie sul conflitto. Non è un segreto che, più passa il tempo, più la frustrazione avanza. Essa è generata dalla politica, dalle istituzioni, dalla qualità della vita, dal confronto con altri Paesi: sebbene l’erba del vicino sia sempre più verde, e questo è il caso di ricordarlo. Ma di certo l’Italia ha raggiunto un picco storico di frustrazione. Intendo per frustrazione una reazione personale e comportamentale accompagnata da sintomi vegetativi, che può portare a disturbi psicosomatici, disturbi mentali quando non vere e proprie malattie. Essa si verifica quando un ostacolo si presenta, un obiettivo non è raggiunto, un compito è interrotto, la propria autostima è minacciata, non è possibile gratificare un bisogno, e in tutte quelle situazioni in cui l’individuo sperimenta un «fermo» rispetto alle proprie aspettative più ampie.
Kurt Lewin (1890-1947), gestaltista, teorico della funzione del campo C=f(P,A) secondo cui il comportamento di un individuo è una funzione regolata da fattori interdipendenti costituiti dalla sua personalità e dall’ambiente che lo circonda, effettua esperimenti sulla sospensione ed interruzione del compito e nota che l’energia mobilitata continua ad operare e cerca vie di scarico, un accumulo che è percepito soggettivamente come un’esperienza emotiva spiacevole e dolorosa.
Sigmund Freud (1856-1939) ricollega la frustrazione alla mancata gratificazione dell’Es, per lui elemento libidinoso della psiche che non conosce negazione né contraddizione, e, nel suo modello energetico della motivazione, fa confluire l’accumulo connesso in altro: l’uso di meccanismi di difesa conduce a differenti soluzioni di sfogo, la prima delle quali è la sublimazione dell’energia ossia il suo scambio in attività sostitutive (lo sport ad esempio), o lo spostamento verso altri bersagli, spesso aggressivo. Ricordando i tre luoghi psichici freudiani: l’Es (la parte impulsiva, irrazionale, animalesca), il SuperIo (l’etica, la coscienza morale che sorge gradualmente e tende a reprimere gli impulsi dell’Es), l’Io (che si situa tra l’Es e il SuperIo, media tra le due tendenze e consiste in un continuo tentativo di equilibrio). Quest’ultimo è sempre in oscillazione anche in soggetti sani adulti. Un esempio per tutti il fil «Un giorno di ordinaria follia» in cui il protagonista Bill Foster, interpretato da Michael Douglas, per la frustrazione di una giornata qualunque raggiunge il punto di non ritorno, armandosi e minacciando la città.
Collegano frustrazione ed aggressività molti autori, in senso energetico l’etologo tedesco Konrad Lorenz (1903-1989), secondo cui compito della società e degli educatori è reprimere le spinte o creare valvole di sfogo (negli anni di Freud la militarizzazione era un’alternativa molto valida). Sono John Dollard (1900-1980) e i colleghi del gruppo di Yale a dare il massimo rilievo al collegamento tra frustrazione ed aggressività. Secondo essi l’aggressività presuppone sempre frustrazione, e quest’ultima conduce sempre ad un comportamento aggressivo, un legame che può essere rivisto solo attraverso strategie di ridirezionamento verso attività in grado di consentire la scarica. Si verifica uno spostamento quando muta il target della spinta aggressiva attraverso comportamenti diretti verso altri soggetti ed oggetti distinti rispetto alla causa generativa.
Ma questa teoria è considerata estremista: per Robert Richardson Sears (1908-1989) e George Armitage Miller (1920-2012) «non sempre», ossia frustrazione e aggressività sarebbero collegati solo ove vi siano condizioni particolari (la frustrazione prepara l’aggressività ma non la implica), ed è Leonard Berkowitz (1926-2016) che, con gli esperimenti ben noti degli «indizi aggressivi», rilevava il cosiddetto «effetto arma»: se nel campo è presente un oggetto che richiama aggressività, esso catturerà l’attenzione selettiva dell’osservatore che avrà non solo difficoltà a ricordare altri dettagli (problema dei falsi ricordi, molto rilevante nelle testimonianze e deposizioni processuali), ma sarà maggiormente predisposto all’uso della violenza. L’indizio aggressivo «arma», infatti, suggerisce il comportamento violento, finanche lo legittima, ed innesca una sequenza distruttiva, configurandosi come appiglio. L’esempio più lampante è costituito dai disordini pubblici e gli scontri che avvengono nel corso di manifestazioni in cui sono presenti forze dell’ordine dotate di armi, manganelli ed altri oggetti simili. Berkowitz aveva condotto un esperimento per avallare la sua teoria, e aveva evidenziato come i soggetti ignari, umiliati e derisi da un complice dello sperimentatore, tendevano ad infliggere più scosse, e più prolungate, al provocatore quando venivano a conoscenza che alcune armi, presenti nel campo di sperimentazione, appartenevano a costui.
La teoria degli indizi aggressivi è applicabile in Paesi quali gli Stati Uniti d’America, dove le armi possono essere acquistate, il nuovo presidente è favorevole al loro uso – in questo modo ampliando la motivazione dei cittadini a possederle se non altro per potersi difendere da altri che ne abbiano comprate – e non a caso nel Paese sono molto comuni le stragi nelle scuole generate dagli stessi studenti. In questo anche i media hanno un’elevata responsabilità, ma per dare atto di questo a breve mi soffermerò sugli studi di Bandura.
Intanto Dolf Zillmann pone un limite alla teoria dell’effetto arma, integrandola con l’evidenziazione dell’interpretazione tra arousal (eccitazione) ed aggressività: dopo le provocazioni i soggetti compivano attività fisica su una cyclette, e coloro che subito dopo il termine dell’esercizio fisico potevano somministrare una scossa al provocatore erano meno aggressivi rispetto ai soggetti che attendevano 6 minuti. Ciò perché questi ultimi non potevano più attribuire l’arousal allo sforzo fisico, e dovendo scaricare la tensione accumulata la riversano nel comportamento aggressivo. Diversamente accadeva ai primi. L’attribuzione della frustrazione ad una motivazione, diceva Zillmann, arresta l’aggressività.
L’aggressività per Seneca era follia, per i greci coraggio in battaglia, Thomas Hobbes (1588-1679) parlava di un uomo «homini lupus», mentre Friedrich Nietzsche (1844-1900) dava solo al Super Uomo la capacità di canalizzarla. Per i comportamentisti, l’aggressività è frutto di condizionamento operante (derivato dagli studi di Ivan Pavlov) in cui il rinforzo è dato dalle condizioni vantaggiose del comportamento aggressivo, mentre per i cognitivisti parla Albert Bandura (1925).
Lo psicologo canadese, nell’ambito dei suoi studi sulla «agenticità umana», considera il «modellamento per imitazione» come meccanismo di base per l’aggressività. Dal 1960, con le psicologhe Dorothea e Sheila Ross della Stanford University, condusse una serie di esperimenti sugli effetti che la visione di un soggetto violento in azione può esercitare sugli osservatori: sono i famosi «Bobo Doll Experiments», gli esperimenti con la bambola Bobo. Lo psicologo divise dei bambini di età prescolare in tre gruppi di bambini in età prescolare; nel primo inserì un proprio collaboratore con il compito di mostrarsi aggressivo nei confronti del pupazzo gonfiabile Bobo. L’adulto picchiava il pupazzo con un martello gridando: «Picchialo sul naso!» e «Pum pum!». Nel secondo gruppo, quello di confronto, il collaboratore giocava con le costruzioni di legno senza manifestare aggressività nei confronti di Bobo. Nel terzo gruppo, quello di controllo, i bambini giocavano da soli, senza alcun adulto con funzione di modello. Successivamente i bambini venivano condotti in un’altra stanza nella quale erano presenti giochi neutri come peluche e modellini di camion, e giochi aggressivi quali fucili, una palla con una faccia dipinta legata ad una corda, e lo stesso Bobo. I bambini del primo gruppo manifestavano un’incidenza maggiore di comportamenti aggressivi rispetto a quelli che avevano visto il modello pacifico e a quelli che avevano giocato da soli. Ossia: l’aggressività si impara. C’è un modello che influenza gli altri. Tali esperimento portarono a conclusioni molto operative nell’ambito deggli effetti della TV sui bambini stessi. E non solo. Ciò dimostra come in un Paese nel quale le armi sono a portata di mano e la televisione propini modelli di violenza continui sia più facile una tornata di «effetto arma» e modellamento stile Bobo. I media italiani non aiutano: i dati lo dimostrano. Inutile rinchiudersi nella torre costituzionale della responsabilità penale personale: non è così. In molti casi, tale responsabilità è dell’intera società.
Nel metodo: sulla frustrazione a stessa seduta di psicoterapia/psicoanalisi si presta ad esserne fonte: il tempo limitato, il distacco dello psicanalista, il fatto di doverlo dividere con gli altri pazienti e, in particolar modo, il pagamento. Un terapeuta di approccio cognitivo-comportamentale mira a sviluppare nel soggetto un riapprendimento, dopo aver valutato quale apprednimento è stato generato dalla sperimentazione della frustrazione da parte del paziente, e come si è modificato il suo comportamento. Un utile test è l’inventario dei meccanismi di difesa, ma sono sempre validi il Rorschach, noto test di interpretazione di macchie, e il Tat (Test di appercezione tematica) di Henry Murray, che porta all’interpretazione di 31 immagini tra foto, riproduzioni, quadri, illustrazioni. (Romina Ciuffa)