GIOVANNA PINI: ECCO IL CENTRO NAZIONALE CONTRO IL BULLISMO «BULLI STOP» (con intervento dello studente LUCA MURATORI)

In un mondo che cambia di continuo una cosa non è mai cambiata: il bullismo. Se non nell’ampliarsi e definirsi anche come «cyberbullismo». Ciò che si muove, oggi, però è l’informazione: possiamo fare finalmente qualcosa. Prima ciò non era possibile, non era concesso. Da una parte, in questa nuova società i genitori difendono i propri figli e non danno spazio ad altri modelli educativi; dall’altra, è opportuno modificare lo stesso approccio ai giovani, perché diventino parte di un processo di trasformazione che li faccia emergere e li renda consapevoli. A Roma nasce, a tale intento, il Centro nazionale contro il bullismo «Bulli Stop», presieduto da Giovanna Pini, che coinvolge i ragazzi nelle attività di più variegato genere, a partire da spot sociali e attività teatrali. Al Teatro Olimpico di Roma, il 27 maggio si esibiscono 250 ragazzi in «C’era una volta un bullo…». Fare per capire. Capire per cambiare. Ecco come.

Domanda. Il 27 maggio il Teatro Olimpico di Roma ospiterà il vostro spettacolo. Da cosa nasce il progetto?
Risposta. Lo spettacolo coincide con la nostra terza giornata nazionale «Giovani uniti contro il bullismo». A febbraio si è in realtà tenuta una giornata nazionale contro il bullismo, ma noi siamo stati i primi a farla, tre anni fa, con il Centro nazionale contro il bullismo «Bulli Stop» dove, per contrastare tale fenomeno, utilizziamo la teoria del «teatro d’animazione pedagogico». Per l’occasione portiamo in scena 250 ragazzi che hanno realizzato interamente lo spettacolo, dalle scenografie ai costumi, alla drammaturgia, alla recitazione: dalla forte aggregazione che hanno stabilito automaticamente il bullismo viene sconfitto. È, infatti, proprio con l’aggregazione che i ragazzi possono conoscersi, e rispettarsi. Il bullo, dotato di aggressività, non nasce cattivo; molti danno la colpa alla famiglia e all’ambiente in cui vive. La scuola ha un grande compito: se tutti i professori, che normalmente vedono i ragazzi per molte ore al giorno, facessero qualcosa per sconfiggere il bullismo e conoscessero bene i loro studenti, potremmo mettere un seme sano in ognuno di loro, molti di loro lo fanno e sanno quanto sia importante guidare i giovani di oggi.

D. Cosa fa, nelle scuole, il Centro nazionale contro il bullismo «Bulli Stop»?
R. Sono le stesse scuole a chiamarci per tenere dei dibattiti sul tema. Non vado sola, ma accompagnata da Teresa Manes, madre di Andrea Spezzacatena, il ragazzo che si è impiccato per bullismo, e con me porto sempre una decina di ragazzi di Bulli Stop, che sposano questa causa, devono parlare fra di loro perché è fra di loro che riescono a comprendersi meglio. Chi è stato un bullo porta la propria realtà nella scuola, ed emotivamente cambia tutto se è egli stesso che dichiara di aver sbagliato, in quanto riesce a catturare i propri coetanei. Con i giovani non si possono fare dibattiti teorici, dobbiamo renderli partecipi in modo che possano essi stessi formare una catena tra di loro per sconfiggere il bullismo. Quello che a noi manca e su cui lavoriamo da tempo, con il legale del nostro Centro Avv. Eugenio Pini, è una legge sensata, non una legge a tavolino fatta da chi non sta sul campo con i ragazzi tutti i giorni. Anche se adesso venisse approvata la proposta di legge in discussione, che implicherà la nomina in ogni scuola di un referente per il bullismo, non viene definita tale figura: si tratta di esperti o di psicologici? Che percorso hanno fatto per contrastare il bullismo? Da chi vengono formati? Non si possono fare le solite «italianate»; occupandomi da oltre 15 anni di bullismo mi è capitato di parlare con tante madri o ricevere le loro mail in cui segnalano di avere sì denunciato il bullo, ma di aver scatenato una reazione peggiorativa in cui i compagni di classe hanno preso ancora più di mira la vittima. Alcuni presidi replicano che queste sono «ragazzate» ed alcuni professori negano, c’è troppa omertà.

D. Che caratteristiche ha il bullismo?
R. Tre caratteristiche fondamentali: la ripetitività dell’evento, l’intenzionalità e l’asimmetria di potere. Se si presentano insieme, si può dire che è un caso di bullismo, se ne manca una potrebbe essere solo un caso di violenza o di scherno: bisogna saper scindere bene queste tre caratteristiche, un episodio isolato non si può definire come un atto di bullismo.

D. Come è nato il Centro?
R. Su iniziativa dei ragazzi, tanti adolescenti messi insieme nei numerosi anni di lavoro nelle scuole, proprio per affermare che «noi siamo diversi»: dalla loro idea abbiamo creato «Bulli Stop». All’Istituto G.G. Visconti di Roma, venivo a fare le prime sperimentazioni sul bullismo, ci sono anche altri insegnanti sparsi per l’Italia con i quali abbiamo contatti e che sanno fare il proprio lavoro: bisogna unire le forze di quelli che lo sanno fare, non di quelli che creano associazioni in un mese e vogliono cavalcare l’onda del bullismo, ognuno vuole brillare di luce propria ma per distruggere il bullismo ciò non è utile.

D. Chi sono i componenti del vostro Centro?
R. Io ne sono il presidente, mentre presidente onorario è il generale Luciano Garofano, ne sono portavoce Amadeus e Paola Perego, come madrina abbiamo Maria Grazia Cucinotta, come ambasciatori Max Gazzè e Paolo Genovese, come testimonial Antonella Mosetti e come media partner ufficiale rtr99 con Luca Casciani. Sono tanti anni che questi personaggi ci seguono e danno maggiore eco alle nostre iniziative. Inoltre, i ragazzi che partecipano al progetto hanno bisogno di sapere che sono importanti e hanno bisogno di visibilità, e lo stesso spettacolo viene presentato ogni anno da Amadeus. Ma se dal mondo adulto c’è questa disponibilità, è dai ragazzi che parte il tutto.

D. La vittima sta in silenzio però.
R. La vittima è silente, raramente parla, deve essere spronata a farlo e per questo dovrebbero essere previsti negli orari settimanali di tutte le scuole dei momenti di incontro in cui focalizzare le problematiche giovanili, coinvolgendo i ragazzi e facendoli sentire responsabili ed inseriti.

D. Anche se il bullismo c’è sempre stato, perché proprio oggi sta emergendo in maniera così significativa?
R. La società è cambiata molto, ma più in generale è cambiato il mondo della comunicazione: adesso un atto di bullismo si può filmare, mettere su Facebook ed essere condiviso da migliaia di utenti, il cyberbullismo viaggia ad una velocità stratosferica. Per lo spettacolo di quest’anno abbiamo preso tre favole: Dumbo, che era bullizzato per le sue orecchie, Cenerentola, esempio di bullismo al femminile con le sorelle e la matrigna, e Cappuccetto Rosso, in cui il lupo cattivo rappresenta il cyberbullismo e la realtà virtuale. Il bullismo è sempre esistito, anche nelle favole e nelle opere letterarie, ne è esempio lampante Pinocchio.

D. Ma perché proprio ora sembra diventato più forte?
R. È «esplosa cattiveria» da parte dei ragazzi per il fatto di non essere più seguiti costantemente dalla famiglia, mancano dei punti di riferimento: madre e padre di solito lavorano entrambi, non seguono sempre i figli, e andando avanti nel tempo stanno venendo meno i valori essenziali a partire dagli stessi genitori. Oggi questi ultimi difendono i figli anche se commettono atti di bullismo, e spesso sono i genitori che «bullizzano» i professori, mentre in altri tempi si prendevano schiaffi e punizioni per certi comportamenti. Noi portiamo alla cronaca atti di bullismo gravi, fisici, ma ci sono anche atti di bullismo psicologico, i quali uccidono la mente dei ragazzi, l’autostima, la crescita, gettando le basi per un futuro fragile. Non dimentichiamo che il bullo da adulto probabilmente avrà comportamenti antisociali, ma siamo noi che stiamo lasciando completamente da soli i nostri giovani, sembra quasi che questi si educhino tra di loro e così vengono meno punti di riferimento come la famiglia o la scuola, e il valore diventa quanto dice il compagno di classe, è lui che educa perché è con lui che si trascorre la maggior parte del tempo. E questo è il grande errore.

D. In che modo correggerlo?
R. Il nostro Centro nazionale contro il bullismo va direttamente nelle scuole a insegnare l’educazione al rispetto. I soldi dello Stato devono essere spesi nel modo giusto, bisogna fare una legge sensata, creare a monte una task force a livello legislativo, un tavolo tecnico di esperti che si occupano di bullismo da almeno 10 anni: non finanziamo progetti con soldi che non sappiamo dove finiscono. Il bullo non agisce mai da solo, ha anche affiliati e gregari che lo istigano, mentre gli affiliati della vittima di solito non parlano perché, dicono, altrimenti «le prendono» anche loro: che ne parlino allora in forma anonima alla polizia, alla polizia postale, ai carabinieri, perché prima di tutto anche queste figure pubbliche sono dei genitori, persone che possono capire ed aiutare. Ma anche l’amico non può star fermo a guardare, deve agire. E con tutti i casi che ci sono di professori o maestri che picchiano gli studenti, cosa stiamo aspettando a mettere le telecamere nelle scuole? Alcuni professori sono contrari perché dicono che in tale modo è lesa la loro privacy, ma cosa devono nascondere? In un caso di bullismo potrebbero guardare le riprese, non si giudica il lavoro di un professore. Sarebbe anche ora di inserire dei questionari nelle scuole per valutare gli insegnanti, stilati da psichiatri, educatori, pedagogisti; noi al Centro abbiamo come referente scientifico il professor Matteo Villanova, con cui abbiamo iniziato le ricerche sul bullismo nel 2002.

D. Come unire le forze?
R. Vogliamo creare il primo polo del Centro nazionale contro il bullismo su Roma, e da qui allargarci, fare corsi di formazione per genitori e insegnanti, dare supporto alla vittima che può venire a parlare con noi, avere il contatto con le forze dell’ordine, in poche parole: un polo gestito da gente che sa di cosa parla.

D. Avete creato vari video in cui risaltano i temi del bullismo, che si possono trovare sul vostro canale YouTube «Bulli Stop». Tra questi spicca: «Anime nere», che vede la presenza di giovani studenti. Come è finanziata questa attività?
R. Quel video, come gli altri, è stato fatto con le nostre amicizie e senza alcuna sovvenzione. Io leggo le mail, rispondo al telefono, incontro mamme, vado ai dibattiti, tutto a titolo gratuito, eppure il Centro non riceve finanziamenti mentre associazioni nate da meno di 6 mesi sì.

D. Negli altri Stati come funziona?
R. Dalle altri parti funziona tutto meglio, si è più supportati in tutto. Un esempio in eccesso: in America il poliziotto spara, mentre qui non può usare neanche il manganello.

D. Avete chi si occupa delle controversie che sorgono?
R. Abbiamo anche il settore legale, delegato allo studio dell’avvocato Eugenio Pini che ha curato molti casi di bullismo.    (ROMINA CIUFFA)

Ho intervistato uno dei giovani protagonisti dello spot «Anime Nere» (visializzabile qui sotto), finanziato dal «Bulli Stop» per sensibilizzare la società sul tema del bullismo: Luca Muratori, che frequenta il terzo anno del liceo scientifico internazionale Gian Galeazzo Visconti in Via Nazario Sauro. È lui che fa la parte della vittima nello spot sociale ideato e girato da Giancarlo Scarchilli con la supervisione della prof.ssa Giovanna Pini; gli altri protagonisti sono suoi compagni di scuola.

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D. Dove avete girato questo spot?
R. A Roma, esattamente nei giardini del Pincio a Villa Borghese. La parte della vittima è quella che mi riesce meglio. Con me un mio compagno di classe, Valerio Paradisi, fa la parte di uno degli affiliati del bullo: al tempo dello spot, ossia lo scorso anno scolastico, frequentavamo il secondo liceo scientifico internazionale. Gli altri due protagonisti sono compagni di scuola più grandi: Gregorio Palazzi, il bullo, e il secondo affiliato, Simone Tolino, che nel video mi imbavaglia con il nastro adesivo. Per girarlo abbiamo impiegato circa un paio di giorni ma la preparazione per arrivare a girare lo spot è durata circa tre mesi, fra organizzazione, doppiaggio, scelte delle location, sceneggiatura, montaggio etc, etc. Tutto questo grande lavoro per uno spot che dura 30-50 secondi realizzato con professionisti del cinema.

D. Cosa hai provato, cosa hai imparato da questa esperienza?
R. Nello spot ero legato e imbavagliato, e non era una bella sensazione sapere che queste cose accadono nella realtà quotidiana; è stato nello stesso momento tanto emozionante quanto triste.

D. Lo stesso vale per gli altri ragazzi dello spot, i «bulli»?
R. In quel momento ero tutto legato, vedevo che loro recitavano la propria parte, e sono certo che non provavano gioia nell’immedesimarsi in quel ruolo.

D. Prima di entrare a contatto con «Bulli Stop» conoscevi la problematica del bullismo?
R. Ne avevo sentito parlare in tv, ma direttamente non più di tanto perché credo che questa piaga sociale si possa trovare in fasce di età più alte, verso i 15-16 anni. Non manca anche prima dei dieci anni, ma di certo è meno frequente. Ora, insieme ai miei compagni di scuola, siamo coinvolti nel progetto «Bulli Stop» e cerchiamo di rendere il nostro ambiente più vivibile, più attento.

D. Come sei entrato a far parte di questa iniziativa?
R. All’interno del Visconti è presente la scuola di teatro d’animazione pedagogico di Giovanna Pini: è stata lei ad introdurci nella lotta contro il bullismo. Ogni anno realizziamo e portiamo in scena uno spettacolo al Teatro Olimpico, sia la sera che la mattina per i ragazzi delle scuole di Roma, con cui intendiamo evidenziare il problema su palchi più ampi che non quelli scolastici dove il fenomeno nasce e, a volte, anche muore, per la scarsa visibilità o l’omertà che lo contraddistingue.

D. Ti è mai capitato di assistere di persona a scene di bullismo?
R. Sì, e non sono piacevoli da vedere.

D. Come hai reagito?
R. Non sono rimasto fermo lì a guardare la sofferenza di una persona debole, sono andato ad aiutarla. Ma so che, in realtà, ad essere debole è proprio il bullo.

D. Da dove pensi parta il bullismo?
R. Non tanto dal ragazzo, ma dalla famiglia, dai genitori: il bullismo è una mancanza di qualcosa, può ad esempio essere imputato a maltrattamenti da parte dei genitori, all’assenza di amici, alla scarsa considerazione che riceve. Il bullo può provenire da situazioni difficili, può essere orfano, i genitori possono fare violenza, maltrattamenti, o drogarsi. Per questo, ha necessità di «emergere» e lo fa con comportamenti deviati.

D. Come può un genitore affrontare il figlio «bullo»?
R. È difficile: il bullo non racconta mai la propria fragilità interna, e per il genitore può essere difficile capire se il figlio sia un bullo o no.

D. Se i genitori, in linea generale, sono impossibilitati ad intervenire, chi può farlo?
R. I bulli non vogliono cambiare perché sono contenti del proprio comportamento, ne vanno fieri, e non riflettono sul male che arrecano: non ci pensano proprio a farsi aiutare.

D. E la vittima può farsi aiutare?
R. Potrebbe sentirsi, nella maggior parte dei casi, in imbarazzo a raccontare le angherie subite, e chiudersi in se stessa. Ma l’insegnante potrebbe percepire questo malumore e fare molto. In classe è capitato di prendere in giro un amico in maniera bonaria, magari provocando una reazione ben più grave che noi non possiamo prevedere. Molte volte quando questo compagno è assente in classe i professori ci domandano il perché di certe prese in giro. L’insegnante è fondamentale, dato che i ragazzi vivono più fuori casa che in casa, ed può essere certo una fonte di miglioramento per noi.

D. Cosa ti ha apportato la conoscenza di Giovanna Pini?
R. Nonostante io non sia né un bullo né una vittima, mi ha dato grandi insegnamenti in questi anni. Mi ha aiutato nella recitazione, ma soprattuto dal punto di vista caratteriale perché prima ero molto timido, ora sono diverso e più consapevole. Sarebbero necessarie, nelle scuole, figure come la sua, ma purtroppo è raro. Noi del Visconti siamo molto fortunati, forse un caso unico.          (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Giugno 2017

 




USA: MA COME SI DICE, IN ITALIANO, “PICCIRIDDU”?

New York. Si lamenta perché, dice, in America non si parla che l’americano. Dice che le scuole, i media, i cervelli sono, monopolizzati. Si sente italiano più che americano e, a dirla tutta, in Italia c’è stato solo pochi giorni che, contati su 49 anni, non lo rendono proprio italiano. Ma dice «grazie assai» e «statte buono». Ascolta Lucio Battisti, Rita Pavone, Daniele Silvestri, Vasco Rossi. «Sonno» lo pronuncia «sono», e «gente» per lui è un plurale. Non è alto e in America questo non fa onore, soprattutto quando si tratta di giocare a basket. Ha occhi scuri, capelli scuri, cuore scuro. Suo padre è morto. Sua madre vive nell’America più profonda. Entrambi sono nati calabresi. I suoi nonni erano emigranti e così hanno dato alla famiglia una possibilità di crescere.

È tornato qualche anno fa al proprio paesino, arroccato sui monti dell’entroterra calabrese, per salutare un cugino. Ma l’avevano ucciso. Perché? Non lo sa. Dove? Non lo sa. Da chi? Non lo sa. Nessuno parla, come suo cugino. Mi vengono in mente «I cento passi» del regista Marco Tullio Giordana, e la storia di Peppino Impastato di Cinisi, che il padre aveva provato a mandare, ma guarda un po’, proprio in America, una meta a caso: non c’era riuscito, anche se l’idea di aprire una radio negli Stati Uniti l’aveva stuzzicato. Gli zii americani ce li aveva pure Peppino, ma era rimasto in Sicilia a fare propaganda contro Tano Badalamenti. Non che il cugino di «Grazie Assai» abbia avuto a che fare con Tano, ma «non lo so» hanno risposto pure a lui quando ha chiesto il perché. Un altro viaggio «Grazie Assai» se l’era fatto qualche anno prima, accompagnando suo nonno al cimitero, lo stesso. Li aveva aspettati tutto il paese all’aeroporto. È tornato! È tornato!

«Se potessi avere mille euro al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità»: alza il volume della canzone di Daniele Silvestri mentre mi racconta che gli manca l’Italia e che suo cugino Gaetano l’aveva conosciuto solo negli ultimi anni, perché prima lui parlava poco l’italiano – s’interrompe e ripete: «Sempre perché qui non impariamo niente» -, e il cugino non una parola d’inglese. A dire il vero, poche pure di italiano: È tornato!

«È la solita vita, la solita rincorsa a una corriera già partita, perpetuo movimento sulla strada che all’andata, così come al ritorno, è sempre una salita». Sai, mi dice, era proprio un brav’uomo mio cugino Gaetano. Ha lasciato una moglie e tre figli. Andavo al paese e tutti mi volevano bene, mi facevano sentire di appartenere. «I belong», e stringe il pugno. Poi mi racconta che nell’Indiana, dove vive, ha tre amici napoletani. Sarebbero quattro fratelli, ma uno s’è perso per strada. Perché? Che è successo? Niente d’importante ma, mentre lo dice, ride, anzi ridacchia; ha rubato 50 mila dollari al fratello. E come? Un giorno è andato in banca, ha firmato i «segni» al posto del fratello e ha riscosso sull’unghia (ma sull’unghia non lo dice). Il giorno dopo la banca ha chiamato il fratello: perché avrebbe firmato assegni per una cifra non disponibile sul conto? Io non ho mai firmato assegni. Non ne sapeva niente, davvero. L’altro aveva da anni la delega in banca, anche in America questa volta la si è fatta franca. Chiedo: «E cosa è successo poi, fra i fratelli?», chiedo, perché m’interessa sapere più questo che non di come sia andata sul piano legale; più come una famiglia napoletana impiantata in America con varie Green Card e quattro ristoranti («Ma non sai quanto è buona quella pizza»), si mantenga nel tempo, se è vero che essere lontani dalla propria terra unisce.

Risposta? Sì, unisce. E perché allora, domando, un fratello avrebbe fatto questo all’altro? Perché aveva bisogno di soldi e la moglie, l’unica italiana tra le quattro spose per i quattro fratelli, qui non ci sapeva proprio stare, non ci voleva stare, non ce la faceva più. Mica è facile. «È la solita vita, è il solito miracolo che svolta la giornata, l’evento microcosmico di minima portata, una mancia ricevuta, una cena regalata; e con la dignità rimasta, volevo vederti arrivare vestita di seta, di festa, magari fare quattro salti in pista, ma forse è meglio se rimani là».

«Se potessi avere mille euro al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità: una casettina di periferia, una mogliettina giovane e carina, tale e quale come te».

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Arrivato in Italia, lo arrestano per precedenti reati, e lui si guadagna il titolo: è ufficiale, è la pecora nera della famiglia. Che poi nera non è, ma solo impaurita, forse, come se qualcuno stesse tirando in aria colpi di fucile al gregge per farlo riagglomerare fuori dal suo rettangolo d’erba. Ed ora che è fuori – perché i reati commessi in Italia non erano poi così gravi -, attende che si prescriva quello americano, se già non è prescritto. Ppoi ci penserà. Più probabilmente non tornerà nemmeno, perché lui l’inglese, come pure i suoi fratelli che vivono da anni in America, non lo parla proprio. Non gli entra. È un bravo guaglione, lui e gli altri tre. Per fare la pizza la lingua non serve.

E, canta ancora Daniele Silvestri, «dovrò dosare la fatica, imparerò a parlare in questa lingua sconosciuta, sognando di riuscire, un giorno, a fare ricevuta tra gente compiaciuta e che di me si fida». Si fida? Chi si fida? «Grazie Assai» mi dice che «la gente italiana sono apprezzati in America», e qui viene il dubbio: ma se non ci fidiamo l’uno dell’altro in madrepatria? Ma se prima di firmare un contratto chiediamo pure di che quartiere uno è? Ma se siamo tutti cani con le museruole? No, forse qualcuno si salva.

«E non è piccola la sfida, querida, disperso in questo angolo d’Europa unita». Fidarsi pure in Europa, che ora ci è alle calcagna. Fidarsi della storia? Non ha insegnato nulla. Delle esperienze? Ma quelle di chi? Fidarsi di me? Questo mai. Quando anche una guerra decisa sei ore prima ha interferito nei rapporti umani e disumani, fidarsi? E di chi? Di lui. Lui quale? Indicalo meglio. Quello laggiù, con la cravatta? No, scusa, quello con il tatuaggio sul collo? Scusa, non so a chi ti riferisci. E poi si vede che quella cravatta è finta. Io direi più lei. Come lei, lei quale?

Dispersi in un angolo di vita, «ti metto la valuta in una busta, la spedirò per posta, ma poi non basta mica: se tu sapessi quanto costa la vita, sapessi quant’è faticoso riuscire a tenerla pulita». Dove sono le opportunità? Gli dico che è stato più fortunato lui di Gaetano, che non ha avuto nemmeno la possibilità di annusarla, l’America; di annusarla, l’Europa; di annusarla, l’Italia. Perché il lutto, dopo il suo funerale, è stato tenuto dalle donne per tre mesi. E poco prima, quando nel viaggio precedente il compaesano emigrato era tornato a casa orizzontale, gli uomini hanno allontanato le femmine, hanno aperto la bara e hanno controllato che la salma fosse dentro. Lui era lì, non capiva, perché allontanare le donne? Cosa succede ora?

La mia domanda era stata, inizialmente: cos’è una Funeral Home? E cosí chiude il capitolo e mi risponde: «Tutto questo per dirti che qui, in America, la Funeral Home ospita ed espone la salma, che poi viene portata al cimitero e sepolta». Ed io che credevo che si facesse festa davanti al morto, si mangiassero pasticcini, si bevesse vino e, sussurrando nella stessa o nelle stanze accanto, si spettegolasse su quante donne aveva avuto e sul vestito della figlia: «Che orletto mal fatto»! No, mi spiega, questa non è l’America. This is more British. La festa si fa in Europa. La festa, una cerimonia per commemorare il defunto.

Mi guarda, l’aria un po’ sognante, e mi dice: «Non vedo l’ora di tornare al mio paese». Il paesello su una rocca, lo sprofondo dell’Italia, è nascosto nel cuore di un grande americano. Opportunità, mi dice. Sì, è vero, sono nato fortunato. L’America è un Paese ricco di opportunità. Ma freddo. Ma duro. Ma conservatore. Ma schivo. Lo sa che è stato fortunato, perché è un Giano bifronte che conosce due realtà, una nel cuore e l’altra nel cervello. Racconta che suo padre, dopo i 18 anni, gli faceva pagare 20 dollari a settimana d’affitto e un dollaro ogni volta che non avesse sistemato la stanza. In America.

Dall’altro lato, sua madre cucinava, il padre tornava e leggeva il giornale, e i figli li hanno fatti perché Dio li ha voluti, secondo la tradizione cattolica: Italia. Lui sta bene, fa una bella vita, comoda, lavora duro e può permettersi i propri lussi, ma lo vedi che non è soddisfatto, lo senti che gli manca un pezzo, e te ne accorgi quando ti guarda e lucidamente ti dice che non si vuole legare, e poi ti domanda: «Ma come si dice, in italiano, picciriddu?» (ROMINA CIUFFA)




TANIA SCACCHETTI: CGIL, TRA VOUCHER E CARTA DEI DIRITTI UNIVERSALI DEL LAVORO

L’assemblea della Cgil ha eletto il 29 novembre 2016 la nuova segreteria confederale nazionale con l’83 per cento. Cinque i nuovi ingressi al fianco di Susanna Camusso: tra questi anche il nome di Tania Scacchetti, segretaria della Camera del Lavoro di Modena. Nata 43 anni fa a Modena, Tania Scacchetti, sposata, due figli, diplomata al liceo classico, comincia la propria esperienza sindacale nella categoria del commercio da delegata della Cir (Coop italiana ristorazione) mentre frequenta la facoltà di Sociologia a Trento. Nel 2000 entra in distacco alla Filcams Cgil e nel 2005 viene eletta nella segreteria provinciale della categoria. Due anni dopo passa alla segreteria confederale di Modena, dove assume la responsabilità dell’area welfare. Il 3 dicembre 2012 il comitato direttivo della struttura la elegge, a larga maggioranza, nuovo segretario generale provinciale della Cgil di Modena ed è stata riconfermata il 5 marzo 2014, al termine dei lavori del XVII Congresso provinciale. Il 29 novembre 2016, al termine della votazione dell’assemblea generale della Cgil, entra a far parte della segreteria nazionale.

Domanda. Il lavoro occasionale sembrava, all’inizio, un ottimo incentivo nell’attuale crisi del lavoro, dando la possibilità a più lavoratori di essere attivi, ivi inclusi i pensionati, le casalinghe, i disabili, gli extracomunitari, gli studenti. Quindi l’allargamento dell’utilizzo del buono anche ai settori professionali. Da cui i famigerati «voucher». Cosa pensa la Cgil del voucher in sé e delle modalità in cui esso è stato abolito, dopo una campagna che ipotizzava il referendum per il 28 maggio?
Risposta. In Italia il sistema dei voucher ha subìto notevoli variazioni e modifiche. Nel 2003 i buoni lavoro erano destinati solo ai soggetti a rischio esclusione sociale per attività lavorative di natura meramente occasionale, e il campo di utilizzo era riservato esclusivamente a piccoli lavori domestici, assistenza ai bambini e agli anziani, ripetizioni, lavori di giardinaggio, e per manifestazioni culturali e sociali. Tra il 2010 e 2012, lo strumento del voucher ha perso ogni riferimento alla occasionalità, tutti i soggetti e tutti i settori potevano utilizzarlo, con il solo vincolo del tetto economico. Divenne così uno strumento malato, abusato e irriformabile perché sostitutivo del lavoro ‘buono’. Per questo ne abbiamo chiesto l’abrograzione tramite uno dei quesiti referendari a supporto della nostra proposta di legge, la Carta dei diritti universali del lavoro. Oggi siamo di fronte ad una prima vittoria: il Governo ha varato un decreto che ne prevede la cancellazione, ora aspettiamo che il Parlamento faccia la legge, a quel punto potremo dire di aver compiuto un grande passo contro l’impoverimento continuo del lavoro e dei suoi diritti, come unica logica della competizione.

D. Crede che un referendum avrebbe ammesso il voucher o lo avrebbe abolito? Quali sono le prossime iniziative della Cgil per movimentare il Governo e il Legislatore?
R. Da molti mesi siamo impegnati, prima con le assemblee, poi con la raccolta firme e adesso con la campagna elettorale, a discutere e a confrontarci con i cittadini ed i lavoratori. Abbiamo riscontrato molta condivisione sui temi proposti e la volontà di rimettere al centro del dibattito e delle scelte politiche del Paese i diritti del lavoro. Siamo certi che i referendum popolari avrebbero mobilitato molti elettori e trovato il loro sostegno. Finché non avremo una legge in merito che fa decadere la consultazione referendaria, prevista per il 28 maggio, continuiamo la nostra campagna elettorale. In programma abbiamo numerose iniziative su tutto il territorio nazionale e l’8 aprile si terrà a Roma un attivo nazionale dei nostri quadri e delegati per organizzare la nostra sfida per i diritti e conquistare la Carta dei diritti universali del lavoro.

D. Sembrerebbe che l’introduzione dei «buoni-lavoro» abbia, piuttosto che ridurlo, aumentato il lavoro nero. Vero? In che modo? In realtà, molto spesso i voucher sono stati utilizzati come «fuori-busta», una sorta di ricatto anche al dipendente. Cosa ne pensa?
R. Siamo certi che l’uso dei voucher abbia favorito e non ridotto il lavoro nero. In questi anni di completa deregolamentazione dell’utilizzo dei buoni e in assenza, quasi totale, di percorsi certi e controllati di tracciabilità, il voucher, in molti casi, ha remunerato solo una parte residuale delle ore di lavoro svolte da una persona. Un fenomeno diffuso rilevato anche dall’Inps. Il fatto che non esista un contratto a normare l’uso dei voucher, ma che il rapporto sia solo fra il prestatore e l’utilizzatore rende certamente ricattabili i lavoratori: molti ci riferiscono che viene loro detto che li si farà lavorare solo se sono accettati i voucher.

D. E in che modo con l’impiego dei voucher possono essere tutelati i diritti fondamentali del lavoratore (a partire dagli infortuni sul lavoro o la maternità)?
R. I lavoratori pagati con i voucher non hanno tutele, non hanno diritto alla malattia, alla maternità, alle ferie, ai permessi o alla disoccupazione. La maggior parte dei ‘voucheristi’ non riesce ad accumulare un numero di contributi utili a maturare un mese di contribuzione all’anno.

D. Con l’eliminazione del voucher, in che modo possono essere aiutati i lavoratori più deboli? E come tutelarli?
R. Noi abbiamo una nostra proposta, contenuta nella Carta dei diritti, per normare il lavoro occasionale e considerarlo nell’ambito del lavoro subordinato, quindi riconoscendo tutti i diritti previsti dallo stesso. Crediamo che il contratto di lavoro subordinato occasionale debba avere natura meramente occasionale e saltuaria ed essere attivato solo per studenti, inoccupati, pensionati e disoccupati per piccoli lavori domestici, familiari o per la realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali di piccola entità. Pensiamo inoltre che opportunità di qualificazione professionale possano rappresentare un sostegno per i lavoratori più deboli.

D. In che modo l’Italia può combattere l’elusione e l’evasione? Ci sono proposte CGIL che riguardino il lavoro nero e che non è accettata dai vari Governi? Quali sono?
R. In Italia ogni anno vengono evasi dai 91 ai 180 miliardi di euro, 47 solo di Iva, risorse preziose che vengono sottratte al rilancio dell’economia. Infatti, i miliardi evasi non ingrossano né i consumi né gli investimenti, ma sono accumulati prevalentemente in ricchezze private. Per questo crediamo serva una vera e grande lotta all’evasione fiscale per l’equità, l’efficienza e lo sviluppo del Paese. È necessaria una riduzione strutturale della ricchezza evasa più che il recupero di una imposta ormai non pagata. Proponiamo una serie di azioni volte alla trasparenza della formazione del reddito e alla repressione delle irregolarità attraverso la tracciabilità, la rapidità e la semplicità delle informazioni sui movimenti di beni, servizi e denaro, e lo sviluppo tecnologico. Tutto ciò però non può prescindere da una forte volontà politica.

D. I giovani sono patrimonio italiano. Per quanto ormai si parla di giovani anche quando si tratta di ultraquarantenni… Non siamo più un Paese dove il lavoro è un diritto, la meritocrazia una garanzia, una vita «normale» scontata. Molti non fanno figli perché non hanno lavoro né casa. Si fugge dall’Italia, perdiamo così tutto l’investimento fatto sull’istruzione e la formazione, ma forse la piaga più grande è proprio quella dei «giovani» che in Italia restano. Se ne parla, se ne parla, se ne parla… eppure i curricula non arrivano mai da nessuna parte e non vengono letti. Il nepotismo prevale. Le paghe sono al limite del vergognoso. Dov’è finita la «dignità»?
R. Per la Cgil la vera emergenza sociale del Paese è la disoccupazione giovanile e l’aumento dei giovani intrappolati nella condizione di Neet (Not in Education, Employment or Training, ndr). Le riforme del lavoro, ultima il Jobs Act, e il programma europeo di Garanzia Giovani non hanno rappresentato una svolta per la condizione giovanile, anzi hanno contribuito alla precarizzazione e al proliferare di tirocini che raramente si sono trasformati in stabili occasioni di lavoro. Il programma europeo può rappresentare un’importante opportunità, se però non lo si utilizza solo come ‘escamotage’ dalle imprese per ridurre il costo del lavoro. Riteniamo che non sia più rinviabile una discussione su un piano straordinario per l’occupazione giovanile, come proponiamo da tempo.

D. Cosa pensa la CGIL del problema degli immigrati? In generale e dal punto di vista del lavoro. Una posizione chiara? Proposte ferme?
R. Innanzitutto il fenomeno migratorio non è un problema, ma una risorsa, una grande opportunità sia per chi parte sia per le società che accolgono. In Italia, così come in tutti i Paesi di destinazione, la forza lavoro degli immigrati rappresenta un sostegno prezioso perché spesso utilizzata per compensare la carenza di risorse interne in determinati ambiti produttivi e, in generale, per contrastare il progressivo invecchiamento della popolazione. In questi lunghi anni di crisi, i lavoratori stranieri hanno ricoperto un ruolo ancor più centrale per le dinamiche occupazionali. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un’inversione di tendenza: gli emigrati italiani all’estero sono cresciuti più degli immigrati in Italia, e spesso, purtroppo, a partire sono i giovani, con una grande bagaglio, quello formativo. Per questo ribadisco la necessità di un piano straordinario per l’occupazione giovanile.

D. Per quanto riguarda le pensioni, come possiamo immaginare un futuro che ci garantisca di recepirle, e, soprattutto, com’è possibile che si continui ad aumentare l’eta pensionabile ma senza possibilità di trovare lavoro?
R. Gli effetti di una riforma sbagliata come quella Fornero sono sotto gli occhi di tutti. L’innalzamento dell’età pensionabile ha penalizzato moltissime persone poiché i lavori non sono tutti uguali ed è impossibile continuare a svolgere determinate mansioni ad una certa età. Ma, soprattutto, spostare sempre più avanti i requisiti per l’accesso alla pensione costituisce un impedimento alle assunzioni dei giovani. Da mesi siamo impegnati unitariamente per modificare la legge. Con l’ultima manovra abbiamo ottenuto alcuni risultati per la tenuta del potere di acquisto dei pensionati e per consentire ai lavoratori precoci, in determinate condizioni, di accedere alla pensione con il requisito di anzianità di 41 anni, un diritto che secondo la Cgil dovrebbe essere esteso a tutti. Inoltre nella legge di stabilità si prevedono due misure: l’Ape volontaria, strumento per noi negativo ed ingiusto poiché vincola l’accesso anticipato alla pensione ad un vero e proprio mutuo, e l’Ape sociale, in cui, per lavoratori in determinate condizioni di svantaggio, il costo del prestito è a carico dello Stato. I decreti attuativi relativi a questi interventi, in via di definizione, presentano alcuni limiti, in particolare la definizione di platee molto ristrette. Andrà poi affrontato il nodo di come garantire un futuro previdenziale universalistico e dignitoso alle giovani generazioni, che si affacciano tardi nel mercato del lavoro, hanno spesso carriere discontinue e basse retribuzioni. Questi ed altri temi sono oggetto di un confronto per noi necessario e sul quale manteniamo aperta la mobilitazione sindacale.   (ROMINA CIUFFA)

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CONFSAL: MARCO PAOLO NIGI, VOUCHER O NON VOUCHER SI “VUOLE” EVADERE

Per lui, il sindacato è una scuola di vita. Scuola anche perché è dalla scuola che proviene, come professore. Segretario generale della Confsal, principale Confederazione dei sindacati autonomi, e dello Snals, storico rappresentante dei lavoratori della scuola, spiega la sua visione tout court sullo stato generale del mondo del lavoro, a partire dai famigerati «voucher».

Domanda. Cosa pensa dei voucher?
Risposta. Il voucher poteva servire a diminuire il lavoro nero ma per come è stato proposto ha dimostrato il contrario, e cioè il suo stesso aumento, un paradosso.

D. In che modo ciò è accaduto?
R. Il primo errore commesso dal Governo è stato quello di non distinguere le categorie: non si può assolutamente pensare di abbracciarle tutte sostituendo la retribuzione con i voucher. Dovevano essere esclusi innanzitutto i lavoratori dipendenti che non possono accedere ai voucher perché hanno i contratti che li tutelano sotto il piano fiscale, retributivo e contributivo; dovevano invece essere incluse altre categorie quali i lavori cosiddetti domestici, a cominciare da giardinieri, casalinghe, elettricisti, falegnami, donne delle pulizie, perché non si possono tutelare con contratti di lavoro occasionale. Eppure i voucher sono stati estesi dal settore «domestico» a quello professionale. La paura nei riguardi di una Confederazione come la Confsal – che aveva detto che avrebbe raccolto le firme per il referendum e, di fatto, le ha raccolte -, più in generale la paura di perdere il referendum, ha portato il Governo a fare un altro errore: non a modificare lo strumento ma a toglierlo di mezzo. E questo è stato un secondo errore, perché il voucher costituisce di base un’idea valida.

D. In che modo i voucher hanno inciso o inciderebbero sulla pensione?
R. Le pensioni sono un sistema che si regge in piedi su un equilibrio finanziario entrate=uscite, è così che garantiamo a tutti le pensioni. Ma nel momento in cui si presenti un disavanzo esso va coperto, altrimenti non è possibile pagare le pensioni, sperando inoltre che i più anziani muoiano, e si dà una reversibilità a una percentuale più bassa. Se si aggravano le uscite bisogna agire sulle entrate e ciò lo fa lo Stato con l’aumento del debito pubblico. I problemi del mondo d’oggi che interagiscono con le pensioni sono anche le coppie di fatto, le unioni civili, i matrimoni con le donne dell’est che si lasciano sposare e ottengono la pensione di reversibilità. Così, a forza di aumentare l’età pensionabile, arriveremo a cento anni. Noi riteniamo che sia necessario aumentare il numero dei contribuenti, per questo eravamo favorevoli ai voucher, concettualmente utili alla lotta all’evasione fiscale e al sommerso. Il voucher è stato creato dal Governo Berlusconi, poi cambiato dai premier successivi Monti e Renzi; prima erano lotta all’evasione, poi si sono trasformati in un incentivo perché invece di assumere, al datore è proposto il voucher, e il resto è dato al nero.

D. Può essere anche considerato come un ricatto al dipendente?
R. Certo, il datore di lavoro cerca di risparmiare sempre mentre il lavoratore è una categoria debole che pur di guadagnare, soprattutto in tempi di crisi, accetta qualunque compromesso. In realtà l’evasione non si risolve perché non ce n’è la volontà, non perché non ce ne siano le possibilità.

D. Secondo la sua esperienza, nel referendum chi avrebbe vinto?
R. Avrebbe vinto chi proponeva il referendum, ossia chi ne voleva l’eliminazione, perché anche i lavoratori si sono resi conto che questi bonus per il lavoro accessorio non andavano a loro vantaggio, peraltro non garantendo nemmeno i diritti classici come in caso di incidente sul luogo di lavoro o i mesi dedicati alla maternità. Dai voucher il «piacere» lo hanno avuto solo i datori di lavoro e questo molti lavoratori lo sanno.

D. I voucher vengono usati negli altri Paesi, ma funzionano?
R. Funzionano e ci sono, come in Germania e nei Paesi del nord.

D. Manca la dignità del lavoro: come si spiega che all’estero le cose funzionino, mentre da noi è un’epopea?
R. In atto ci sono tanti contrasti; il primo è quello di un fisco europeo diverso da nazione a nazione. La paga oraria di un operaio tedesco è uguale alla paga di un operaio italiano, 19 euro l’ora, però il netto che percepisce il lavoratore tedesco è il doppio di quello che percepisce il lavoratore italiano perché il 53-55 per cento glielo porta via la tassazione. Si ha una moneta unica, una politica unica, ma un fisco diverso, quindi la prima cosa che dovrebbe farsi è unificare il fisco in modo che la paga netta di un operaio sia uguale per tutti.

D. E i giovani come faranno?
R. Vorrei fare un discorso partendo più da lontano: è la scuola che mette nelle condizioni di non essere meritevoli. Oggi sono usati solo due voti, il 9 e il 10, e il 5 non lo da più nessuno altrimenti i genitori divengono subito i sindacalisti dei propri figli. Quindi c’è un diritto allo studio ma non c’è un dovere di studiare: in Italia bisogna cambiare la scuola perché se non c’è istruzione non c’è futuro, bisogna rivalutare il ruolo sociale degli insegnanti. I giovani devono fare un percorso di istruzione, educazione e formazione, ci vorrebbe una scuola diversa, dove si studia, dove ci si impegna e dove va avanti il merito. Bisognerebbe aumentare gli anni per la preparazione di base e diminuire gli anni universitari, invece si sta facendo il contrario. L’ho definita umoristicamente la «teoria dell’uovo sodo»: se si mette un uovo a sodare per oltre 6 minuti l’uovo diventa verde ed è da buttare. I giovani di oggi sono diventati verdi. Ho cominciato a insegnare nel 1968 e guadagnavo 107 mila lire al mese, ora gli insegnanti prendono circa 1.200 euro, ma non c’è né paragone né proporzione perché se prima una stanza costava qualche milione di lire, adesso ci vogliono migliaia di euro, per cui un giovane non può neppure comprarsi casa. C’è da dire un’altra cosa; allora era poca la retribuzione ma era alta la considerazione sociale, ora un giovane insegnante viene definito non all’altezza. Bisogna ripartire dall’investimento nella scuola, non considerarlo un costo: non va tagliato bensì considerato un investimento redditizio. Stanno cercando di massificare tutti i cervelli in modo che non abbiano elementi di criticità e che siano manovrabili.

D. Credete ancora nel potere dello sciopero?
R. Lo sciopero è un’arma obsoleta cui un sindacato moderno non dovrebbe neanche pensare, andava bene una volta quando ci si credeva e quando c’era un padrone, una controparte; oggi questa figura non esiste più, non esistono più né l’operaio né il padrone. Se persiste l’attuale situazione di crisi, si possono determinare proteste non controllabili o l’utilizzo estremo dello sciopero. Ultimamente si sono visti gli orrori da parte della Pubblica Amministrazione e del potere politico, che farebbero arrabbiare anche le persone più pacifiche. La storia degli 80 euro introdotta dal Governo Renzi, ad esempio: hanno calcolato questi 80 euro andandoli a sommare al reddito e quindi chi ne usufruisce deve pagare ulteriori tasse, portando i contribuenti all’esasperazione. Inoltre, così facendo hanno parificato colui che prendeva uno stipendio di non oltre 1.300 euro con colui che aveva ottenuto, per scelta del datore, uno stipendio da 1.380, in un certo senso colpendo la meritocrazia anche qui. Altra cosa grave accaduta di recente è stata quella di consentire a Luca Cordero di Montezemolo e Diego Della Valle di mettere treni sulla nostra linea ferroviaria, causando una congestione del traffico con spaventosi ritardi e non dando alcun vantaggio ai contribuenti nonché viaggiatori, perché i binari si sono «intasati» e si corre sempre il rischio che un treno si fermi e blocchi gli altri. Tutto questo si è fatto per liberalizzare, perché quegli stessi che volevano nazionalizzare sono gli stessi che ora vogliono privatizzare; coloro che hanno rovinato l’agricoltura sono gli stessi che oggi danno gli incentivi per tornare a coltivare la terra. Possono permettersi di farci qualsiasi cosa.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Aprile 2017

 




RAI: CON IL MIO STIPENDIO PAGO LO STIPENDIO DI BRUNO VESPA

La Rai nasce con un regio decreto (il n. 1067) nel 1923. Subito dopo la prima guerra mondiale, subito prima della seconda, e in periodo fascista, nel quale Benito Mussolini puliva l’Italia dal triennio rosso (gran confusione) e poi, prendendosi tutto il braccio oltre che la mano (in posizione alta e definita peraltro), animava una propaganda monopolistica per sottomettere le masse ad una promozione di valori predefiniti dalla dittatura. Fin qui “tutto bene”. Non è pericoloso precipitare, è pericoloso atterrare. L’atterraggio avviene in questo modo: spostiamoci di tanti anni, e arriviamo al referendum popolare del 1995, che conduce all’abrogazione della legge che riservava esclusivamente alla mano pubblica il possesso delle azioni RAI. Tale privatizzazione non è stata mai avviata. L’oggetto della fornitura, in effetti, è la produzione dei programmi di servizio pubblico, ossia pagati dal contribuente attraverso una forma di tassazione, definita “canone”. Un’eccezione al nomen omen: parlare di “canone” non modifica l’evidenza che si tratti di una tassazione sulla proprietà o, per generalizzare, sul possesso di mura (prima, seconda casa, appartamenti collegati, stanze limitrofe, la nonna che vive all’altro piano etc.). Possedere, solo possedere una TV, è come avere della droga in casa: si è “sanzionati”. 

Perché, oggi, la definirei “sanzione”, se è vero che quest’ultima viene applicata contro la volontà dell’utente, sia pure in funzione della violazione di una regola. In linguaggio dell’uomo di strada, una punizione. In questo caso non c’è violazione da parte dell’utente che possiede una TV, come fosse una busta di stupefacenti: nelle nostre case possiamo possedere qualunque cosa sia legale. Pertanto la “sanzione” è applicata sine causa: non v’è violazione di alcuna norma nel possedere una TV o una radio. Ma se prima la RAI aveva una funzione sociale di informazione, diritto costituzionalmente garantito, oggi non l’ha più per due ordini di motivazioni.

Innanzitutto, perché le frequenze sono state liberalizzate, ed a fronte di un mercato che è libero non può permanere un monopolista obbligatorio. Meglio detto: non perché posseggo un’automobile lo Stato ha il diritto di mandarmi multe a casa per il possesso. Lo può fare solo in ragione di una violazione. Nel caso della TV, mutatis mutandis, non perché se ne possegga una, o 100, ciò voglia dire che la RAI (nei suoi 10 attuali canali televisivi) sia guardata o apprezzata. Sky non obbliga a pagare un canone, è la scelta del consumatore che, seguendo i propri gusti, opta per adottare un servizio a pagamento. Questa è libertà. Ogni cittadino libero ha il diritto di partecipare attivamente a quei processi dove vengono prese le decisioni di interesse pubblico, televisione inclusa. Inoltre, nei telegiornali le notizie sono alterate dalla composizione del Governo, pertanto si sta pagando, con una nuova, ulteriore mazzetta, il corpo politico, che impiegherà tali fondi per trasmettere la propria propaganda scegliendo i contenuti. Non è, esattamente come un centinaio di anni fa, l’approccio mussoliniano?

Va bene, fingiamo di trovarci – e non ci troviamo – in uno Stato democratico, costituzionale, in cui tutti possiamo scegliere i nostri diritti con i soli limiti dell’Altro. La democrazia è un’utopia. Aristotele la collocava tra le forme degeneri dello Stato assieme a tirannide ed oligarchia del resto. La tirannide per il filosofo è una monarchia che ha per fine il vantaggio del monarca, l’oligarchia cura gli interessi degli abbienti; mentre la democrazia degenera quando cerca di ottenere il vantaggio dei nullatenenti rispetto alle altre classi. In nessuno di questi casi si insegue il bene comune ma quello particolare, e la democrazia finisce per diventare una tirannide quando l’arbitrio della moltitudine domina incontrastato e i più agiscono ignorando perfino la legge: i governi infatti non si definiscono buoni o cattivi in base alla forma della loro costituzione, ma in base alle qualità etiche e morali dei loro membri. Specifica: il miglior governo dovrebbe essere formato dalla classe media, cioè da cittadini forniti di modesta fortuna. E sostiene: la miglior forma di governo non darà la cittadinanza ai meccanici. Anche Platone aveva parlato di utopia della Repubblica. Per quest’altro, democrazia, oligarchia e  tirannide non possono essere riguardate come modello politico in grado di garantire la giustizia. Ma tornando ad Aristotele, egli dichiara: la scienza politica non può fare gli uomini, ma deve prenderli come li fa la natura. In un certo senso anche con i propri gusti allora: gli altri, i Latini, dicevano de gustibus non disputandum est.

E qui si passa al secondo ordine di ragioni: i contenuti. Io con il mio stipendio pago lo stipendio di Bruno Vespa e Gigi Marzullo, tra gli altri, che ogni santa sera sono presenti in un palinsesto ripetitivo, con «Porta a Porta» e «Sottovoce», nonché gli stipendi dei soliti, soliti, soliti noti. Per assistere a trasmissioni di basso livello culturale, dove si gioca e ci si diverte secondo un arbitrio di quoziente intellettivo pari a meno qualcosa, dove si vincono soldi mentre non si trova lavoro. Per ascoltare i dibattitti di personaggi votati a nessuna causa, apprendere nuove parolacce, distruggere l’italiano, sentire urlare, gridare, insultare. Inermi. L’Italia della RAI è l’Italia dell’ignorante. Anzi, di coloro che vogliono far passare gli italiani da ignoranti. Serie televisive con attori incompetenti, ingestibili, inguardabili. Chiacchiere, chiacchiere. Tutte queste chiacchiere sono oggi luce, perché si pagano in bolletta. Paghiamo le parolacce, le grida isteriche, il narcisismo, esattamente come quando, entrati in casa, pigiamo l’interruttore della luce. Paragoniamo la «Prova del cuoco» a un bene essenziale quale la fornitura elettrica. Ascoltiamo Paola Perego ed i suoi ospiti registrare uno stereotipo sulle donne dell’est, e senza accorgercene ci cibiamo di questo e di pregiudizi o giudizi precompilati. Non abbiamo la possibilità di oscurare tali canali, perché ci vengono propinati con obbligatorietà. Dovremmo essere messi nella condizione di scegliere tra guardare e non guardare, pagare e non pagare. Avere una TV in casa non vuol dire affatto seguire la RAI TV, più probabilmente dare sfogo ad uno zapping selvaggio da cui uscir fuori frustrati, insoddisfatti, salvo accontentarsi dell’istrionismo pubblico. Salvo leggere un libro. Salvo fare l’amore.

Non che gli altri canali siano migliori, ma non ne paghiamo un contributo. Sono canali privati che vanno avanti da sé. Ora c’è Netflix, ora c’è il digitale, ora c’è Sky: a questi gli utenti medi si appoggiano per trovare una distrazione che si avvicini ai propri interessi. Non possiamo paragonare, così come facciamo, Bruno Vespa a Dio, che muove tutto, che decide di cosa dobbiamo renderci edotti ogni santa sera che RAI ha creato. I contenuti garantiscono cultura; quando si tratta di ridondare, di impiegare il caso del giorno per fare audience, di pagare una parcella, allora Aristotele si rivolta nella tomba, obtorto collo. La RAI TV dovrebbe essere una scelta per il contribuente. Non perché si ha un libro in casa ciò significa che si è alfabetizzati: un bambino di due anni non lo leggerà. Così mi sento io quando velocemente passo dalla Rai a TopCrime: un bambino che cerca il gioco adatto alle sue abilità, e corre nella sua stanza dei giochi. Nessuno, solo perché si ha un libro in casa, pagherà la sua università. E così nessuno, solo perché si ha una TV in casa, pagherà il suo canone, facendosi uccidere subliminalmente.

Che la RAI divenga un’opzione, e che il meccanico trovi lavoro: questa è democrazia, non tirannide od oligarchia. Lo dicono i filosofi, che Sanremo non lo guardano. Loro pensano, come li fa la natura. (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Aprile 2017




EUTANASIA, DALL’ITALIA LA FUGA DEI CERVELLI SENZA CORPO

EUTANASIA, DALL’ITALIA LA FUGA DEI CERVELLI SENZA CORPO di Romina Ciuffa. Prendiamo il punto di vista di un cachi. Non si può muovere, eppure può cadere, può farsi male, può essere mangiato. Ma non può scegliere di interrompere la sua vita. Di contro, può godere del fatto che vive nella natura, solitamente non in un ospedale, e che è un cachi, dunque non dotato di un sistema neuronale che lo renda capace di provare cognizioni ed emozioni. Tanto assumiamo. Lo stesso vale per una cicorietta, uno spinacio, una carota, qualunque vegetale. Tranne quello umano.

La prima differenza che si coglie tra quest’ultimo e il primo tipo è l’ateismo: mancando al cachi un apparato cerebrale, viene meno l’intelligibilità dell’ambiente circostante o un suo sviluppo in senso trascendentale. O almeno stimiamo. Uno spinacio vive. Un vegetale umano vive, sa, e trascende, quando consapevole, per dare un senso al suo passaggio terreno. Al vegetale umano non basta la Terra, al vegetale spinacio basta la terra. Un vegetale umano vive, “è saputo” ed è “trasceso” invece, come in un atto passivo, quando è in uno stato di incoscienza o di perdita delle capacità cognitive.
“Sono vivo e vegeto”, diciamo. Attributi che devono essere colleghi per soddisfare il medico, amanti per soddisfare l’individuo. Vegetazione non è vita, vita non è vitalità. Non quando l’individuo umano contrae malattie che lo rendono schiavo della sua data di morte, quando è destinato a rimanere in coma per anni indefiniti, quando è incastrato in un corpo immobile.

Eppure in un altro tempo, in un altro spazio, non si sarebbe posto il problema di tenerlo in vita: solo fino a pochi anni fa si moriva di acetone, oggi curabile con la Biochetasi. Il progredire della scienza, della tecnologia, persino della comunicazione, che danni ne ha provocati, ha fatto sì che non si possa più morire di acetone. Il che va a tutto vantaggio della vita umana, più garantita e protetta. Ma ha anche fatto sì che non si possa più morire. Oggi, 2017, in alcuni casi un cancro è curabile e c’è chi, senza arti, partecipa alle Paralimpiadi e mantiene un margine di forza e dignità che, variando da individuo a individuo, può essere isolato e accresciuto, sostituendo nuove competenze e capacità con le altre andate perdute. Anche la psiche fa la sua parte in ogni singolo caso.

Ma oggi, 2017, è possibile anche mantenere in vita chi, “altrimenti”, sarebbe morto. È questo “altrimenti”, è il condizionale “sarebbe”, che rendono problematica la questione eutanasica. Riflettiamo: anni fa, l’accanimento terapeutico nei riguardi di un “vegetale” non avrebbe fatto molta strada, se non quella che la ricerca e la scienza, in quel momento, consentivano, ben inferiore ai risultati raggiunti in seguito dal progresso. Ho imparato a comprendere le cose attraverso il paradosso, per tornare a normalizzare e relativizzare: così, alla Asimov, immagino un’eutanasia che, in un mondo futuristico ma molto prossimo, sia destinata ad essere l’unica scelta all’alternativa del “vivere-vegetando” per secoli. In un’evoluzione scientifica che corre e che porterà ad infinitivizzare ad libitum le possibilità di sopravvivere, chi potrà stabilire quando è il momento di morire per colui che è mantenuto in vita da una macchina? Chi dovrebbe scegliere l’età in cui fermare le cure? 70, 90, 110 anni? Quale compleanno dovrà essere quello definitivo? E perché non impiegare la criogenetica? Sarebbe possibile che il bambino paraplegico guardi all’insù la mattonella per un centinaio di anni, in perfetta forma in quanto alimentato, seguito, non fumatore: e, parlandogli, osservarlo crescere, sviluppare, invecchiare, morire o lasciarlo, se premorti, in eredità ai legittimari con un legato. Oppure “ucciderlo”, meglio detto, non accanirsi. A che età attivare la procedura della morte medicalmente assistita? Mosè avrebbe scelto di morire se fosse stato in coma? Zaratrusta? Gli antichi longevi pluricentenari? Rita Levi Montalcini cosa avrebbe scelto se a 20 anni fosse rimasta bloccata all’interno della sua lucidità e del suo genio, in un corpo immobile, senza possibilità di comunicare?

Tornando dal futuro, oggi facciamo i conti con la medicina che abbiamo allo stato attuale, quel “vorrei ma non posso” in grado di mantenere in vita “dead men not walking”, detenuti in un braccio della morte che altro non è che se stessi, “le mie prigioni” più mie, aventi una natura totalmente evanescente, l’interiorità, e guardie penitenziarie in camice con cui è inibita ogni comunicazione; quel “vorrei ma non posso” comunque non in grado di salvarli dalla condanna. E si aggiunge il crocefisso in cella, bigottismo religioso, per privare il soggetto della sua personale spiritualità. Non può parlare il politico, non può parlare il cattolico, non può parlare il benpensante a cena, nessuno può farlo; può parlare solo colui che, nella maggior parte dei casi, non può: il malato. Il quale, se legato alla vita, può condividere l’accanimento terapeutico, ma deve poter accedere alle cure ed avere le risorse necessarie per mantenerle. In un contesto pubblico deve avere la fortuna di essere accolto e seguito con amorevolezza, non come un vegetale. Deve seguire un percorso psicoterapeutico, se è cosciente e lucido, e con lui i suoi cari, che al pari sono da accompagnare in un lungo, esasperato percorso.

Pochi giorni fa un italiano, cieco e paraplegico, non riuscendo a grattarsi ma potendo parlare, ha descritto in un video il significato del verbo “prudere”, insegnandoci che il prurito non è per lui un’anticipazione di qualcosa di piacevole, conseguente all’azione del grattarsi, bensì una vera e propria sofferenza, la peggiore: il 39enne milanese Fabiano Antonioni, in arte Dj Fabo, ne parla (con difficoltà estreme nell’eloquio) per minuti interi, “voi non riuscite a capire cosa voglia dire attendere che ti passi quel prurito alla testa”. Così per grattarsi – cosciente, ragionevole, lucido – si è recato con la famiglia in Svizzera, a farsi uccidere. Porta con sé il suo corpo, che più suo non è ma di altri: dei famigliari, di chi gli sta vicino, dei medici, dei media, dei politici, dei religiosi, dei salotti.

Lo stesso accade a un altro italiano, in Svizzera Gianni Trez, 65enne veneto, è morto a Forch, un paesino a venti minuti da Zurigo, dove si trova “Dignitas”, la clinica del “fine vita”. Malato di tumore, la moglie ha dichiarato: “Costretti qui, da Venezia, per una fine dignitosa”. Lucidissimo. “E non è depresso. Abbiamo elaborato a lungo la scelta di venire fin qui. Anche io lo farei. A lui piaceva tantissimo vivere, ma è condannato e vuole morire senza soffrire in modo dignitoso. Perché la vita che ha fatto nell’ultimo periodo per lui non è dignitosa. Ormai pesa cinquanta chili, è costretto alla morfina tre volte al giorno. Il problema è proprio la prospettiva: se sapesse che tra cinque, sei mesi smetterebbe di soffrire allora non lo farebbe. Ma così no”. Servono almeno 10-15 mila euro, solo la la clinica chiede circa 11 mila franchi svizzeri. È il vero caso di fuga dei cervelli dall’Italia: perché di loro, e di molti altri, fugge solo il cervello, il corpo ridotto a un contenitore.

La morte non è una scelta teleogica, ma teleologica. Non serve collezionare le parole di Cristo sulla sofferenza né citare Dante che mette i suicidi in un girone dell’Inferno. C’è chi passa in coma un’intera vita, chi trascorre lunghi anni in stadio terminale. Sono i suoi genitori, figli, aventi diritto, ad ucciderlo nel caso di eutanasia? Sono loro, insieme al medico che li sostiene, i boia dell’accanimento terapeutico? Non in Oregon, non in altri Stati americani, né in Colombia o in Canada, non in altri Paesi in cui la morte medicalmente assistita è operativa. Si è assassini sempre o mai: questo è un concetto universale e la differenza di opinioni e regole, stridendo da Stato a Stato, da Paese a Paese, da religione a religione, da caso a caso, da persona a persona, da medico a medico, persino da malato a malato, non è altro che una conferma che l’eutanasia non è omicidio. L’omicidio è un concetto assoluto, universale, la morte è un effetto pratico prima che spirituale o teleogico. Ovunque è punito chi, con una pistola, uccide un passante. Ciò che muta è la sua valutazione ad opera del legislatore penale, ma sparare a un passante è omicidio in Oregon, in Africa, in Italia e nel sedicente Stato islamico. Un discorso a parte va fatto per l’aborto, lo stupro, l’omosessualità et altera, che cambiano forma e sostanza in ogni hic ed ogni nunc in quanto sono discussi su livelli diversi e hanno diverse implicazioni.

Se il “non uccidere” è universale, perché non si è universalmente concordi sul fatto che l’eutanasia integri la fattispecie di omicidio? Perché l’eutanasia è un concetto relativo, culturale, basato sullo spazio e sul tempo, e sulle evoluzioni umane della scienza; un concetto che dipende e, dipendendo, non ha validità intrinseca. Questa sua non assolutezza lo abbandona nelle mani della politica, della religione, dei progressi della medicina. Ciascuno deve essere in grado, o messo in grado se impossibilitato, di gestire un concetto relativo. “Tu lo faresti?” No. “Ma non sei malato”. Non possiamo immedesimarci, e questo limite non consente di utilizzare ideologie per dire: l’eutanasia no. Soprattutto in uno Stato come il nostro, dove la sanità è malasanità e fa più vittime che la guerra ma, come in guerra, non punisce i colpevoli.

E allora, se spinacio devo essere, se cachi devo cadere, voglio che mi si mangi quando sono maturo, non quando sono marcio, né quando non so più di niente. (Romina Ciuffa)




F.U.T.U.R.E.

F.U.T.U.R.E.
un racconto di Romina Ciuffa
Non c’è nulla all’interno della nave, assolutamente nulla. Nessuno la guida. F.U.T.U.R.E. è vuota.

In questo bar del Village il soffitto è coperto da animali a zigzag ritagliati da cartoni colorati e plastica. Volteggiano in aria come padroni. Qualche lesbica creativa ha tirato fuori le sue paure più grosse e le ha rappresentate, poi le ha appese tutte al Cubby Hole sulla Dodicesima Strada e quando non dorme, perché non vuole e perché i suoi mostri la inseguono nel letto, passa di qua, li guarda in faccia, dritti negli occhi e loro, danzando al suono di un jukebox vecchio modello, non fanno più paura. Non c’è niente di meglio che tirar fuori il mostro e guardarlo in faccia. Un whisky liscio aiuta e per questo intorno alle pareti colorate è sorto un locale, con la pretesa che sia solo per donne. I mostri della lesbica intimoriscono più, allora, qualsiasi avventore che non si troppo macho per entrare ed affrontarli. Amanda Moore mi siede accanto ed è bella. Non so chi sia, so solo che è bella. Mi ero alzata a prendere due birre ed ecco che si siede questa donna accanto alla mia amica, che per l’occasione ho lasciato sola fra le donne, beata tra di esse.

Si siede questa donna in tailleur dopo aver chiesto se la sedia fosse libera. No, in verità sono con un’amica, è a prendere da bere. Sei bella, davvero. Posso sedermi comunque? Sì, c’m’on, siediti, c’è comunque una sedia in più. E silenziosa fa un sacco di domande. Il suo silenzio chiede: sei gay? Sei davvero così bella? Ti piacciono molto gli uomini? Quella è la tua ragazza? E la mia amica, mentre mi attende, in silenzio altrettanto risponde, con due occhi verde imbarazzato: non sono gay. Non sono davvero così bella. Mi piacciono molto gli uomini. No, quella non è la mia ragazza. E il verde imbarazzato diviene azzurro mare quando Amanda la fissa e le fa un’altra domanda senza chiedere. E allora perché mi fissi cosí sin da quando son entrata? A questo la mia amica, che ho lasciato da sola al tavolo del Cubby Hole, non sa davvero cosa rispondere, perché l’ha fissata ininterrottamente da che Amanda ha messo piede nel locale. Questa modella di pochi anni, alta, con la cravatta e occhi predatori, questa maschietta con arte e parte, si fa guardare. Da tutte. E mentre butta giù tequila, io pure guardo la scena da lontano, e palpita il tavolo sotto di lei che lo sfiora con mani grandi, e la mia amica, alta quanto lei, si vede, non sa cosa si fa a una donna se sei una donna, e l’approccio va gustato come un Brownie quando fumi marihuana, senza sapore. Senza fame vera. Solo con quel desiderio di qualcosa che non vuoi davvero. Ma che ti piace l’idea di volere. È quello che sta accadendo ora, mentre ordino le birre e Amanda ordina una bionda confusa.

Torno al tavolo e Amanda, di cui non so il nome, si alza. La seguo e le chiedo d’accendere. La curiosità è donna e qui siamo tutte donne. Il sesso qua dentro non conta perché ce n’è uno solo. Finita la sigaretta, finita la birra, la mia amica continua a regalare occhi a questa mora incravattata, che finisce per essere più alta di lei – cosa che di solito non accade mai alle alte e le colpisce. Affondata mi guarda, e m’alzo quando Amanda viene al tavolo e dice di volermi parlare. Mi chiede cosa volevo da lei. Non voglio niente da te, come-ti-chiami. Si chiama Amanda, dice. E cosa fai, Amanda, e perché a New York ti metti a parlare italiano? Perché lavoro anche in Italia. Ha capito tutto quello che la mia amica mi ha detto di lei al tavolo, e sa che qualcuno ha ceduto, stanotte, sotto i mostri colorati di una lesbica impaurita dall’esserlo che li ha ritagliati in una domenica di neve. Che lavoro fai, se posso permettermi di chiedere? Sono una modella. Non faccio difficoltà a capire che non mente e che ha fatto copertine di Vogue. Il suo coming out è arrivato dopo ed ora è quasi un’icona gay, da quando ha deciso di tagliarsi i capelli alla maschio e di giocare coi motociclisti in bianco e nero e non più piume viola e raso sulle gambe lunghe. Mi dice no, la tua amica è bella, ma è etero. È straight. Basta con le straight: non più. Perché Amanda? Perché l’ultima mi ha fatto soffrire. Basta con le etero. Fanno soffrire più di tutto, come non potessi dar loro più che sesso, e nemmeno completamente a volte. Siamo solo fantasie per loro e restiamo in un mondo fantastico. Forse per questo atterra un Ufo nel Cubby Hole.

Atterra e tutti i mostri che ci sono dentro cominciano a danzare nel cielo e in terra, fra i piedi e fra le mani, e la lesbica che li ha disegnati si nasconde sotto il bancone del bar. Amanda non ha paura, anzi, la vedo a suo agio in mezzo ai mostri. La mia amica non si accorge di nulla ma io li vedo danzare e urlare al ritmo di un valzer solo violino. Li vediamo in poche. Io vedo fiamme arrossare il volto che ho riflesso nello specchio e ballerine con i piedi rotti. Vedo dolore e sensi di colpa. Gessi. Vedo menzogne, battute, vedo la società, vedo la famiglia di ciascuna di queste donne e la mia, vedo maschi mostrare i propri genitali, mandare fiori e fare pipì sul muro. Amanda fuma la sua sigaretta e la mia amica beve la sua birra. Trema la lesbica sotto al bancone ed io, che mi accorgo di ciò che sta accadendo, la vado a soccorrere. La musica là sotto cessa e in questo ritrovato silenzio le chiedo perché ha paura. Non vedi cosa sta accadendo? Sì. Tu puoi vedere? Sì, posso. E non hai paura anche tu? Molta. Un mostro giallo con due passi è davanti a noi e urla. Lei si ripara dietro di me, me lo trovo davanti e mi accorgo che assomiglia alla normalità. Mi accorgo che tutti questi mostri assomigliano alla mia amica ed hanno occhi verdi come i suoi. Cosa facciamo noi sotto al bancone mentre un gruppo di animali di cartone colorato balla valzer senza musica? L’Ufo che è atterrato apre le porte. La navicella ha una scritta cubitale che dice F.U.T.U.R.E.; una luce acceca me e l’altra in ginocchio dietro me, che si gira. Io preferisco guardare, coraggio, andiamo a fondo alla cosa, lascio un attimo la mano di questa sconosciuta terrorizzata che m’implora di restare e mi avvicino alla macchina. Appoggio lentamente il piede sulla piattaforma. Scivolo dentro.

Non c’è nulla all’interno della nave, assolutamente nulla. Nessuno la guida. F.U.T.U.R.E. è vuota. Posso ancora sentire tremare la lesbica da sotto al bancone e vedo tutti i suoi mostri danzarle accanto terrorizzandola. D’improvviso, una figura appare dentro la macchina. È la mia amica: da dov’è passata? Mi prende la mano, quella straight, quella “straight basta”, di repente mi bacia, mi bacia ancora, mi spoglia, sorride, si spoglia, mi bacia, mi prende, fa l’amore con me, dolcemente, senza saperlo fare ma comunque dolcemente mi fa, per un istante, sentire voluta e sorride ancora, mi fa per ore, o forse un secondo poi s’addormenta.

Ora che dorme fa meno freddo dentro la nave e sembra quasi che questa donna l’abbia riscaldata. Amanda aveva torto marcio, il mondo fantastico è reale, è tutto reale qui dentro. È proprio una stupida. Ma cosa vuoi che capisca una modella americana! Stupida. Cosa vuoi che capisca. Guardo lei accanto a me ma la luce della nave mi acceca e mi domando come non accechi lei, come possa addormentarsi così. Non riesco a dormire dentro F.U.T.U.R.E. e posso ancora vedere mostri ballerini, sebbene colorati, spaventare quella lesbica. A me non fanno un graffio ora: sono forte, sono meglio di Amanda Moore. Uno ora ha addirittura il viso di Amanda ed è nero, indossa una giacca e si fa beffa di me. Ma io non ho paura! Io ho il coraggio dalla mia. Io posso affrontare un’eterosessuale, e guardala, è qui che dorme accanto a me! Non si è pentita, non era un gioco. Non sono solo una fantasia: esisto e sono reale. Tu Amanda, invece? Sei reale o finta come una copertina di carta lucida? Hai piume viola addosso o cravatte? Tu che hai paura di tutto, tu che le straight basta, impara a campare! Stupida. Ma il mostro ride ancora, non risponde alle mie provocazioni e a sua volta provoca, chiudo gli occhi un istante per non guardarlo e quando li riapro mi ritrovo sola sulla navicella dentro al Cubby Hole. La mia amica non c’è qui accanto a me, quella che dormiva sotto le luci accecanti di F.U.T.U.R.E. non accecata. Il violino suona ancora e stride un po’, consumato senza accordatura perfetta o corde di valore. A fatica, perché non ho dormito davvero, m’alzo, mi avvicino alla porta della nave e faccio per uscire. Cerco la mia amante. Mi fermo sull’uscio e la intravedo, poi la vedo. È mano nella mano con un uomo. Non la amo, ma fa uno sbraco nel cuore. Amanda la guarda da lontano, poi guarda me come a dire: ti avevo detto cosa fa soffrire nella vita. Si aggiusta la cravatta, si accende una Merit e se ne va su un’altra copertina di Vogue.

Ma sono ancora sulla nave e un’alternativa la ho, i mostri sono ancora più ribelli ora e la mia nuova amica mi guarda. Posso salire anche io? Preferisce una vita lontano dai mostri che ha ritagliato in una domenica di neve, a costo di dover andare via su una navicella vuota. No, le faccio con gli occhi, non c’è niente su questa nave! È vuota! Non posso lasciarti entrare. Si soffre qua sopra, si soffre qua dentro. Ma da sotto al bancone, veloce fa uno scatto ed è a bordo. I motori si accendono. Non sta ascoltando me come io non ho ascoltato Amanda. Si soffre qua dentro. F.U.T.U.R.E. è una fantasia vuota, un gioco di luci, ma la realtà è anche peggio. Non so se scendere, non so se partire, devo decidere in fretta ma sulla nave ci sono solo io e questa sconosciuta piena di paure come me. Non voglio una vita vuota. Faccio un salto prima che le porte di F.U.T.U.R.E. si chiudano del tutto e sono di nuovo al Cubby Hole. La mia amica, quella che ha voluto fare l’amore con me come si pasteggia in preda alla follia post-marihuana, mi sorride, non si è accorta di niente e ancora attende la birra che le devo portare. I mostri ora sono solo pezzi di cartone ritagliati da qualcuno che non c’è più e che nessuno ha potuto più ritrovare, ma sono tutti là che fissano me. Non esce più alcun valzer dal jukebox. Mi racconta che ieri notte ha fatto l’amore con quell’uomo che, poco più in là, sta sfogliando Glamour: in copertina c’è Amanda che ride di gusto. Alzo gli occhi e vedo la luce di F.U.T.U.R.E. divenire più piccola, poi scomparire. La nave non è più vuota ora, non è vuota come lo sono io. C’è una ragazza là dentro, mentre qui dentro non c’è niente.  (ROMINA CIUFFA)

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MARZIAMO

MARZIAMO
un racconto di Romina Ciuffa
La diversità inizia con la D di dolore e non finisce mai

A Rita.

Che giorno è? Non ricordo cosa sto facendo qui. Quando sono atterrato su questo letto, avevo tutt’altra intenzione. Poi ho trovato te. Hai rovinato tutti i miei piani: il mio obiettivo era quello di distruggere la Terra, non di fare l’amore con te. E che fai, adesso, sbarazzina, sorridi? Stai attenta, perché noi siamo cattivi. Tu mi vedi qui, nudo, tutto tuo. Ma sono cattivo anch’io. Non pensare alle parole che ti ho detto nella notte, mentre tu mi mordicchiavi il collo: tu devi avere paura di me! Guarda che forma strana che ho! Ti sembro qualcosa d’amare? Sfoga i tuoi sentimenti sulle creature uguali a te, perché altrimenti, se scegli me, sarai costretta a vagare in eterno, a vergognarti per tutta la tua breve vita, ed io a rimpiangerti per quella mia restante. Sarai costretta a svegliarti di notte con il sole in faccia, a temere i tuoi simili. Non guardarmi così.

Non ricordo più cosa sto a fare qui. Ricordo che ero sulla mia nave, e davo ordini ai marinai. Comandavo loro di andare il più in fretta possibile, perché altrimenti ci avrebbero visto, colpito, affondato. D’un tratto, un botto. Un rumore assordante, la Terra sempre più vicina, la luce accecante. Un frastuono, il buio. Poi un tonfo: atterraggio morbido. Non ho visto più nulla per un tempo indefinito, e annusavo quella bambagia sulla quale mi trovavo, e toccavo con le mie mani la morbida superficie terrestre, convinto di essere, finalmente, arrivato a destinazione. Ma quell’odore, quell’odore mi ha fatto perdere la cognizione del tempo. Non vedendo, mi spingevo lentamente e pericolante tastando il terreno, non sapendo dove iniziasse e dove terminasse, o se fosse minato, o se fosse sicuro. E così sono arrivato a te. C’era il tuo corpo lì, silenzioso. Non potevo vederti, ma già ti guardavo. I miei occhi erano fissi su di te, fermi, immobili, e tutto il nero che si frapponeva fra il mio corpo freddo ed il tuo corpo caldo era la luce più accecante. Non sapevo che eri lì, ma già ti conoscevo. E solo quando ti sei mossa, con un sospiro, mi sono accorto della tua presenza fisica. Il tuo odore già mi immergeva la mente come un pesciolino rosso nel suo acquario. C’era qualcosa che dovevo fare, in quel momento, ma tu mi distraevi. C’era qualcosa che era meglio che io facessi, ed era andar via subito, o cominciare il mio attacco da te. Ma non avevo più memoria, forse il tuo odore aveva annebbiato le mie stanche membra. Dei miei marinai, nessuna traccia, e già non mi interrogavo più. Due fari, improvvisi, illuminavano il pianeta: avevi aperto gli occhi, e mi avevi visto. Ma, come fossi uscito dal tuo sogno, mi hai sorriso, senza paure. Ricordati, dolce marziana, che io sono qua per distruggerti, non per farmi distruggere: e tu mi hai annientato. Uno sguardo, e la radio non ha più funzionato. Ho perso i contatti col mio mondo, ma verranno a prendermi, e mi porteranno via, via da te, a concludere la mia missione. Perché io avevo una missione; o non l’avevo? Bah, non è importante ora, perché se hai spazzato via con un battito d’ali i migliaia di anni della mia solitudine, forse il mio pianeta dovrà temerti, perché sei più forte di noi. Hai dei poteri che noi non abbiamo. E se tutta la Terra ne possiede, siamo rovinati. Forse è meglio tagliare i ponti, per il bene del mio mondo e dei miei simili. Io sono qui, atterrato su di un letto.

E se ti uccidessero? E se i miei sapessero che mi trovo qui? E se stessero già arrivando, o fossi già nella mira del più bravo di loro? Vivrò anch’io, da adesso in poi, nella paura? Sono venuto a terrorizzare, e invece sono terrorizzato. Cos’è questa cosa che mi fai? Cos’è questa forza che tu hai? Un potere? Un’arma? E arma è l’anagramma di amar. Ridi. Non sorridi ma ridi: devo proprio essere buffo, su questa Terra. Il tuo letto è morbido come quando vi sono atterrato, e la tua pelle lo è ancora di più. Ti temo. Tu mi temi? No, tu non mi temi. Tu non hai paura di niente! Ti farò un regalo per il tuo compleanno: ti regalerò, tutta bella impacchettata con un fiocco rosso, com’è vostra usanza, la salvezza del tuo pianeta. Io me ne andrò, però. Non voglio che tu soffra. E con me tu soffrirai: la diversità inizia con la D di dolore e non finisce mai. (ROMINA CIUFFA)




TRANSESSUALISMO: L’INTERVISTA A UN’EX DONNA OGGI UOMO BISEX E A UN EX UOMO OGGI LESBICA

L’intervista di Romina Ciuffa ai trans Davide e Mirella (su Panorama). Davide era femmina, amava le femmine, oggi è maschio bisex. Mirella, ex ragazzo etero, è lesbica.

Anche su www.archivio.panorama.it/archivio/Tra-uomini-e-donne-non-ci-sono-confini e, alla fine dell’articolo, la versione del cartaceo originale

Impegnata nel sociale, giornalista corrispondente da New York per Panorama, scrissi nel 2006 questa doppia intervista nella quale confrontai i punti di vista di due transessuali: una donna divenuta uomo ed un uomo divenuto donna. A quei tempi non v’era comunicazione sul tema e le lotte, faticose, hanno condotto a miglioramenti nel campo LGBT. Le parole contenute in questo mio lavoro aiutano a comprendere meglio la differenza tra orientamento di gender e orientamento sessuale, che fanno sì che una donna che diventi uomo preferisca spesso intrattenere relazioni con un altro uomo e, dall’altro lato, un uomo che transizioni in una donna finisca per divenire lesbica. Inoltre, dà diretta compiutezza del morboso e sofferente senso identitario di taluni di sentirsi nati in un corpo sbagliato (ultimo film uscito in proposito, “3 Generations“), che gli psichiatri classificano come disturbo dell’identità di genere (spesso abbreviato in DIG), rinominato disforia di genere nel DSM5 (la versione più recente del Manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali), una condizione in cui si ha una forte e persistente identificazione nel sesso opposto a quello biologico. Viene definito “transessuale” ai fini del cambio di sesso solo chi non ha psicopatologia associata: chi non ha un disturbo mentale. È ovvio che, nel caso di una depressione associata o disturbi alimentari, molto frequenti, o altro, questi possano essere derivati dalla condizione del DIG, ossia dalle esperienze negative connesse a tale problematica ma non intrinseche ad essa. Il termine disforia di genere venne introdotto nel 1971 da Donald Laub e Norman Fisk. È poi possibile che la sintomatologia psichiatrica dei soggetti DIG sia conseguenza di un PTSD (Disturbo post-traumatico da Stress) conseguenti a violenze sessuali subite o comunque legate a pregiudizi e atteggiamenti negativi verso le persone con varianze di genere. Questo tipo di esperienze traumatiche sono molto frequenti in tale popolazione Il DIG può comunque mascherare rilevanti problemi psichiatrici. Infine, anche il disturbo di dismorfismo corporeo è associato al DIG, benché inserito tra i disturbi facenti parte dello spettro del “Disturbo ossessivo complusivo e disturbi correlati”. In questa doppia intervista, pubblicata su Panorama, ascolto solo loro, non la società né la psichiatria.

Lui è nato femmina, ha sempre amato le donne, poi è diventato uomo, ora è bisessuale. Lei è nata maschio eterosessuale con esperienze omosessuali, poi ha avuto una parentesi come donna etero e adesso è lesbica. Sono Davide Tolu e Mirella Izzo. Il primo, autore dello spettacolo teatrale One New Man Show in tour per l’Italia, scrittore, portavoce del Coordinamento nazionale Ftm (femmine transizionanti maschio), solo da 12 anni è fisicamente uomo, dice: «Se non fossi riuscito a operarmi, mi sarei ucciso. Detestavo talmente quelle parti femminili che m’impedivano di essere me stesso che me le sarei amputate». La seconda, Mtf (maschio transizionante femmina), presidentessa onoraria di Crisalide azioneTrans, ex dipendente di Poste italiane e varie cariche sindacali, si definisce «diamante»:  «Perché non transizioni e non sopravvivi se non impari a essere dura».

Esiste un sesso intermedio?

Davide. In natura il confine tra i due sessi non è netto: il transessualismo è un fenomeno naturale in alcune specie di animali, così come l’ermafroditismo. Se nella specie umana il cambio di sesso non avviene spontaneamente, esistono però vari generi intermedi come l’intersessualismo e lo pseudoermafroditismo. È di scoperta recente l’esistenza di maschi che hanno patrimonio genetico femminile: si sono sviluppati come uomini anche se erano XX per una disfunzione genetica. Sono sterili, ma non hanno alcun problema di salute. Un’altra stoccata della natura alla presunzione umana di voler etichettare tutto prima ancora di conoscere.
Mirella. Non uno, ma esistono più sessi intermedi e orientamenti sessuali misti. La quasi totalità degli animali esprime comportamenti omosessuali a eccezione che nei periodi riproduttivi. La Chiesa continua a considerare gay e trans contro natura, mentre leoni e leonesse si dedicano al rapporto etero solo nel periodo fertile, i figli vengono accuditi da lesbiche e i maschi si concedono ad affettività gay. Anche i comportamenti trans sono frequentissimi. Senza scomodare i cambi di sesso spontanei nei pesci o l’ermafroditismo di molte specie, basta chiedere ai contadini, nei cui pollai ogni tanto un gallo si rifiuta di montare le femmine, non canta e cerca uova da covare, e le galline provano a inseminare.

A suo tempo l’onorevole Vladimiro Guadagno, in arte Luxuria, è stata colta dalla collega Elisabetta Gardini nella toilette parlamentare femminile. Ma in quale bagno deve andare una persona trans?

Davide. Da quando un guardiano della stazione mi buttò fuori dai bagni delle donne a 14 anni, ho cominciato ad andare in quelli degli uomini: per me è stato un riconoscimento della mia identità maschile, fuori e dentro. Per qualcuno i bagni unisex sarebbero più «politically correct», contrarie ai quali sono le donne perché «gli uomini sporcano di più». Credo che pulizie più frequenti siano la soluzione, come anche togliere le targhette dalle porte: quando una persona in transizione è costretta a scegliere, mette comunque in imbarazzo qualcuno.
Mirella. La direzione del mio ufficio alle Poste predispose un bagno solo per me, un’operazione di cortesia che rappresentava l’imbarazzo della dirigenza: modi gentili per separarti dagli altri attraverso il «privilegio segregante». Ma se è davvero una questione d’igiene, facciamo bagni anche per chi è circonciso e per chi non lo è, visto che cambia il controllo sul getto d’urina. E non sa la Gardini quante donne fanno la pipì in piedi? Mamme, insegnate ai vostri figli maschi a fare la pipì in piedi nei boschi e nei vespasiani e seduti nelle tazze e nelle turche: non saranno meno virili, solo più puliti.

Omosessualità e transgenderismo come si rapportano?

Davide. L’omosessualità si riferisce all’orientamento sessuale, il transessualismo all’identità di genere. Il trans Ftm è psicologicamente uomo e, come qualsiasi uomo, può essere etero, omo o bisessuale. Prima della transizione ho frequentato lesbiche, scoprendo che venivo percepito come uomo creando destabilizzazione nella loro percezione di sé. Fisicamente ero donna, uomo nell’identità, e non avevo né desideravo rapporti con uomini. Ora ne amo uno e rifiuto il limite imposto alla mia sessualità: proprio in quanto trans sono costretto a essere me stesso il più fedelmente possibile.
Mirella. Fare in un colpo solo il doppio salto mortale di sovvertire identità e orientamento sessuale dominante è troppo. Spesso si confonde il modello che si aspira a diventare con l’oggetto dell’attrazione; quasi tutti, ai primi stadi della transizione, per condizionamento sono o diventano etero rispetto al sesso di elezione. Una volta superato questo limite decide l’orientamento affettivo: chi cerca l’amore complementare si rivela etero, chi lo cerca affine omosessuale, come me. E in genere le donne, pure le lesbiche più rigide nel rifiuto del maschio, mi percepiscono donna. Anch’io vittima del condizionamento, ho ritardato di decenni la transizione poiché non riuscivo a coniugare il mio sentirmi femmina con l’attrazione verso questo stesso sesso, e ho dovuto sperimentare veloci approcci con uomini per autorizzarmi a valere come donna. Ora, dopo cinque anni con una compagna e altri al femminile, posso dire con serenità di essere lesbica. Attualmente single, purtroppo.

L’intervento ai genitali è un passo necessario?

Davide. No. Non tutte le persone trans desiderano l’intervento, ma il tribunale condiziona la modifica anagrafica del sesso all’intervento di rettificazione dei genitali, sia pure la legge non lo richieda espressamente. Una volta avuta l’autorizzazione, dopo una lista di attesa per l’intervento a carico del Servizio sanitario nazionale, avviene l’operazione e il tribunale registra la rettifica. Chi non accetta di sottoporsi all’intervento affogherà in un limbo giuridico per tutta la vita.
Mirella. Il bisogno di intervento è condizionato dal fatto che lo Stato ci consegna documenti e indicativi di genere adeguati alla nostra realtà solo se ci sottoponiamo a tale procedura. Ciò è semplicemente aberrante. Noi Mtf siamo discriminate anche qui: agli Ftm il Servizio sanitario nazionale passa la mastectomia perché un uomo con il seno non esiste, mentre è a nostro carico il costo della rimozione della barba. Evidentemente le donne con la barba vanno bene.

Ha completato la transizione?

Davide. Sì, e transizionare mi ha insegnato che le differenze tra sessi non sono nette: esiste una sorta di individuo-base che non è né maschio né femmina.
Mirella. L’ho completata, ma per me non ha voluto dire operarmi ai genitali, bensì far circolare estrogeni nel mio cervello femminile. Se la transizione cambiasse solo il corpo e non rimuovesse gli effetti del testosterone nella psiche servirebbe a poco,  lo scopo è trovare un equilibrio.

Passare nel corpo di un uomo e di una donna può aiutare a comprendere le differenze tra i  sessi?

Davide. Tra i nativi americani le persone transgender erano considerate un tramite naturale tra sessi e, perciò, dotate di innata saggezza. Se riconoscessimo le diversità come ricchezze scopriremmo che le persone trans non sono un peso ma una forza motrice, la cui sola esistenza dimostra che tra il maschile e il femminile c’è un continuum, non un confine netto. La transizione è un passaggio, non un abbandono totale di una vita per approdare a un’altra: non cambiamo identità ma adeguiamo il corpo, mezzo d’espressione che influenza la personalità al pari dell’essere bassi o alti.
Mirella. Siamo state spie nel mondo maschile, come gli Ftm lo sono stati nel mondo femminile.

È più facile la transizione per un Ftm o per un Mtf?

Davide. In una società patriarcale passare dal sesso femminile al maschile è visto come un avanzamento nella scala sociale. Gli atteggiamenti maschili in chi è nato donna sono maggiormente tollerati e un Ftm, al pari di una donna mascolina, può vivere nel limbo tra i sessi. Tollerato ma oppresso: gli Ftm nella storia non sono quasi mai riconosciuti tali. Allevati come femmine, se si vestono da maschi non destano scalpore. E i forti effetti del testosterone cancellano ogni traccia di ambiguità.
Mirella. La condizione transgender mette in luce il maschilismo: tradire il «privilegio» è imperdonabile. Mio padre, che per due anni si è rifiutato anche di parlarmi al telefono, un giorno disse a mia madre che se mia sorella avesse sentito di diventare uomo, avrebbe capito, ma io, io che ero uomo… no.

Maschilismo o femminismo?

Davide. Man mano che studiavo i capisaldi del femminismo e venivano a galla tutti i torti degli uomini, mi sentivo inconsciamente in colpa in quanto maschio (sia pure non ancora nel corpo) e mi sentivo un traditore. Stai scegliendo la strada più facile, mi dicevo, l’unico modo per rimediare alle umiliazioni subite dalle donne è che siano le stesse a ribellarsi: quindi, se vuoi fare qualcosa per loro, devi farlo da donna! È stata la mia crisi più tremenda. Ho capito che gli Ftm devono molto ai movimenti di liberazione della donna e omosessuale, ma ho abbandonato il collettivo ritenendo giusto che le donne se la cavassero da sole.
Mirella. Noi Mtf siamo già parte del movimento femminista. I movimenti transfemminista e translesbico in Italia sono ai primi passi, ma in paesi più evoluti stanno contribuendo a scrivere nuove pagine su un’identità femminile liberata dall’influenza dell’educazione alla sottomissione e un’identità lesbica che sappia esistere in modo non subalterno al maschile dominante. In Danimarca, il Partito femminista ha acquisito una leadership transgender-femminista e una politica più radicale contro la società maschilista. Gli Ftm, dal canto loro, hanno l’occasione per far nascere «l’uomo nuovo», liberato dai condizionamenti di un maschilismo violento contro le donne, ma contemporaneamente anche una stretta gabbia per gli uomini stessi.

Problemi sul lavoro?

Davide. Sì, tanti, specie per le ragazze. Ben Barres, neurobiologo e docente di neurologia e scienze neurologiche, è un transgender da donna a uomo. Recentemente ha denunciato il fatto che la sua vita come ricercatore è cambiata dopo la transizione. Quando era giovane fu, come donna, scoraggiata a frequentare il Mit (Massachusetts Institute of Technology) nonostante i risultati eccezionali conseguiti. E racconta che nel 1997, quando iniziò la sua vita al maschile, dovette sentire un collega dire a un altro: «Ben Barres ha tenuto un grande seminario oggi; certo il suo lavoro è molto migliore di quello della sorella». Ovviamente non esiste nessuna sorella di Ben, ma Ben prima della transizione. Superiorità genetica? No, maschilismo. Personalmente, non ho avuto problemi sul lavoro. Conta l’informazione, come quella predisposta in un opuscolo Crisalide-Cgil che spiega come gestire il rapporto persona trans/colleghi, le regole sulla privacy, l’utilizzo dei bagni, i permessi per gli interventi.
Mirella. I problemi sul lavoro sono infiniti. Io, come il 99 per cento delle neodonne. Trovare con documenti difformi un lavoro diverso da quello del lavascale è quasi impossibile. Sono grata alle agenzie di pulizia che guardano al lavoro svolto e non a cosa c’è fra le gambe. Tutti gli altri settori ci sono preclusi. Quando ho iniziato la transizione non potevano licenziarmi, ma ho subito tre anni di mobbing pesantissimo e ne sono uscita solo grazie all’intervento dell’unica dirigente donna dell’ufficio. Oggi sono invalida civile al 100 per cento per un aneurisma all’aorta causato dall’ipertensione di quegli anni. Ci abbiamo rimesso io, l’azienda che ha perso una buona impiegata, lo Stato che deve pagarmi una miserrima pensione a soli 47 anni. Se avessimo la privacy sul nostro percorso, le aziende non saprebbero. Dirò di più: una trans è un ottimo investimento perché, discriminata ovunque, scarica sul lavoro la voglia di rivincita.

Cosa chiedereste al governo?

Davide.Una legge all’inglese per il cambio di genere e nome a prescindere dall’intervento sui genitali e che non passi attraverso un giudice dove la persona transgender ha come controparte lo Stato. La copertura delle spese della transizione da parte del ministero della Salute. Una legge che recepisca in toto la direttiva europea secondo cui le norme per le pari opportunità si applichino anche a chi transizioni da un sesso all’altro o intenda farlo. Il tutto da aggiungersi alle revisioni in via d’approvazione della legge Mancino, che ha aggiunto orientamento sessuale e identità di genere fra le aggravanti dei reati per odio e pregiudizio, e della norma sul diritto di asilo che ha esteso a gay e trans il diritto di rifugiarsi in Italia da paesi dove essi sono puniti legalmente o attraverso gli squadroni della morte.
Mirella. Un’azione positiva sulla prostituzione transessuale, per molte Mtf unica possibilità di sopravvivenza a una famiglia che le ha abbandonate e a una società che non ha offerto il minimo spiraglio lavorativo. Quindi, i Pacs. Ho presentato una lettera al ministro per le Pari opportunità Barbara Pollastrini nella quale rilevo una falla nella legge 164 che regola il cambio di sesso; con soddisfazione constato che l’onorevole Luxuria ha fatto proprie queste osservazioni per ottenere una legge che preveda l’automatismo tra rettifica del sesso e cambio del nome anagrafico senza l’obbligo di chirurgia genitale. L’anomalia: in Italia sono vietati i matrimoni gay, ma una trans può chiedere l’autorizzazione all’intervento, poi non procedere alla seconda istanza di rettificazione anagrafica e, nel corpo di una donna ma ancora uomo sui documenti, realizzare un matrimonio lesbico autorizzato dallo Stato. Di fatto, posso sposare una lesbica. E non è detto che non lo faccia.   (ROMINA CIUFFA)

PANORAMA- Dicembre 2006




L’AEREO È MIO E ME LO GESTISCO IO

Ciò che rende pilota un pilota è la solitudine. Non tutte le donne sanno star da sole. Il distacco da terra: senza di esso non si vola. Le ali sono per chi ama il silenzio, per chi ha dolore sulle scapole, per chi ha paura di volare (non c’è atterraggio senza paura: questa consente di sopravvivere, darwiniano meccanismo di difesa). Le donne, più leggere, sono fatte per l’aria più di alcuni uccelli. Volano per passione o per lavoro, praticano tutti gli sport aeronautici, pilotano ogni tipo di velivolo (ultraleggeri, aerei certificati, motoalianti, deltaplani, paramotori, mongolfiere, aerei di linea, caccia, astronavi), si riuniscono in manifestazioni Flydonna, non temono il pregiudizio e sono più attente e preparate degli uomini: è stata proprio una donna, la 24enne Maxi J., copilota, a recuperare con una manovra acrobatica l’Airbus A320 della Lufthansa colpito a marzo del 2008 da una raffica della tempesta Emma durante un atterraggio ad Amburgo, impedendo lo schianto dell’aereo e salvando la vita ai 131 passeggeri e all’equipaggio. In guerra feroci, vere combattenti: l’Unione Sovietica ricorse a tre reparti aerei da combattimento rosa, le “streghe della notte”, che non indossavano il paracadute ritenendo più onorevole morire sui propri aerei.

Fu la prima equiparazione aeronautica tra uomini e donne e andarono tre medaglie di Eroe dell’Unione Sovietica al maggiore Marina Mikhailovna Raskova e alle sue colleghe, che stabilirono un record mondiale di volo nonstop a bordo di un ANT-37 nell’estrema Siberia orientale, coprendo circa 6.000 chilometri in 26 ore e 29 minuti. Ieri ribelli, oggi audaci. Come la romana Angie Ciuffoletti, campionessa europea di paramotore, anche detentrice di un guinness di velocità e di tutti i titoli che spettano a una numero uno. Angie l’ho conosciuta una volta che atterrai sul campo di volo di Otricoli. Ero partita con un Tecnam P92 dalla Flyroma – l’aviosuperficie di un grande uomo volante, Italo Marini, colui che “battezza al volo” quasi tutto il Centro Italia, ma non solo – per assistere a un raduno di paramotoristi; la sera davanti a un camino più grande di noi, quello della Club House, questa paramotorista mi ha raccontato di sé. È in aria da quando era piccola. “Vedere mio padre volare mi ha reso come lui”, ossia immortale. Ogni volta che la incontro ha i piedi per terra ma la testa – bionda, effimera – è dove si trova la sua vela. Perennemente insoddisfatta, e ha ragione: “Al volo, ma soprattutto al paramotore, non è prestata attenzione. Ho vinto praticamente tutti i premi, non solo in Italia, ed è come se fossi una disoccupata tra le tante”. Non è come in America, dove le atlete sono stimate e appoggiate: Angie vince, e la si dimentica.

Ma non è sola. L’Enac (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) nel 2006 evidenziava un aumento negli ultimi anni delle donne pilota: tra il 1980 e il 1999 solo 51 donne risultavano iscritte all’Albo della Gente dell’Aria, mentre in poco più di 5 anni – dal 2000 al 2006 – il numero arrivava a 88. In quella data, l’apporto femminile nel trasporto pubblico era di 6 comandanti e 67 pilote su velivoli di linea, 3 comandanti e 29 pilote su velivoli non di linea, 4 comandanti e 10 pilote su elicotteri non di linea; quindi, 20 istruttrici di volo, di cui 18 su velivoli e 2 su elicotteri. Tra di esse l’altoatesina Martha Heissenberger, prima pilota italiana di mongolfiera; Maddalena Schiavi, allora 48 anni di volo alle spalle; la pilota di elicotteri Paola Bogazzi, titolare dell’Avmap Satellite Navigation, che si occupa di cartografia e sistemi Gps. Io stessa.

Dall’Aeronautica Militare proviene il tenente pilota Stefania Ida Irmici, del 6° Stormo di Ghedi, prima pilota di tornado: il padre non fece nemmeno il servizio militare ma lei a 22 anni aveva un sogno: guidare un jet. “Si può essere donna e pilota allo stesso tempo”, dice. La giovane Charlotte Costantini mi spiega: lei, che è un’antropologa, porta gli aerei dell’AirOne, vola 20 giorni al mese su tratte europee e si sottopone a un addestramento continuo e check rigorosi. Pregiudizi? “Molti. Una volta proprio una signora, appreso che a pilotare sarebbe stata una donna, ha chiesto di scendere dall’aereo. Ma sono riuscita a calmarla. C’è diffidenza ma anche molta solidarietà a bordo, soprattutto da parte delle passeggere”. E aggiunge: “Una volta ho volato con un comandante donna, ma è stato un evento eccezionale”.

Eppure lei, Samantha Cristoforetti, è andata oltre. Non solo aviatrice: è la prima astronauta italiana e la terza in Europa, dopo l’inglese Helen Sharman (che ha volato nel 1991) e la francese Claudie Andre-Deshays (sulla ISS nel 2001). Nata a Milano nel 1977 e residente in provincia di Trento, è tenente pilota di velivoli AM-X e AM-XT in servizio presso il 32° Stormo con base ad Amendola. Alla selezione per lo spazio, che prevedeva la scelta di 6 astronauti, avevano partecipato più di 8500 aspiranti. Laureata all’Università Tecnica di Monaco di Baviera e all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli, è stata la prima donna a ricevere l’onoreficienza della “Sciabola d’onore”.

Allora vado in volo. Decollo dalla Flyroma, pista 09 per vento traverso proveniente da sud-est. Questa navigazione mi porta fuori dai nostri confini senza un piano di volo ben definito. Dallas, Texas. “Sono consapevole che sto rinunciando ad avere una famiglia”, mi confessa Katie Braun, capitano nella Horizon Airlines, istruttore di volo e pilota che negli anni ha insegnato a molti allievi a volare, parecchi di essi italiani e “tutti scioccati di avere un’istruttrice donna”. A capo di un jet Bombardier canadese di 70 posti, è sottoposta continuamente allo stupore di passeggeri e primi ufficiali, nonostante nella sua compagnia su 600 dipendenti 60 siano donne. Ma solo poco più di venti capitane. “Le mie vacanze le faccio in aereo”, com’è naturale.

Riparto. Com’è naturale. Innanzitutto faccio un touch-and-go sull’aereoporto RHV di San José, in California, intitolato a quell’Amelia Reid nota per essere una delle prime donne nell’aviazione americana (la prima pilota del Nebraska, Evelyn Sharp, la iniziò al volo nel 1939), che ha insegnato a volare a più di 4 mila allievi. Un’Amelia da non confondere con la Earhart, protagonista di un (risibile) film che racconta la vicenda della pilota che non lasciò tracce di sé dopo la trasvolata che da Miami la portò a Porto Rico, lungo la costa nord-orientale del Sud America, in Africa, India e Nuova Guinea; dopo 22.000 miglia – ne mancavano 7 mila per compiere il giro del mondo – venne persa a poca distanza dall’isola di Howland, carburante esaurito e comunicazione interrotta. Per alcuni l’operazione fu il prodotto di una missione di spionaggio (nell’isola di Mikumaroro venne ritrovata la suola di una scarpa dello stesso modello e numero di quelle indossate da Amelia), per altri l’aviatrice fu fatta prigioniera dai giapponesi con l’accusa di essere una spia ed in seguito giustiziata mentre, secondo il documentario della National Geographic “Where’s Amelia Earheart”?, sarebbe sopravvissuta ai campi di prigionia e tornata in America sotto falso nome. Che quasi mi pare di vederla in volo.

Per rifornimento atterro ad Ellington, Connecticut. Manica a vento ferma, velocemente libero la pista. Unico aeroplano fra tanti elicotteri per parlare con Susanne Hallen, della scuola della North East Helicopters: “Per lavoro piloto gli Air Atlanta Helicopters, per diletto i choppers”, come l’R-22, un gioiellino sul quale volo spesso anch’io, brevettata e innamorata, e ne conosco le meraviglie dell’atterraggio sulla vetta più alta e innevata di un cucuzzolo d’Appennini, o della merenda accanto alla croce alta del Tuscolo. “Ho il brevetto di pilota commerciale (CPL, ndr) e sono prossima a conseguire i brevetti da istruttore (CFI e CFII, ndr)”.

Si solleva un polverone, vento traverso, meglio proseguire: decollo ala al vento e piede destro, direzione sud-est, bussola 140 gradi, Messico. Lisa Cooper proviene dal Missouri: per 8 anni ha vissuto a Portland, nell’Oregon, lavorando per l’Horizon Air, sussidiaria dell’Alaska Airlines. Pilota un CRJ-700 tra l’America occidentale, il Messico e il Canada: “Volo sin dai tempi del college e voglio entrare in una compagnia di bandiera”.

Quindi bussola 120, Brasile. Dall’alto Copacabana, l’aeroporto di Maricà, il Cristo di Rio, ma mi dirigo (270 gradi) verso San Paolo dove Clarissa Pereira mi racconta il suo primo volo da solista: “L’ho fatto a 18 anni su un elicottero leggero. Da allora non ho mai smesso di volare” e, finite le riprese del video Atlas Brazil per Discovery Channel per le quali ha messo a disposizione le proprie abilità, le hanno detto: “Grazie Clarissa, ci hai incoraggiato a volare”.

Incoraggia anche me per la mia traversata sopra l’Atlantico e rientro a Roma in volo strumentale notturno sopra un aereo di cartone. Atterro per pista 27, il vento ora spira da nord e punta la manica a vento in posizione consueta, ripongo le mie ali nell’hangar della Flyroma e mi fermo un attimo, in silenzio. L’odore è quello dell’erba umida ed è quasi l’alba. Nessuno sa che ho preso un ULM per attraversare l’oceano e parlare di donne. Solo uno struzzo ed un maiale mi guardano. Il primo allunga il collo e, nonostante ali inette al volo, dal mio sguardo si convince che un giorno lo faranno volare. Il secondo mi chiede com’è il cielo, perché i maiali non possono guardarlo. Gli rispondo che è come una donna: inafferrabile. E quasi vive meglio lui, che non lo sa. (ROMINA CIUFFA)