Gui Hargreaves è di per sé già un “Haiku”. Conciso, indipendente, fatto in una metrica magica, diversa. Il nome “Gui”, che proviene da Guillherme, già è dimostrativo della teoria della riduzione. Riportare al piccolo, alla minuscolinità. Più piccoli si è, più si entra nei luoghi e si ha modo di visualizzarli nella loro immensità. Conoscendo l’umiltà e disconoscendo la vanagloria. Così questo mineiro, che giunge oggi per pochi giorni in Italia a promuovere il suo primo, indipendente come lui, cd: un ep, ovviamente, disco “breve”, pochi brani per dare il senso della sua arte, della sua grandezza nel minimo delle parole necessarie ad esprimersi. Sensibilità alta, voce lucida, sensoriale attitudine. E poi, per stringere ancora: perché una band, quando si può fare un piccolo disco in piccolo? Da solo: voce e chitarra. Perché ne sia più facile la promozione, per non esser legato a qualcosa di troppo grande, ingestibile, per poter muoversi con facilità. Ma non da solo: piccolo non vuol dire solo. Per scegliere i brani ha messo a punto un evento, nel dicembre 2015, e vi ha convocato tutti coloro che lo hanno accompagnato nel suo percorso musicale, chiedendo loro di votare tra i brani da inserire. Pragmatico. Anche io lo contatto sapendo che è in Italia da sole poche ore e, in pochi minuti, pragmatico come un haiku, è da me. Dirompente come un haiku, che leggi una prima volta e da quella in poi lo si leggerà ogni volta differentemente tanto che – consiglio – si legga e ricordi il primo senso per poi confrontarlo con quello di una delle volte successive: ciò, a mio avviso, dà la misura della mutabilità della percezione sull’apparenza. Lo haiku (in portoghese haikai) – linguaggio sensoriale che cattura emozioni e immagini in una metrica dettata da “more” (non sillabe) – riesce a rappresentare, oltre alla magia della parola, la sensibilità di questo mineiro, che stringatamente è tutto: esplosione di gioia e nel contempo di forza, quella di un Leone (del 31 luglio) nato nell’inverno brasiliano del 1991, che al suo primo disco affianca il suo primo libro. Così escono Braseiro, l’ep, e Diminuto, il libro. Gui (si pronuncia “ghì”), a sfregio del suo complesso cognome, elimina fronzoli lessicali e retorica, e suggestiona in un batter di ciglio. In (poche) parole e in (molta) musica. In un mondo che corre ed è global, lui scrive: “Distanza – a millimetri siamo – a chilometri”.
Domanda. Quali sono le tue origini e le origini della tua musica?
Risposta. Sono nato a Juiz de Fora, Minas Gerais, il 31 luglio 1991, vivo da sempre a Belo Horizonte, canto e ho studiato canto da piccolo, tanto che mi esibisco dal vivo da quando avevo appena 12 anni. Eppure ho cominciato a comporre solo a 20 anni, quando presi per la prima volta in mano una chitarra ed ebbi voglia di comporre e lavorare con la musica, interamente dedicandomi ad essa. Ho sempre cantato di tutto, ma non specialmente samba: eppure, una volta impugnata la chitarra, è arrivata la composizione del samba. Avevo già provato il violino senza grandi risultati, e studiato flauto dolce e trasversale: a 7 anni mia madre mi iscrisse a un corso di flauto e la mia insegnante riteneva strano che fossi più portato a comporre che a suonare il flauto. Verso i 20 anni, stanco di suonare la chitarra elettrica, ho preso l’acustica di mio padre, rendendomi conto solo allora di quale fosse davvero la mia passione: comporre con la chitarra.
D. Cosa ti ha portato in Italia e in che modo hai conosciuto Francesca della Monica, insegnante che da anni conduce una ricerca sulle diverse tecniche della voce, tradizionali e sperimentali, e, in particolare, quelle collegate alle notazioni non convenzionali della nuova musica?
R. Ho cercato qualcuno che mi aiutasse a fare degli show, una persona che si occupasse della mia direzione artistica. Conobbi Francesca della Monica, che stava tenendo un corso di canto a Belo Horizonte, e cominciai a studiare con lei. È lei la ragione per cui sono qui in Italia. Lavora molto in Brasile ed ogni volta che viene la seguo per imparare da lei. A settembre scorso abbiamo fatto una settimana intera di lezioni intensive a San Paolo, e approfondito il mio modo di comporre, parlato molto per confrontare le nostre idee e opinioni sulla mia carriera e la mia musica. Così mi ha invitato in Italia.
D. In Italia, dove ti trovi al momento, quali sono i programmi: un tour, lezioni, turismo o che altro?
R. Non ho in mente un vero e proprio tour, nel senso di concerti pianificati. A Roma ho suonato al Contestaccio, mentre venerdì 8 aprile è il turno di Ostia al locale Jolie, all’interno del Cineland; poi sarò a Firenze, quindi mi trasferirò un mese a Siracusa dove, grazie a Francesca, ho trovato una residenza artistica, e dal 20 aprile vi trascorrerò un mese intero. Quindi tornerò a Roma per poi ripartire per San Paulo e BH.
D. Residenza artistica: di cosa si tratta?
R. Si chiama Moon, acronimo di Move Ortigia Out of Normality, e suonerò lì dove anche risiederò fino a fine maggio, in uno scambio di arte e cultura.
NDR: Moon nasce per dare un palcoscenico all’arte con una telefonata. Luogo fisico, centro culturale, bar, bistrot, laboratorio di danza, teatro e auditorium, spazio espositivo, luogo di incontro. Concreto e virtuale. Rivista web, spazio digitale, crocevia di informazioni, arti, culture, saperi. Una comunità di soggetti che desiderano condividere visioni, progetti, idee, proposte e azioni. Una piattaforma di creazione collaborativa di contenuti che connette persone, progetti e iniziative dedicati all’innovazione artistica, culturale e sociale. Ha sede nell’isola di Ortigia, nell’antica città greca di Siracusa, luogo unico, cuore pulsante di storia e tradizioni siciliane e mediterranee, e vuole dialogare con le persone che lo amano e vengono qui da tutto il mondo. È anche la luna, e un punto di vista originale sulla realtà che ci circonda, perché la Terra vista dalla Luna è diversa. Promuove la libera circolazione dei saperi, propone le arti come luogo del cambiamento e della condivisione, incoraggia stili di vita ecologici e sostenibili a partire dall’alimentazione, offre spazi di confronto, studio e coworking, invita alla partecipazione dei cittadini, incentiva la cura e lo sviluppo dei beni comuni, diffonde l’uso del digitale a fini artistici e sociali, accoglie i creativi di ogni campo per collaborare, produrre e diffondere.
D. Sei anche un poeta, specializzato nella forma letteraria dell’Haiku. Scrive nell’orecchia del tuo ultimo e primo libro “Diminuto” Laura Cohen Rabelo: “È possibile leggere un libro di poesie come leggere un romanzo, percorrendo le pagine dall’inizio alla fine, identificando in esso una narrazione unica suddivisa in capitoli. Un insieme di poesie può essere letto anche per consultazione, come un oracolo o un manuale di istruzione – apriamo il libro ad una pagina qualunque alla ricerca di un significato -. Il libro può anche esser letto dalla fine, o in direzioni aleatorie, perambulando tra le pagine (…). I libri di poesia si trasformano così in una specie di antidoto ad ogni situazione, come nella Teogonia di Esiodo la musa canta per fermare mali e afflizioni. Di fatto, chi vede il poeta mentre scrive crede nel poderoso canto della musa: come fosse posseduto da una voce esteriore lui prende un quaderno e vi annota un’idea urgente. Da questa idea sorge una poesia. Nonostante la sua componente magica, il processo di costruzione del libro ‘Diminuto’ è stato un lavoro complesso e lento., cominciato con Guillherme che scriveva incessantemente, fino a comporre circa una cinquantina di haiku, sempre contando nelle dita le corrette misure delle sillabe (…)”. Perché l’haiku? Come lo hai scoperto?
R. Sì, scrivo anche poesia e ho lanciato il mio primo libro nel 2014, “Diminuto”. Ad esso mi sono dedicato attraverso lo studio della forma dell’Haiku. Non ero ancora felice del risultato delle mie poesie come le avevo scritte a primo completamento del libro, bensì ero contento nel momento che fossero ridotte. Così decisi di far “dimagrire” questo libro, e mi ricordai del primo poema che scrissi quando avevo 12 anni in una corso di Haiku fatto quando andavo a scuola a Belo Horizonte, tenuto dal poeta Renato Negrão. Mi ricordai di questo:
E decisi di scrivere un libro di Haiku. Un biglietto da visita per i libri che ho intenzione di scrivere. La scrittrice Laura Cohen Rabelo, mia amica, stava formando una società con una casa editrice, la Impressões de Minas, creando una collana chiamata Leme, e cercavano il primo libro da pubblicare.
D. Lo haiku (俳句) è un componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo, generalmente composto da tre versi per complessive diciassette “more”, non sillabe, secondo lo schema 5/7/5. Il tuo libro si chiama “Diminuto”: cos’è per te??
R. In questo movimento di taglio e ricomposizione, le poesie diminuite riescono a creare il massimo senso con il minimo di parole. Leggere una poesia per la prima volta non è come leggerla la seconda o la terza, e nonostante abbia convissuto con questo libro in un lungo processo temporale, resta per me sempre una cosa nuova: un colpo, un brivido, una paura, una bugia, una verità, calore nel cuore.
D. Nella poesia lo haiku, e coerentemente nella musica l’ep, ossia un “piccolo album”. Si chiama “Braseiro”, ossia brace. Qualcosa che cuoce, che brucia, che si mangia. Perché?
R. Avevo questa immagine in testa, volevo lanciare un messaggio conciso e coerente, con forza sufficiente per significare qualcosa anche nella sua piccolezza. Inoltre assomiglia alla parola “Brasile”, ed è l’idea di un piccolo Brasile che sto portando con me, fuori. Cercavo canzoni da incidere tra le moltissime mie. Ho scelto di pubblicarle solo chitarra e voce per poter muovermi facilmente nella promozione, senza una band che dovesse sempre accompagnarmi.
D. Come hai scelto, tra i tanti, i brani da inserire in questo ep?
R. Lo scorso dicembre ho fatto un evento in BH con le persone che mi hanno accompagnato maggiormente in questo mio viaggio musicale, in uno show con oltre 15 canzoni dopo il quale ho chiesto loro di scegliere 6 canzoni che avrei inserito nell’ep, come una votazione. Le preferite sono state le 6 che ho inserito: Na bera, Recado, Praia do futuro, Ponte do Zamba, Rosa Verão. Ho solo ritoccato l’ordine.
D. Che genere di musica è inserita nel tuo album?
R. Sono polivalente, mi piacciono il rock, la classica, l’elettronica, il tropicalismo, la bossa. Ma non perché siano brani chitarra e voce che possono essere inseriti nella bossanova: sarebbe come dire che un pittore di oggi è modernista solo in quanto è moderno. C’è una scena molto grande in Brasile che ancora non ha un nome, e molti vi si stanno riferendo già come ad una “nuova MPB”. Questo nome comunque ancora non c’è, o non è ufficiale. In ogni caso sono anch’io parte di quella generazione che si include in questo movimento artistico.
D. Che rapporti hai con l’Europa, con l’Italia?
R. Madre di origine inglese, da cui il mio cognome Hargreaves, padre di origine italiana, di Cuccaro Vetere in provincia di Salerno. Da giovane ho studiato in Inghilterra, e lì ho potuto avvicinarmi alle mie origini materne. Volevo ricercare le mie origini e mi mancava la seconda parte, quella italiana. In questo mio viaggio, voglio trovare il tempo per andare a Cuccaro Vetere a fare un salto nel trascorso della mia famiglia paterna.
D. A chi ti ispiri?
R. È la domanda pù difficile. A questa non so mai rispondere, ma dirò che un’influenza l’ho avuta da Ryuichi Sakamoto, Nana Caymmi, Gustav Malher, Frank Sinatra. Imitavo Sinatra da quando avevo 5 anni. A 7 anni ero a dormire a casa di un compagno di classe e, durante la notte, andai in cucina a prendere un bicchiere d’acqua; i genitori del mio amico stavano guardando il Tg, che riportava della morte di Frank Sinatra. Mi cadde i l bicchiere dalle mani e mi misi a piangere. Dovettero chiamare i miei genitori e dire che non la smettevo più, solo perché era morto Frank Sinatra.
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