FURIO HONSELL: DA UDINE ALLA REGIONE, I DIRITTI CIVILI NEL PATRIMONIO FRIULIANO

LA VIDEOINTERVISTA

A circa 20 chilometri dalla Slovenia, 100 dall’Austria, 150 dalla Croazia, di certo Udine è più vicina all’est europeo che non all’Italia. In molti sensi. E nonostante potrebbe fregiarsi di un senso quasi «padano», nordico, per la sua altitudine, ricchezza, posizione, e rivendicare più di altre Regioni italiane la distanza da Roma, in senso politico, è una città di integrazione e di diritti civili. Per definizione. Sarà, il fatto che il Friuli-Venezia Giulia ha già uno Statuto speciale, dunque autonomia ed esperienza; sarà che in questi ultimi 10 anni è stata retta da un sindaco di centro-sinistra; sarà che l’identità friuliana non si misura sulla carta ma sul campo, e che esiste una lunga storia di emigrazione ed immigrazione che vede Udine attiva (ne sono testimoni i «fogolâr furlans», associazioni di friuliani nel mondo); sarà la coabitazione con l’Europa, quella del nord e dell’est.

Sarà tutto questo, ma di certo Udine risulta – anche dopo il terremoto del 1976 (scosse a maggio e a settembre) che vide lì proprio il suo epicentro – florida. La ricostruzione fu rapida e completa e subito, a due giorni dal sisma, il Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia stanziò con effetto immediato 10 miliardi di lire. Il modo in cui venne gestito il dramma è ancora alto esempio di efficienza.

I dieci anni per il doppio mandato dell’attuale sindaco Furio Honsell stanno per terminare: dal 28 aprile 2008 al 31 dicembre 2017 la città, che ha appena ospitato al Festival Mimesis i più grandi filosofi e pensatori italiani, è uno dei capoluoghi italiani dei diritti civili anche grazie a lui. Il caso di Eluana Englaro, costretta 17 anni in stato vegetativo per accanimento terapeutico; le unioni civili (è di Honsell la trascrizione del matrimonio di Adele Palmieri e Ingrid Owen prima che ci fosse una legge ad hoc), la protesta dei quattro dipendenti della Gros Market di Pradamano (sul tetto è salito anche il sindaco), l’accoglienza dei rifugiati e dei vicini di casa. Honsell, nato a Genova, già rettore dell’Università di Udine, matematico e rigoroso scientifico, ora è pronto per la sfida alle regionali.

D. Da Genova a Udine: che percorso l’ha portata in Friuli?
R. Sono arrivato la prima volta a Udine da studente universitario in autostop, poi da professore con un concorso nazionale. La mia prima lezione si è svolta nel lontano anno accademico 1988-1989. All’epoca era un’università molto giovane, e per non disturbare quelle limitrofe l’avevano obbligata ad avere dei corsi allora considerati secondari: Informatica, Conservazione dei beni culturali, Agraria. Questo la dice lunga su quanto sia difficile prevedere il mondo. Sono stato rettore dal 2001 al 2008, anno in cui mi sono dimesso; solo dopo mi sono candidato come sindaco. Da rettore ho conosciuto molto del territorio sotto tantissimi profili. Sono stato il propugnatore, tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo millennio, di quella che è stata chiamata la terza missione dell’università: il servizio al territorio, posto che la prima fu quella meramente didattica, e la seconda, con Friedrich Wilhelm Von Humboldt agli inizi dell’Ottocento, di ricerca. Quando mi sono candidato, l’ho fatto con la lista civica di sinistra Innovare con Honsell.

D. Due mandati, questo giunge al termine. Quali i suoi riferimenti in questi 10 anni?
R. Innanzitutto ho firmato il patto dei sindaci 202020 nel 2009. Esso prevede l’abbattimento del 20 per cento delle emissioni di CO2 da fonti fossili, l’aumento della percentuale energetica da fonti rinnovabili e l’efficientamento, quindi la riduzione dei consumi energetici del 20 per cento. Mi sono ispirato molto alla sostenibilità ambientale. I 17 SDG, «sustainable development goals» delle Nazioni Unite, prima ancora che li facessero, erano nella mia visione. Una delle cose delle quali sono più orgoglioso è che da rettore si progettò un grande sistema di cogenerazione di energia elettrica e calore in ospedale, con un sistema di raccolta e di ritrasferimento, attraverso un sistema di teleriscaldamento, a tutta la città: sono dovuto diventare sindaco per varare questo tipo di servizio pubblico. Oggi abbiamo diversi edifici, tra cui il Palamostre, riscaldati con calore che altrimenti andrebbe sprecato.

D. Udine è più «sostenibile» ora?
R. C’è tutto uno spettro di iniziative, inclusa l’illuminazione a led di tutta Udine. Quindi, una cosa che poche città hanno è il regolamento edilizio obbligatorio, che io ho varato per far sì che l’involucro di un edificio non abbia dispersione termica. Altra stella polare è l’essere parte della rete europea «healthy cities», città sane, dell’Organizzazione mondiale della sanità; siamo sempre stati la città di riferimento nella promozione degli stili di vita sani e della salute, intesa come benessere dei cittadini non solo fisico ma anche emotivo e relazionale.

D. È stato (ed è) anche un sindaco innovativo, non senza ricevere polemiche. Dalle unioni civili all’eutanasia.
R. Una delle cose che deve fare un sindaco è dare forza a chi ha buone idee. In città ci sono 100 mila abitanti e con l’unione dei Comuni stiamo arrivando a 150 mila. Pensi ad esempio ai matrimoni: ci sono quelli in fin di vita, quelli in carcere, ci sono le unioni civili per le quali mi sono battuto molto avendo avuto anche conflitti con il prefetto. Ho registrato una delle prime, e quando è passata la legge abbiamo fatto sì che non ci fosse discriminazione. Molte sono state le situazioni anche non previste dove si è dovuto fermamente difendere i diritti civili, ad esempio quando nella casa di riposo «La Quiete» abbiamo reso giustizia a Beppino Englaro, padre di Eluana, sottoposta per anni ad alimentazione forzata.

D. Un suo commento sull’eutanasia?
R. Parlo di diritto alla giustizia. Se legge la sentenza della Corte di appello avrà le lacrime agli occhi, ma non dubbi: non di eutanasia si è trattato, ossia procurare la morte in modo razionale o socratico, né di accanimento terapeutico, ma dell’articolo della Costituzione che dice che si possono rifiutare le cure. Chiamai il presidente Napolitano per chiedergli di non firmare la legge che gli stava passando Berlusconi perché illegittima, e mi disse che non lo avrebbe fatto.


Beppino Englaro con una foto della figlia Eluana

D. In Friuli è molto vivo il tema dell’immigrazione e dei richiedenti asilo, considerato anche il territorio. Come lo ha affrontato?
R. Abbiamo vissuto negli ultimi 5 anni un arrivo massiccio di coloro che il sud Italia ha mandato al nord e di quelli provenienti da altri luoghi, come Pakistan o Afghanistan, con picchi di duemila persone; ora siamo a circa mille. Non ho mai rifiutato: abbiamo mantenuto un alto livello di civiltà dando ospitalità a tutti in modo anche autonomo, considerato che il Governo di allora li lasciava in giro nel periodo in cui dovevano fare i documenti. Non solo li ho ospitati nelle palestre, nelle tende, nei parchi, ora 350 vivono in appartamenti e con la Croce Rossa abbiamo avviato l’apertura a tali fini di alcune caserme chiuse. Ad Udine spiccano ora romeni in primis, poi albanesi, quindi ghanesi. Questi ultimi sono stati sostituiti dalle ucraine, per via del lavoro da badanti: abbiamo un indice di vecchiaia di 218, ossia ogni 100 under 14 abbiamo 218 over 65. Udine conta 100 mila abitanti e degli 800 bambini nati lo scorso anno la metà ha genitori stranieri. L’età media degli udinesi è di 47 anni, ma se togliamo gli stranieri va ben oltre i 50. Ecco perché bisogna integrare gli stranieri, è questa la grande sfida. Abbiamo in Friuli 110 chilometri quadrati di aree militari dismesse, su 400 siti. L’intera superficie di Udine copre 56 chilometri quadrati. Perciò alcune caserme, come la Cavarzerani, sono state recuperate per i richiedenti asilo. Quando è in gioco questo tema, si fa appello ad aspetti umorali e superficiali; bisognerebbe invece pianificare in che modo promuovere l’inclusione sociale. Noi l’abbiamo fatto perché è tra i valori della città, e correlato c’è quello dell’equità. Quarto degli obiettivi europei di sviluppo sostenibile e uno degli aspetti più delicati dell’attuale coesistenza civile è proprio quello della disparità economica e sociale.

D. Un decennio di cambiamento, dunque, e accrescimento?
R. Ho fatto piantare in città anche il «ginkgo biloba», un albero importante: pochi sanno che è il primo che crebbe, spontaneamente, ad Hiroshima, quando tutto era stato raso al suolo. Questo è il significato del mio mandato. Non so se Udine è cresciuta con me, senz’altro mi auguro di non averla danneggiata. Quando incontro qualcuno che mi dice che sono il peggior sindaco dal dopoguerra – ogni tanto capita – rispondo sempre: «Aspetti di vedere il prossimo». La critica c’è sempre. Una delle sindromi psicologiche più comune è quella dell’availability bias: i cittadini ritengono più importante ciò che è più disponibile, quindi chiedono di chiudere le buche nelle strade. Ma quando l’ho fatto, mi hanno nuovamente interpellato perché, senza buche, le auto correvano troppo ed erano divenute pericolose. In compenso, ho rifatto le palestre nelle scuole perché bambini e atleti non abbiano cemento sotto ai piedi ma una superficie assorbente atta a non creare lesioni.

D. Udine e l’Europa: cosa c’è?
R. Innanzitutto ci sono la reputazione ed il prestigio che i friulani hanno nel mondo; inoltre ci sono i «fogolâr furlans» che consentono di trovare friulani ovunque. C’è anche l’Udinese, un forte veicolo dell’identità friulana (una delle più antiche d’Italia essendo nata nel 1896, ndr): ho rifatto lo stadio vendendolo, sa che mi costava più di un milione l’anno per tenerlo ai vertici richiesti dalla Uefa? Ora è dell’Udinese per 99 anni.

D. E gli udinesi si sono lamentati del cambio di nome, non più Stadio Friuli ma Dacia Arena: l’Udinese Calcio spa ha imposto la denominazione commerciale cedendo il «naming right» alla casa automobilistica rumena.
R. Avrei fatto un contratto di «naming», i consiglieri comunali non l’hanno voluto fare. E pazienza.

D. Si è sentita la crisi ad Udine e, più in generale, in Friuli?
R. Sono divenuto sindaco quando in Italia è iniziata la recessione economica, ma con certe operazioni siamo riusciti a compensare le minori entrate. Per esempio, con il led la spesa per l’illuminazione pubblica è scesa da 3 a 1,8 milioni, così come la spesa per il riscaldamento degli edifici pubblici è scesa da 3 a 1,2 milioni l’anno. La recessione ha colpito soprattutto i settori maturi e quelle aziende che non controllavano la filiera ma erano subfornitori per qualcun altro. Chi aveva una forte internazionalizzazione e il controllo della filiera produttiva è andato molto bene, chi vendeva il made in Italy all’estero non ne ha sofferto, chi faceva componentistica in molti casi è fallito. Deve pensare che in Friuli abbiamo avuto sempre diaspora e immigrazione, fino ad un fatto che si pensava fosse la fine di tutto e invece non lo è stato, il terremoto: poteva essere il colpo di grazia, ma è stata una scintilla. Abbiamo avuto un rinascimento e siamo diventati terra di immigrazione, fino al 2008. La stessa università è nata per il terremoto. Si diceva che il Friuli dovesse uscir fuori dal terremoto con la testa, ossia con l’università, alla maniera dei vivi, che sono tirati fuori dalle macerie dal capo, e non dai piedi, ossia con una nuova emigrazione, alla maniera dei morti. (ROMINA CIUFFA)


Romina Ciuffa, Loggia del Lionello (Udine)

GALLERY (photo ROMINA CIUFFA)

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ERTHARIN COUSIN: ONU, INSIEME A OBAMA PIANTIAMO SEMI PER SFAMARE IL MONDO

Ambasciator non porta pena, è detto. Ma una pena ce l’ha Ertharin Cousin, rappresentante permanente degli Stati Uniti presso le Agenzie dell’Onu: la fame nel mondo. Il World Food Programme, in italiano Programma Alimentare Mondiale, è stato istituito nel 1963 con sede in Italia, a Roma, e costituisce il braccio operativo del sistema delle Nazioni Unite per gli aiuti alimentari. Tra gli obiettivi di sviluppo del millennio che le Nazioni Unite si sono prefissate di raggiungere entro il 2015, dimezzare la percentuale della popolazione colpita dalla fame nel mondo è diventato prioritario e per raggiungerlo l’ambasciatrice è giunta a Roma, inviata personalmente da un suo vicino di casa: Barack Obama. Lui stesso le chiese, durante un party natalizio tra amici, di portarlo alla presidenza.

Domanda. Sembra che da sempre sapesse dove dirigere le sue energie. Qual è stato il filo conduttore della sua vita?
Risposta. Ho iniziato con naturalezza la carriera forense, che ho proseguito per 30 anni, una decisione mossa da un unico desiderio: quello di aiutare gli altri. Mio padre era un attivista operante per i diritti civili nella nostra comunità a Chicago, nel West Side, mia madre un’operatrice sociale. Ci hanno cresciuti insegnandoci l’impegno per la comunità, così fu per me molto naturale decidere di divenire un avvocato. Cominciai a Chicago, praticando il Community Law e occupandomi soprattutto di violenze domestiche e di problemi tipici di uno stato di povertà. Il passo successivo fu l’Onu, mi occupavo non dell’organizzazione bensì dei singoli membri. Era il 1983 quando Chicago elesse per la prima volta un sindaco afroamericano, Harold Washington, un momento di assoluta importanza per la storia della nostra città. Avevo lavorato per la sua campagna elettorale, e mi occupai di quella di Jesse Jackson nelle elezioni presidenziali statunitensi del 1984. In quelle occasioni ebbi modo di ampliare i miei orizzonti e ottenni l’opportunità di occuparmi di altre campagne e di divenire direttore degli uffici regionali del Segretario generale dello Stato dell’Illinois e direttore del Chicago Ethics Board. Quindi mi avvicinai al settore privato, nel ruolo di qualità di direttore degli Affari governativi per la compagnia telefonica AT&T. In quel periodo Bill Clinton si candidava alle presidenziali, vincendole, e mi fu richiesto di lavorare per il suo team, così mi trasferii a Washington; avevo studiato International Law and Policies con l’ex Segretario di Stato Dean Rusk ma, devota al lavoro di comunità, non avevo mai pensato che avrei potuto usare tali competenze allo stesso fine. Mi sentii molto onorata quando la Casa Bianca mi chiese di lavorare per il Ministero degli Esteri.

D. È rimasta per molto tempo alla Casa Bianca?
R. Ho seguito le attività di Hillary Clinton in Cina, per la Conferenza sulle donne, per poi occuparmi nel 1996 delle operazioni per la campagna presidenziale Clinton-Gore. Dopo la vittoria fui nominata vicepresidente degli Affari governativi, comunitari e politici, ma soprattutto, dal 1997 ho lavorato per il Board for International Food and Agricultural Development, ente che assiste i progetti agricoli dell’Agenzia per lo Sviluppo internazionale, quindi per il Jewel Food stores, una compagnia con 35 mila impiegati, fino a divenirne vicepresidente per gli Affari pubblici. Le soddisfazioni economiche derivate dall’impiego nel settore privato non mi bastavano. La mia domanda è sempre stata una: cosa posso fare per rendere la vita degli altri migliore? Così nel 2002 sono entrata a far parte dell’America’s Second Harvest, oggi Feeding America, la più grande organizzazione americana per la fame, che sostiene le oltre 200 banche del cibo nel Paese. Durante quel periodo ci siamo impegnati a portare il cibo nelle zone colpite dall’uragano Katrina, e quell’esperienza mi ha fatto capire quale fosse il mio dono, aiutare gli altri. Quindi ho cominciato a lavorare per aiutare varie organizzazioni americane non profit, sviluppando gli accordi necessari alla loro sopravvivenza. In questo modo ho capito che senza il settore privato queste organizzazioni non avrebbero futuro, e ho appreso a mettere a punto le partnership appropriate, che è il know-how che ho portato con me in questa esperienza di ambasciatore dell’Onu.

D. Quando è entrata a contatto con l’attuale presidente degli Usa?
R. Nel Natale 2006 ho incontrato per caso, in una festa dei vicini, il senatore Barack Obama che mi ha detto: «Sto pensando di farlo, e vorrei che lei mi aiutasse». Io risposi: «Se si candiderà, io ci sarò». Capii subito, quando genericamente disse «farlo», che si riferiva alla corsa per le presidenziali. Ho partecipato in gennaio ad un incontro più ufficiale e sono divenuta consulente senior della sua campagna. Inizialmente nessuno pensava che avrebbe vinto. Con i Clinton avevo lavorato molto, e avrei di certo appoggiato Hillary se Barack, che è un amico e un vicino, non me l’avesse chiesto, ed è stato impossibile per me dirgli di no. Ho così informato il team Clinton che avrei seguito Obama e loro, consapevoli del fatto che provengo dall’Illinois, sono stati comprensivi. Li ho rassicurati che non avrei mai compiuto alcunché potesse ledere la loro campagna, e così è stato. Abbiamo lavorato duramente. Quando iniziammo, nessuno conosceva Barack Obama se non dal discorso che tenne al Congresso, che ricordo come il giorno più freddo mai avuto nell’Iowa. Più avanti era molto chiaro che avrebbe vinto, poiché il suo messaggio cominciò ad essere ascoltato in tutto il Paese, ed io iniziai a chiedermi cosa avrei voluto fare in tal caso.

D. Come avvenne lo spostamento dagli uffici presidenziali verso l’ambiente diplomatico degli aiuti?
R. Una volta eletto, informai il presidente che avrei voluto lavorare per organizzazioni umanitarie e lui mi disse: «Che idea grandiosa!», perché era a conoscenza del fatto che da sempre ero stata entusiasta di svolgere un lavoro di aiuto alla comunità. Anche il team di Obama esultò dinanzi alla mia scelta. Nel settembre 2009 sono stata nominata dal presidente rappresentante permanente presso le Agenzie dell’Onu per il cibo e l’agricoltura, tre organizzazioni maggiori e tre minori, tutte operanti a Roma: il WFP (World Food Program), l’Ifad (International Fund for Agricultural Development), la Fao (Food and Agricultural Organization), l’Iccrom (International Centre for the Study of the Preservation and Restoration of Cultural Property), l’Idlo (International Development Law Organization) e l’Unidroit (International Institute for the Unification of Private Law).

D. In cosa consiste il suo compito?
R. Non si tratta solo di fornire cibo, bensì di dare alle popolazioni gli strumenti perché possano procurarselo da sé e divenire, nel tempo, più indipendenti. Lo facciamo attraverso programmi specifici come il P4P, Purchase for Progress, e accordi in cui cerchiamo di garantire equità tra le parti e sostegno verso i Paesi in via di sviluppo. Il WFP costituisce il braccio operativo del sistema delle Nazioni Unite per quanto riguarda gli aiuti alimentari; anche la Fao si occupa di aiutare l’agricoltura, ponendosi come foro neutrale in cui le nazioni si incontrano alla pari per negoziare accordi e discutere linee di condotta. L’Ifad promuove e finanzia programmi e progetti che mettano i poveri delle aree rurali in condizione di sconfiggere la povertà. Tra le minori, l’Iccrom è il Centro Internazionale di Studi per la Conservazione e il Restauro dei Beni culturali e si occupa della conservazione del patrimonio sia mobile che immobile in tutto il mondo; l’Idlo pensa allo sviluppo del diritto in ambito internazionale e l’Unidroit, più specificamente, all’unificazione del diritto privato fra i vari Paesi. Rappresentiamo gli Stati Uniti presso ciascuna di queste organizzazioni, e gli altri membri del team sono esperti nei vari settori; personalmente sono nell’executive board del WFP. La nostra squadra è composta da esperti in emergenza e sviluppo rurale. Gli Stati Uniti sono i sostenitori più rilevanti nelle tre organizzazioni principali. È importante che i fondi, che provengono dai contribuenti, siano utilizzati come previsto: qui ci occupiamo di questo, ci assicuriamo che il programma incontri determinati requisiti. Mi reco anche personalmente sul campo, osservando che i programmi disegnati qui a Roma siano di fatto sviluppati nei vari Paesi, e verifico l’impiego effettivo delle nostre risorse, perché il programma sia usato a beneficio reale del Paese in questione.

D. La sua esperienza in Italia le dà modo di comprendere differenze precipue con gli Stati Uniti. Quali in particolare?
R. Noto che l’America è spesso scollegata dal resto del mondo; in Europa, diversamente, vi sono connessioni naturali fra Paesi vicini, e in Italia è più facile sentirsi allievi del mondo. Mi accorgo qui di avere più responsabilità non solo per ciò che accade negli Stati Uniti ma per lo sviluppo dell’intero mondo, e sono molto orgogliosa di essere americana per la generosità che il nostro Paese usa nel sostenere i vari programmi. Con questo mandato ho l’opportunità di testimoniare l’impatto reale che i programmi umanitari, che ero abituata a conoscere da un diverso punto di osservazione, hanno sullo sviluppo mondiale, e non avrei potuto afferrarne l’importanza solo leggendo i documenti prodotti. Ovunque mi troverò dopo questa missione, resterò sempre legata al mondo. Mi rendo conto che la comunità globale è molto responsabile della salvaguardia dei Paesi sottosviluppati, ma i più vulnerabili non sono meno responsabili del proprio destino. Australia, Giappone, i Paesi del Bric – Brasile, Russia, India e Cina -, non c’è un Paese più responsabile di altri per ricchezza, e il maggiore sviluppo di alcuni rispetto ad altri rende i primi solo responsabili a un differente livello, non «più» responsabili.

D. In che modo i Paesi meno sviluppati possono collaborare in questa strada comune verso una crescita sostenibile?
R. Un programma molto interessante è quello che ha adottato l’Unione Africana, il Caadp (Comprehensive Africa Agricolture Development Program), e che tutti i Paesi dell’Unione europea stanno firmando. Con esso infatti si impegnano non solo ad investire nell’agricoltura, ma ad investirvi almeno il 10 per cento del proprio prodotto interno, in tal modo riconoscendo che la sostenibilità di ogni programma è direttamente legata alla proprietà del programma stesso. Meglio detto: ogni Paese deve porre le basi per il proprio destino. Non c’è nulla che gli Stati possano fare da soli, come partner di sviluppo, per garantire la sostenibilità dei programmi in Paesi in via di sviluppo. È sempre richiesta una partnership con questi ultimi, che devono impegnarsi al pari dei Paesi sviluppati e investire le loro stesse risorse, anche economiche, per migliorare le proprie condizioni.

D. Nei Paesi del Bric spicca la Cina. Considerando l’enorme crescita avuta negli ultimi anni, può essere ancora mantenuta al livello degli altri tre?
R. I Paesi facenti parte del Bric sono considerati meno sviluppati di altri, e sono ora definiti come di nuovo sviluppo. Ma la Cina costituisce senza dubbio l’esempio di cosa può accadere se il Paese si impegna per primo nella propria crescita sostenibile.

D. In che modo è presente il Vaticano negli aiuti alla comunità globale?
R. Il Vaticano ha numerosi programmi nel mondo nei quali investe significativamente, ed ha osservatori presso ogni organizzazione; esso è riconosciuto dall’Onu e partecipa al dibattito politico nella Fao e nei programmi del WFP. Lavoriamo con la Santa Sede come con altri colleghi, ovviamente non c’è alcun riferimento alla religione; a Roma ne avverto la presenza anche sul piano del cattolicesimo, ma nell’esercizio delle mie funzioni, così come negli Usa, il Vaticano corrisponde a uno Stato come un altro con cui collegarci nella nostra missione.

D. Quali sono i suoi rapporti con Roma e l’Italia?
R. Sono a Roma perché la missione si trova qui; il WFP iniziò all’interno della Fao, la cui sede è sempre stata qui, e quando se ne è distaccata è stato naturale mantenere la sede. A Roma nascono i programmi a beneficio di tutto il mondo . Amo questa città, i suoi abitanti sono genuini e generosi, ho conosciuto persone che rimarranno per sempre presenti nella mia vita, che mi hanno aperto le loro case sapendo che potevo trovare difficoltà di integrazione non avendo padronanza della lingua. Mi hanno reso una persona più aperta rispetto a prima, e non avrei mai pensato di ricevere da questa esperienza un tale ulteriore beneficio a favore del mio bagaglio culturale. Ho visto molti luoghi in Italia, l’Umbria ad esempio, la Toscana, il Nord, ho visitato alcuni Paesi del Nord Europa e programmo altri viaggi nel mio tempo libero. Ogni cosa qui è molto vicina, e non sono abituata a questo modo di viaggiare.

D. Cosa c’è nel suo futuro?
R. Dopo quest’esperienza non so cosa ci sarà, né dove. Gli ambasciatori tradizionalmente restano in carica per circa tre anni, e io sono a metà. Continuerò a lavorare su ciò che sto facendo qui. Sono stata sul campo molte volte, non mi opporrei ad essere trasferita permanentemente in un luogo specifico dove poter mettere a frutto, direttamente, la mia esperienza. Per il momento mi impegno completamente nel mio lavoro a Roma, poi sceglierò l’opportunità più consona alle mie esigenze di aiutare il prossimo.

D. In che modo l’America è stata presente nei luoghi di Haiti dopo il terremoto che l’ha colpita distruggendola?
R. Si è trattato di uno dei disastri naturali più devastanti mai visti. Gli Stati Uniti lavoravano per sostenere l’agricoltura di Haiti anche prima del terremoto; dopo il disastro, 900 mila persone si sono spostate verso le campagne. Questo ci ha dato modo di intervenire nello sviluppo rurale di quei luoghi attraverso i nostri strumenti. Abbiamo stretto un accordo con il Brasile per portare trattori ad Haiti; ci siamo impegnati a creare un mercato accessibile per acquistare semi e materiale agricolo. Dobbiamo continuare anche oltre il momento dell’emergenza, ed essere presenti in tutto il periodo della ricostruzione del Paese.

D. Per New Orleans, invece?
R. A New Orleans sono andata almeno venti volte e posso testimoniare tutti i cambiamenti dalla settimana successiva all’uragano Katrina ad ora, le differenze nella vita degli abitanti, la ricostruzione delle case e dei centri di commercio: è un caso di intervento privato a supporto di quello pubblico su un’area devastata. Proprio usando questo come modello abbiamo potuto lavorare per Haiti. Il punto è il ruolo del settore privato e degli investimenti nello sviluppo, essenziali per creare economia nei luoghi non sviluppati attraverso accordi equi. Il nostro obiettivo è individuare tante più opportunità possibili per ogni mercato e assistere, usando le organizzazioni di riferimento, nella sottoscrizione di accordi per lo sviluppo.

D. Nel summit del G-8 2009 tenutosi a L’Aquila, il presidente Obama annunciò l’investimento in tre anni di circa 3,5 miliardi di dollari per lo sviluppo agricolo e la sicurezza alimentare. Di che si tratta?
R. Il Governo Usa ha lanciato il programma «Feed the Future» per riaffermare l’impegno nei confronti della fame e della sicurezza alimentare a livello globale. Esso aggiunge risorse ai programmi già in atto, promuovendo la collaborazione tra gli interessati e investendo in produttività agricola, ricerca e mercati bonificati, per aumentare la fornitura di prodotti alimentari e ridurre i prezzi.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Aprile 2011