TI VA DI FARE A SCAMBIO DI COPPIE?

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TI VA DI FARE A SCAMBIO DI COPPIE? Chi ha detto che non si possono fare scambi di coppia? Esistono, dunque si possono fare. Una cosa è giudicarli, altra è sapere che esistono e, dunque, per ciò solo legittimarli. Non è una porcheria. È più una porcheria il tradimento. Lo scambio di coppia innanzitutto è accordato da entrambi i partner, e questa è la cosa principale. Da una parte ciò potrebbe voler dire che i due le stanno provando tutte per mantenere il rapporto e strapparlo alla noia; sono anche disposti a dividersi con altri pur di tornare a sentire quelle emozioni di gelosia e possesso: ma questo è un punto a loro favore che, in qualunque modo, vogliono provare a stare bene insieme, sia pure machiavellicamente. Il sesso di certo è al centro di questo esperimento: sesso assente o annoiato tra i partner di entrambe le coppie, desiderio di sperimentare il nuovo con un pizzico di immoralità, possibilità di andare a letto con un’altra persona senza tradire la fiducia del partner.

Io ritengo molto meno immorale lo scambio di coppie che il tradimento. Nello scambio di coppia c’è tutta una ritualizzazione, la conoscenza, il corteggiamento di una intera coppia verso l’altra, due a due, lo studiarsi, l’annusarsi, il capire se si è giusti gli uni per gli altri. Ci vuole una fermissima volontà e deve essere azzerato il senso del possesso, operazione che entrambi compiono per poter dar luogo allo scambio senza soffrire. Che non sia, infatti, il gioco di uno solo con l’altro connivente, non è sensato accettare uno scambio quando si sa che si soffrirà. La noia del rapporto, attraverso lo scambio di coppia, sarà forse ravvivata per qualche tempo, ma bisogna capire e sapere, sempre, che non passerà: il rapporto comunque sarà noioso e, per lo scambio, potrebbe persino logorarsi, ma i due sono disposti ad accettare il rischio.

Nel tradimento, non esiste lealtà ed è presente l’azzeramento dell’altro, anche in un tradimento meramente sessuale. Non c’è nessuno che merita di essere tradito, tranne chi ha tradito. È una morra cinese. Non si parla di immoralità bensì di sfiducia, concetto ben più elevato e pericoloso. La morale la si costruisce convenzionalmente, secondo i valori in voga nel tempo e nel luogo e, soprattutto, quelli primari dell’individuo che può costruirsi una morale propria totalmente svincolata da quella della massa. La sfiducia ed il suo ambito opposto, la fiducia, sono invece costrutti complessi: se la fiducia ha bisogno di molto tempo per costruirsi con fatica e sangue freddo, per poi dare dei risultati magnifici – il senso di potersi fidare è uno dei primi pilastri dell’amore – la sfiducia, invece, la si costruisce in un attimo sfaldando l’altra. La sua costruzione corrisponde alla distruzione del suo opposto, che tanto tempo ha richiesto per essere tirato su; una scossa di terremoto, un tradimento, un colpo secco e via, la fiducia non c’è più. E mai più tornerà. Il rapporto finirà per sfaldarsi e, sia pure tenuto in vita, non sarà più quello di prima, sarà lo zimbello di un rapporto leale, il buffone della casa, il cornuto da insultare. Un tradimento non può accettarsi perché è una mancanza di rispetto che uccide la fiducia.

Allora si capisce quanto sarebbe stato meglio fare un bello, immorale, scambio di coppia con due perfetti sconosciuti. Ma pure un’orgia, purché non si tradisca.

Romina Ciuffa, 9 maggio 2025

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CORTEGGIARE È SESSO

CORTEGGIARE È SESSO. Il romanticismo è essenziale in una coppia? O è solo una cosa in più, un’impalcatura di fiori e candele profumate? Si dà per scontato che almeno il corteggiamento sia di tipo romantico. Tralasciando le considerazioni per cui i ragazzi di oggi hanno totalmente ristretto questa prima fase a un messaggio di whatsapp, per chi rimane sulla Terra reale uscendo da quella virtuale il corteggiamento resta una cosa importante, la famosa rosellina, la cena a lume di candela, la sorpresa, le luci soffuse a casa, un camino acceso e tanto di più, chi più ne ha più ne metta. Vi sono dei corteggiamenti che mancano di questi elementi perché la persona coinvolta romantica non è e, se non si è romantici, è impossibile anche solo capire l’importanza di una rosellina. Ciò non vuol dire che il corteggiamento non ci sia, ma è del tutto diverso e si basa più su azioni concrete, telefonate, messaggi, introduzione dell’altro nella propria normalità, infine il bacio.

Il corteggiamento può dirsi tale se non è romantico? Romanticismo e corteggiamento sono strettamente collegati, ma in un unico senso. È il romanticismo che va a permeare, in alcuni casi, il secondo, e non è quest’ultimo che cerca il primo; però, di certo rosa rossa e “ti passo a prendere” vanno a braccetto e consentono di dar luogo ad un corteggiamento più risonante, dolce, anche divertente, perché le armi del corteggiamento sono diverse per tutti e, a parte il mazzo di rose, può essere dato spazio alla creatività. Io, ad esempio, alla prima uscita ho portato una pianta di peperoncino – volevo dire che la nostra storia la volevo piccante.

Corteggiare è a tutti gli effetti rivolgere gentilezze a qualcuno per guadagnarne l’amore. È un’attività composta di molti atti singoli che vanno visti nella loro interezza come la richiesta di attenzioni e un biglietto che dice “con te sarò sempre così”. Ma galanti, poi, spesso si smette di esserlo. Il corteggiamento non deve essere fine a se stesso, non è solo la danza stupenda di quegli uccellini che, per attirare l’attenzione dell’uccellina, tirano fuori grandi pennacchi colorati e si mettono sotto il suo ramo a fare i buffoni. Corteggiare è mantenere il senso della galanteria per sempre nel rapporto, che esso duri una settimana o una vita, soprattutto in una lunga relazione dove le possibilità di divenire “come fratelli” sono elevate. Aiutati che Dio ti aiuta.

Qualche fiore al compleanno, una sorpresa in mezzo a una settimana qualunque con una prenotazione in un ristorante che piace, un weekend fuori, anche un agriturismo qualunque, purché si manifesti la voglia, la volontà, il desiderio, la necessità di corteggiare ed essere corteggiati in ogni momento, di ricreare momenti di grande bellezza da impilare insieme ad altri per non stancarsi mai. Corteggiare è un’arma molto potente per far sì che la relazione non si oscuri, non si appiattisca, va visto come una strategia d’elezione per amare qualcuno che si è già amato, non solo per provare ad amare qualcuno che si amerà. Corteggiare è anche preludio di un sesso migliore. Corteggiare è sesso esso stesso, è tornare agli inizi anche solo per due ore, anche solo in un fiorellino, anche solo in lenzuola di seta, corteggiare è mantenersi vivi, corteggiare è amare, sempre. È mantenere il pennacchio colorato sulla testa e tornare a ballare, ogni tanto, per l’altro.

Romina Ciuffa, 8 maggio 2025

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IL PRIMO PASSO IO NON LO FACCIO

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IL PRIMO PASSO IO NON LO FACCIO. Ci sono quelle settimane, mesi a volte, anche annualità di litigio che finisce per divenire routine in cui si fa questo penoso gioco di non chiamarsi e aspettare che sia l’altro a fare la prima mossa, per una, due, tre volte, poi si torna un po’ insieme con qualche rancore, e di nuovo litigio e attesa, scrivi tu, io non scrivo, perché non mi hai scritto, sei sparita, amore non ce la faccio più e tante, tantissime frasi tra il serio e il faceto, tra l’amore e l’odio, tra il lasciamoci ed il restiamo insieme, tra l’è finita e il prendiamoci un periodo di riflessione. Nel mio libro Amore mio tu soffri mi sono lungamente trattenuta su questi concetti e, soprattutto, sull’amore in pausa, quello della riflessione. Ma questi giochetti sono ben altro. Si tratta di una necessità, quella dei due, di essere cercati dall’altro totalmente dettata da insicurezza da un lato, orgoglio dall’altro, meglio detto orgoglio e insicurezza totalmente avvinghiati al punto da non sapere dove finisce l’uno e inizia l’altro, e il tutto prescinde, da un certo punto in poi, da chi abbia ragione se ragione ve n’è. E, ai tempi di oggi, si guarda ossessivamente il cellulare, speranzosi, imbastarditi, abbattuti, supplichevoli.

Poi, quando il messaggio dall’altro arriva (ha ceduto), la reazione sarà la seguente: tzè, mi ha scritto, non si merita nulla, continuerò a mantenere il punto. Forte della “caduta” dell’altro, l’uno si mette sul piedistallo (oggi tocca a lui, altre volte no) e si fa cercare per quella nota regola dell’uomo di strada che recita in amor vince chi fugge, la quale, per carità, è vera in certi termini, ma in una trattazione più matura andrebbe sostituita con in amor vince chi resta. Fuggire non è amore, se si corre via è segno che qualcosa non va, che è in corso un battibecco, che ci sono dei chiarimenti che devono essere affrontati attentamente dalle due parti. Che è inutile iniziare il giochino della pausa orgogliosa, giorni e giorni senza sentirsi e poi un “che fai” e la risposta “ho da fare” quasi netta, seguita dall’inutile e incongruente “ho atteso un tuo messaggio, potevi scrivere prima, ormai ho da fare”.

Prima peraltro tutto ciò era più dolce, quasi valeva la pena: sino ad una ventina di anni fa si aspettavano fiori, un invito a cena, delle scuse (pure non sentite ma) plateali e, perché no, la telefonata, un “drinn drinn” sonoro, ma nulla che potesse equipararsi a quel dilaniante senso di fine che si prova nell’attesa di un messaggio whatsapp. È utile? È intelligente? È maturo? Non se ne scappa, a qualunque età e a qualunque quoziente di intelligenza arriverà il momento in cui si aspetterà il messaggio dell’altro e non gli si scriverà manco morti, non importa quante lauree si siano prese. Subito dopo il bip bip, una volta giunto il fatidico “che fai?”, tanto atteso, sognato, reclamato, pregato a Dio, subito eccolo, inizia a salire il piedistallo, dieci, venti centimetri, fino a un metro, per ricreare quel pulpito da dove si predicherà “sei sparito” e si fingerà che le stesse dinamiche non fossero presenti da entrambe le parti e che i piedistalli non fossero due.

In una coppia che è in crisi questo può accadere talmente tante volte da non avere quasi più un senso. Non arrivano inviti a cena o fiori, come ai bei tempi, ma sempre, ineluttabilmente, quegli anaffettivi messaggini che servono a recuperare il possesso in un braccio di ferro che si vince solo a metà. Tale routinaria litigiosità seguita da spazientimento e giorni dolorosi retti da una inutile attesa non sono che il frutto della scarsa comunicazione e comprensione dei due partner che continuano a perpetrare penosi trabocchetti a se stessi, come se quotidianamente avessero bisogno di conferme per le proprie insicurezze. Se uno dei due, poi, decide di interrompere questa catena per riflessione matura (“amore, ci sei?”), i risultati si avranno fino al prossimo battibecco e tanta maturità finirà addirittura per guastare, se non si è affrontato, ancora una volta, il dolente argomento. Questi mezzucci, in realtà, non sono altro che un modo per comunicare tra i due; comunicare che (sono arrabbiati ma) senza l’altro non sanno proprio stare. Ma il primo passo io non lo faccio.

Romina Ciuffa, 5 maggio 2025

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LA SERA VENTI GOCCE DI SESSO

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LA SERA VENTI GOCCE DI SESSO PRIMA DI ANDARE A DORMIRE. Trascorsi molti anni di coppia o di matrimonio, si sente spesso ripetere: “Ormai la vedo come una sorella”, frase più tipicamente maschile che non femminile, sebbene anche la donna non abbia più pulsioni sessuali verso il proprio o la propria partner. Perché, dopo un certo periodo, è quasi “classico” che accada questo, che l’amore venga de-categorizzato a un livello che in questo caso è da considerarsi assai inferiore? In che senso “è come una sorella”, se il rapporto è iniziato già con un incesto? Esistono coppie che, decidendo di rimanere insieme costi quel che costi e perché no, quando l’amore permanga anche attivamente, si continuano a dedicare ad attività sessuali all’interno – non all’esterno – del proprio nucleo di elezione?

Il punto è che la coppia andrebbe educata, quasi costretta, a non dormire, a espletare attività sessuale anche solo mera, senza troppo coinvolgimento, almeno una volta a settimana, quasi come alcuni vanno a Messa la domenica o il giovedì cucinano gnocchi. Dev’essere questa un’attività che non manca mai, tale da non rendere il rapporto di coppia un rapporto fraterno: infatti, dopo che si è verificata quella de-classificazione, sarà molto difficile tornare indietro e riportare la coppia sessuale in auge. Ciò porterà ulteriori complicazioni, la prima delle quali il rischio di uno o molti tradimenti, solitamente da parte di uno solo dei due partner (tali equilibri sono quasi sempre tarati da un lato solo) che a loro volta condurranno a nuovi problemi, tanto da rendere il “rapporto fraterno” solo un lontano ricordo di ciò che era il problema della coppia: infatti, ora e in tale modo, la coppia si sfalda e, sfaldata, non è ricomponibile. Sarà molto difficile, a questo punto, evitare la rottura e, se essa non sopravviene, il dolore attivo o quello passivo dell’indifferenza.

La coppia non è un transformer, è molto difficile che si possa rompere in mille pezzi e ritrasformare in qualcosa di altrettanto valido. E l’amore fraterno è difficile da spezzare in mille pezzettini per ricomporlo in amore sessuale. Quando poi il sesso è trovato altrove, tanto vale lasciarsi. E perché non ci si lascia? Per amore forse?

Non per amore. L’amore è finito non appena è mancato il rispetto. Si resta insieme per abitudine, paura a rimanere soli, indisponibilità ad aprire la mente, indifferenza, noia, menefreghismo. Tutto, fuorché amore. Certo che l’amore è anche l’affetto che si prova dopo tanti anni in una coppia, ma non cadiamo nella trappola di definire quell’affetto ancora “amore”: quello è un amore diverso. Giustappunto, amore fraterno.

Per questo, per non precipitare negli abissi del nulla, del “ti ricordi quando ci siamo conosciuti?”, dell'”io vado a dormire”, dello zapping tra i canali tv e le storie parallele, è assolutamente necessario imporsi di fare del sesso. Non sarà forse speciale come un tempo, sarà una minestra riscaldata, ma consentirà alla coppia di percepirsi ancora come coppia attraverso la violazione dell’intimità dell’altro che sta divenendo sempre più castrante, e soprattutto un’intimità totalmente sua e non più condivisa. Ricorrere a una sessuologa è un’idea brillante. Si faccia l’amore a casa, il tradimento è per dilettanti. La sera, minimo 20 gocce di sesso prima di andare a dormire, almeno una volta a settimana o al dì; aggiungere fino a 300 al bisogno.

Romina Ciuffa, 4 maggio 2025

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TI AMO DA CANI E DA GATTI

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TI AMO DA CANI E DA GATTI. L’amore per essere amore è sempre patologico. Non si spiegherebbe altrimenti il perché necessitiamo di legarci ad una persona costi quel che costi quando già c’è un tipo d’amore che potrebbe saziarci: l’amor proprio. È ottimo provare quelle emozioni verso un’altra persona che ti portano a prenderti cura di lei e a volerlo fare per sempre, pure se poi, in effetti, non solo non si fa per sempre ma nemmeno per poco, perché l’amore si guasta. Domandiamoci: perché tutti gli amori si guastano? Perché la prima parte dell’amore è passione, avventatezza, accudimento, eventuale matrimonio, forse figli, e poi la seconda parte è trascorrere l’intera vita a lamentarsi di esso e a trovare modi di ricucirlo?

Non è allora meglio l’amore per le bestie? Per alcuni, ahimè sì. Quello, in effetti, non passa mai, e l’accudimento sì che non può cessare ad un certo punto della relazione poiché l’animale ne morirebbe e non solo metaforicamente. Non a caso, chi non ha un amore molto spesso sceglie di farsi un cane o un gatto nel mondo occidentale del quale facciamo parte, o altri animali altrove. C’è chi arriva a dedicarsi al cavallo, ma almeno in questo caso si unisce all’accudimento l’hobby. L’amore per i cani è ormai giunto a livelli esagerati con l’acquisto di cappottini e addirittura scarpe e con un attaccamento morboso che rasenta antigienici e inaccettabili comportamenti di tattilità che spesso non si hanno nemmeno con il proprio partner. Agli animali domestici si lascia fare tutto, interamente predominare sulla persona e sulla casa, escono fuori i peli ovunque e cattivi odori ma “l’innamorato” non prova fastidio, anzi, è con essi perfettamente integrato ad onta di ciò che gli altri pensano di lui, quando impone la presenza dell’animale e tutto ciò che egli è, vuole, decide, fa. Ciò non accade con il compagno di una vita del quale, ad un certo punto, si perdono le tracce tattili e ci si limita a una convivenza spesso anche litigiosa dove si vuole sempre avere ragione, diversamente che con il cane, che ha sempre ragione perché è tanto tenero.

Tutto questo è ai limiti del ridicolo, eppure è una “piaga” piuttosto rilevante: preferire l’animale al partner, dargli più attenzioni, baciarlo in bocca senza ricollegare tale azione alle malattie e del tutto sostituirlo al primo. La gattara è quella figura di una certa età (solitamente dai sessanta in su, ormai anche in giù) che raccoglie per strada decine di gatti e li sublima per avere da loro, da tanti di loro, da tantissimi di loro l’amore che si vuole e dare l’incontenibile amore che ha e che non sa dove riversare perché sola, perché problematica, perché gattara (esserlo, spesso, è capo e coda dello stesso problema di solitudine). Idem fa il “canaro” che gira con quattro, cinque, otto cani al guinzaglio e li chiama per nome uno per uno o li impone a cena, nel locale, nelle visite agli altri. Come si può, a queste persone, richiedere un livello di pulizia del corpo e della casa, nonché della loro automobile (sulla quale “non salire” è il consiglio)? Anche volendo, come potrebbero garantire i requisiti minimi di igiene? È davvero possibile sostituire l’amore per una persona con l’amore per un cane? Dare a quest’ultimo molto di più che alla persona che si ha accanto? O del tutto procedere a sublimazione come meccanismo di difesa di chi è ancora solo nella vita o è divenuto solo?

È davvero giusto non dare al proprio partner per tutta la vita o per un giorno solo lo stesso livello di accudimento di un cane, o farlo per sempre come si usa fare col cane finché non muore (e si entra in un vero e proprio lutto)? Come si può andare in giro pieni di peli bianchi in un’auto puzzolente e poi urlare contro la persona amata perché non si trova una maglietta senza darle nemmeno un bacio con la lingua (né incorrendo incorrere nel rischio malattie)? Chiudo qui, o mi innervosisco.

Romina Ciuffa, 3 maggio 2025

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ALTRO CHE “I DUE OPPOSTI SI ATTRAGGONO”

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ALTRO CHE “I DUE OPPOSTI SI ATTRAGGONO”. Un uccellino ed un pescetto possono anche innamorarsi, ma dove metteranno su casa? Tanto si dice che le differenze arricchiscono, nessuno fa i conti con la realtà delle cose: essere diversi non sempre è la cosa migliore. Che i due opposti si attraggano, questo è valido solo per le pile. Non può essere, invece, ritenuto valido per gli esseri umani. Se si attraggono, non è di certo perché sono opposti: si attraggono perché si piacciono, e può piacere tanto un opposto quanto qualcuno perfettamente uguale a sé e, nel mezzo, tantissime sfumature.

L’esperienza d’amore con una persona molto diversa può, all’inizio, essere foriera di grandi novità e conoscenze. A lungo andare, se i due partner non riescono a trovare una quadratura del cerchio, quella diversità potrebbe ucciderli e terminare un amore che è nato non per l’attrazione degli opposti. Ci piacciamo per mille motivi diversi e non ci innamoriamo dell’altro solo perché è diverso, sovvengono molti altri elementi a incanalare le nostre curiosità. Parlare due lingue diverse può essere, in principio, interessante, ma poi, con il tempo, l’incomprensione finirà per fagocitare i due parlanti che, con tanti giri di parole nella propria lingua, hanno provato a dire: non mi piace questa parte di te! I due opposti possono amarsi, ma devono almeno completarsi: c’è diversità e diversità.

Ci sono, infatti, delle diversità che possono incrociarsi: sono quelle, ad esempio, degli interessi. I due partner hanno interessi differenti e questo potrebbe certamente arricchirli, senonché è possibile che proprio questi li dividano. In ogni coppia è necessario tenere spazi privati e non condividere tutto, ma vi sono delle non condivisioni che letteralmente logorano il rapporto. Se l’uno ama il mare, l’altro la montagna, dove andremo in vacanza? Domanda semplice, si dirà, e invece presenta una abnorme complessità nella risposta. Se si risponde “montagna” resta insoddisfatto l’amante del mare, se si risponde “mare” resta insoddisfatto l’amante della montagna. Si dirà: faremo “un po’ per uno non fa male a nessuno”, ma ciò non porta da nessuna parte, anzi, sposta l’asticella del rapporto ancora più in alto. Fare un po’ per uno fa stare male entrambi. Nel caso della montagna, soffrirà chi vuole il mare ma soffrirà anche l’amante della montagna perché, se il trekking si fa insieme, l’altro non si troverà a proprio agio e questo umore dominerà la giornata; oppure l’altro non farà il trekking, così però vanificando il concetto di vacanze insieme (e, inoltre, cosa fare tutte quelle ore in montagna?). Vacanze al mare: l’uno insofferente in spiaggia mentre l’altro felice con la maschera, è questa una ipotesi plausibile? Una volta sì, ma tutte le altre? E quando le ferie sono contate?

Ebbene, la diversità tra marittimi e montanari riguarda intrinsecamente qualunque diversità: culturale, fisica, naturale, psicologica, linguistica, mentale e così via. Quando si dice che i due opposti si attraggono, in verità, si fa riferimento al sesso e alla passione iniziale ma non andiamo oltre, perché oltre si è destinati a soffrire, o l’uno, o l’altro, o tutti e due. Un uccello può innamorarsi del pesce, ma come farà quando quest’ultimo è immerso nell’acqua? Si potrà fidare? E il pesce potrà mai volare? Non penserà mai al tradimento? Si possono fare sacrifici per restare insieme e validare il proprio amore che, si presume, ci sia, ma questi sacrifici varranno la pena? Non si rischia di passare la vita con qualcuno con cui principalmente discutere, litigare, stare male? Mettersi con un pesce è davvero così importante per un uccello? Limitiamoci ai grandi risultati della passione e lasciamo andare l’eternità: pesce e uccello insieme non possono vivere. Che si amino come Romeo e Giulietta.

Romina Ciuffa, 2 maggio 2025

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NON DEVI MAI PERMETTERE DI MALTRATTARTI

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NON DEVI MAI PERMETTERE DI MALTRATTARTI. Certe volte si vive talmente male una relazione da accoglierla proprio così com’è, inermi, senza accorgersi che quel continuo dolore, quel costante forte malessere, quella paura, proviene tutta dall’amore. Bisogna prendere questa paura e farne forza, ma è una paura devastante che blocca l’intera sfera psichica e fisica del maltrattato. È ciò che accade a chi sposa un marito violento – la sua presenza, i suoi costanti abusi divengono pane quotidiano – ma non solo: il maltrattamento può avere la melliflua forma di parole e gesti, e questo lo rende meno riconoscibile; è in grado, però, di provocare gli stessi sintomi in chi lo subisce di una relazione fisicamente violenta, e pure di essere classificato come abuso. Le reazioni dei maltrattati, lividi a parte, sono le medesime. E allora, perché non si lascia il violento? Per la presenza di una forma grave di dipendenza, spesso di codipendenza o controdipendenza narcisistica, tale da poter essere già stata formata ai tempi dell’infanzia o dell’adolescenza da chi ha maturato un attaccamento insicuro, instabile, cosicché chi è stato già oggetto di maltrattamenti, crescendo, quelli torna a volere, inconsciamente. È quella la sua zona comfort.

Ma no, non puoi farti maltrattare. Devi alzare gli occhi, non appena ti dice “ma sei cretina?” o ti insulta perché non fai e dici quello che ha detto, devi avere il coraggio di gridare BASTA. Sarà difficile come l’astinenza da droga ma poi, superato il primo periodo, ci si sentirà immediatamente meglio, come fosse accaduto un miracolo. Non c’è nessuno che meriti un maltrattamento. Maltrattante può essere anche una donna, che infierirà meno con le mani ma lo farà con le parole e gli atteggiamenti. Ti trovi a soffrire ciecamente senza poterti appellare a nulla perché l’abuso è talmente sottile da rendere evanescente quella linea di confine tra la reazione o il silenzio, per il fatto di temere che si stia sbagliando (autoattribuzione) e non che l’altro stia, in effetti, maltrattando e, per ciò, finisci per non reagire. Diviene l’impero dei sensi di colpa.

Mi ci sono trovata, sic, e non è stato bello, non tanto per l’inviso maltrattamento, quanto perché ho sentito di non poterlo perdonare, non potevo chiudere un occhio sull’abuso che da tempo veniva perpetrato su di me, e così in me, ogni volta che mi maltrattava, era sempre più chiaro che non potevamo stare ancora insieme, e questo mi cagionava un ulteriore trauma. Sapevo che, se giustamente avessi reagito, il rapporto sarebbe terminato. Ma insisteva, senza tregua. Sapevo ciò che stava accadendo ed ogni giorno le davo una nuova possibilità, contando l’infinito giorno sul calendario di infiniti giorni, sperando che smettesse di abusare di me; ma ciò non accadeva e mi portava sempre più sotto nel dolore minuzioso, più caparbio, più instabile. Non riuscivo ad uscirne e più guardavo in faccia la realtà più mi chiudevo all’interno dell’odio che quella relazione emanava. Quanto avrei preferito le botte! Sono stata una debole, l’esempio classico della maltrattata, che per non perdere l’amore-ricordo si accontentava di ricordarlo solo. Amato e abusatore sono due persone distinte, non si può volere il primo e far cessare il secondo salvo che ciò non sia fatto in due, possibilmente con consapevolezza reciproca e in un setting protetto come quello di una psicoterapia.

Il maltrattamento è così, è come un marito violento. Non devi mai permettere a nessuno di essere il tuo marito violento. Questo è il raro caso in cui suggerisco un allontanamento, un si salvi chi può allontanamento che farà molto male perché il rapporto con un soggetto narcisista-maltrattante è un rapporto ideato proprio per riempire dei vuoti: nessuno, altrimenti, potrebbe proseguire una storia di abusi, ma lo fa, perché è così che si riesce a coprire delle falle, sia pure pagando un duro scotto. Suggerisco di attendere, lasciare per un periodo l’altro abusare e farsi maltrattare fino alla fine, perché sarà solo dopo aver toccato il fondo che si riuscirà a scomporre amato e abusato e infine si capirà che chi si lascia non è il primo ma il secondo: il primo non c’è più da tempo. Ricordiamoci di non credere nei ricordi, di non farceli bastare, dedichiamoci ad amare ciò che si ha nell’oggi vivo. 

Una volta, in risposta al suo gradasso maltrattamento, ho provato a dire: “Io voglio una storia d’amore, non voglio questo tra di noi, voglio due persone che si vogliono bene e si proteggono, non questo maltrattamento privo di fondamenta. Io voglio una storia d’amore”. Il risultato? Mi ha attaccato in faccia.

Romina Ciuffa, 30 aprile 2025

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UN BEL COCKTAIL DI PSICOFARMACI

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UN BEL COCKTAIL DI PSICOFARMACI. Si può soffrire senza soffrire? In parte è possibile, basta rivolgersi a un bravo psichiatra che potrà prescrivere dei rimedi psicofarmacologici contro il “sentire”. Ve ne sono molti, cito un paio a caso: aloperidolo ed olanzapina, entrambi antipsicotici che hanno il potere, se presi in minime dosi, di alleviare le ossessioni e portare le angosce a un livello più basso. Con questi farmaci, la situazione ansiogena calerà di molto ma di essi non bisognerà abusare e andranno monitorati dallo psichiatra (non dal medico di base) in modo da aggiustare la dose a seconda degli effetti diretti o collaterali. Sarebbe indicato anche non bere e non drogarsi, se lo si fa che lo si faccia in minima parte, sospendendo se possibile tutta questa attività che potrebbe comunque peggiorare lo stato psicologico del soffrente, facendolo soffrire di più. Il cocktail di alcol, droghe e psicofarmaci non è mai consigliato.

Gli psicofarmaci non sono la panacea. Nessuno di essi, anche in un paniere ben agghindato, può togliere quel sentire, quella percezione ferma e stanca del dolore. Non si può soffrire senza soffrire. Si può fare un bel cocktail di psicofarmaci e aspettare che passi, ma è come l’influenza: se non curata dura sette giorni, se curata dura una settimana.E poi c’è la regola: storia durata quattro anni, due anni per terminarla, storia durata dieci anni, cinque anni per terminarla, è sempre 2 a 1. Pertanto, se si soffre per amore (la fine di una storia? Un tradimento? Incomprensioni?), e se si soffre tanto per amore, bisogna cedere e decidere di continuare a sentire, anche senza psicofarmaci se Dio vuole. Prendere due settimane, due mesi, due anni per soffrire a più non posso cercando di non perdere gli amici e il lavoro e, da tutto questo dolore, riemergere diversi, sfiancati, logorati, ma uscirne. Tutti sapranno che tu stai soffrendo perché non potrai farne segreto e chiederai gli aiuti più improbabili, posto che la psicoterapia non riesce nel dolore d’amore.

Bisogna farsi forza e affrontare questo incubo ad occhi aperti, non si può nulla contro il dolore d’amore. Si può migliorare le situazioni ma il dolore resterà tale: cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia, un tradimento è un tradimento, essere lasciati è essere lasciati, lasciare è lasciare, incomprensione è incomprensione. La terapia di coppia può servire nel primo e nel quarto caso, ma nel tre e nel due – la fine di una storia – non c’è più coppia, resta solo un irruente stato d’animo angoscioso che non vuole fare i conti con altri se non con te. Sei già un turbine, un fiume in piena, i tuoi amici ti aiutano ma alcuni hanno preso ad evitarti, sei per un periodo classificato come “quello che sta male”, prima o poi finirà ma intanto perdi tutto. Pensa se non ci fossero quegli psicofarmaci.

Quello che voglio dire è che gli psicofarmaci possono aiutare snì, gli amici possono provare a farlo, ma il dolore d’amore è tutto dolore tuo e lo devi accogliere, accarezzarlo, tenerlo con te e non visualizzarlo più come una cosa nera buttata in mezzo allo stomaco, iniziare a vederla con dei fiorellini, un po’ di bel tempo, l’odore di erbetta. In mezzo alle gole del dolore passiamo tutti, non facciamocele franare addosso. Butta giù quegli psicofarmaci e inizia la tua giornata con l’angoscia, via via cambierà, nelle ore, nei giorni, nei mesi, negli anni, cambierà e poi finirà. Si può soffrire senza soffrire? La risposta è no.

Romina Ciuffa, 28 aprile 2025

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COME SI FA A LASCIARE?

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Come si fa a lasciare? Esiste un manuale? C’è chi ci riesce di più, chi di meno, i primi lo fanno qua e là senza porsi il problema, capendo immediatamente che una storia non va e altrettanto immediatamente decidendo di non volere perdere tempo; i secondi non lo fanno né qua, né là. Lasciare è, in effetti, un superpotere e invidiabili sono coloro che lo hanno, che addirittura ne abusano, mentre gli altri si contorcono in amori dolorosi, che li logorano di giorno in giorno. C’è quella specie di dipendenza che va a mettersi tra il dito e la verità: non è più amore, è solo l’antichità del ricordo di cose che non sono più. Siamo cresciuti, come persone e come società, ed ora che abbiamo anche l’istituto del divorzio (a questo link) non dobbiamo necessariamente credere che l’amore sia eterno, soprattutto quegli amori che non ne hanno i requisiti sin dall’inizio, formati sul dolore di storie precedenti o nella piacevolezza di non essere più soli, ma dove gli interessi non sono comuni, le modalità di comunicazione sono estremamente diverse, i punti di vista sono contrari. L’amore non è eterno. Anche l’eternità è un superpotere, e in una sfida tra supereroi si scontrano Eternità e Fine per dare vita ad un nuovo capitolo, quello del restare o quello dell’andare. Dolore è per alcuni un toccasana, una canna di bambù attorno alla quale esso si avvita come una pianta per crescere e invadere del tutto la persona dolente che, abituatasi a questa presenza, la vuole sempre nella sua vita, complice un attaccamento instabile. Chi è in grado di sradicare questa pianta dal suo vaso può invadere nuovi mondi e tornare ad essere se stesso, in quella pace che si sente solo dopo una guerra, il fumo dei corpi caduti, i cavalli abbattuti, Amore finito, Dolore finito. Chi non ne è in grado, è spacciato.

Nei casi di dipendenza Dolore va, con coraggio, identificato con Amore, che tiene le sue redini e fa e disfa a suo piacimento. Quando regna Dolore, Dipendenza è nella casa e tutto viene chiamato con il suo nome: fare colazione insieme è Dipendenza, guardare la tv insieme è Dipendenza, sentirsi è Dipendenza. Dipendenza invade e permea tutto con le sue estremità urticanti e non consente a chi la sperimenta (di solito accanto ad un co-dipendente) di eliminarla. Sono urla che si gridano in silenzio all’interno dei sogni, la notte, quando l’altro dorme e Dolore si presenta più grande, più forte. In quei momenti, predomina il superpotere del restare mentre si vede l’altro inerme dormire accanto a sé, si sente la piacevolezza del suo zittirsi, la forza della sua presenza, il ricordo dei momenti dell’amore. Accade tutto questo mentre dentro c’è un fegato che batte più del cuore, che sa di non potere ancora un giorno resistere alle intemperie, sa che il suo malore proviene da quel gigante inerme. Poi arriva il giorno, e con il sole Dolore è più stringente, lasciare è il superpotere che la notte dovrebbe aver portato, eppure ancora non c’è. Lasciare non è cosa da poco, presuppone un’assenza-mancanza che è assordante. Essere lasciati è meglio, così molti «si fanno lasciare» – li dicono codardi, sono solo il risultato di una enorme paura, una strategia intelligente che, alla fine, non è poi così sbagliata: purché colga il punto.

Ecco così che la storia d’amore si trasforma in una storia di dolore, che non salva nessuno dei due partner seppure uno tenda a predominare. Non appena si tira troppo la corda, si teme di cadere nell’oceano del «senza di lui», un timore-terrore che non dà scampo. L’amore che si prova l’uno per l’altro è ormai troppo ricoperto di erbacce e foglie secche, tanto da non poterlo più vedere, sentire. Scappa un «ti amo» non appena ci si sente fragili, e questo dire è alla base di tutto, è ciò che manda avanti tutte le altre cose, riempirsi la bocca di questo è sentirsi immensi, pieni, e non ci si vuole rinunciare. Il dolore di amare coinvolge integralmente il dipendente affettivo – che non sa né può lasciare – in un cataclisma distruttivo: ogni qualvolta lo sguardo dell’amato si posi su altro, una parola di troppo o una parola di meno, una qualunque azione od omissione, egli è stravolto, non è paziente, non capisce, non perdona, è lupo ed agnello e tenta di nascondere l’incontenibile angoscia con altre azioni quali scenate di gelosia, litigate, sfuriate. Spesso si vergogna del suo stesso problema (che riconosce) e lo camuffa, mentendo. Per questo, è in grandi linee considerato un «pazzo» (e tale si considera), la sua autostima crolla. Dal canto suo, il controdipendente non riconoscerà l’angoscia che l’altro prova, concentrato a placare l’ira che quello per ogni cosa apporterà nel rapporto, e si convincerà che il suo partner sia solo molto nervoso, geloso, possessivo, esagerato, traendo forza narcisistica da questo, ma non per forza adocchierà la sua dipendenza e riuscirà a darle questo nome. Ne sarà divorato e non potrà aiutare se stesso o l’altro se non con l’estrema misura del porre fine alla relazione, se lo sa fare.

Chi non ha provato mai dipendenza o sentito la sua presenza all’interno di una relazione? Chi, nei dissidi con il partner, non si è domandato «perché non lo lascio?» rispondendosi «giammai»? Chi non ha amato a tal punto da sentirsi vincolato, stretto, apprensivo – chi, in breve, non ha mai provato, anche per un solo istante, la paura dell’amore tossico o l’amore tossico stesso? E chi, riconoscendolo in tempo, ha saputo mettere sé al primo posto, l’altro altrove? Eppure la tossicità rende l’amore una cosa immensa, primordiale, meravigliosa, piena di contraddizioni ma pur sempre piena. Colui che ha sperimentato l’amore tossico sa che sarà proprio quello l’amore che ricorderà. Essere proprietari legittimi di un amore tossico conferisce dei diritti sul dolore e sulla sofferenza, ma anche sulle emozioni più elevate, l’avvicinamento ad un sentimento celeste che rende giustizia allo sforzo umano di combattere avverso le difficoltà, senza rinunciare all’altro ma impegnandosi perché sparisca la dipendenza, la tossicità che riduce chi la prova ad un rubinetto che sgocciola, e resti solo quell’invidiabile, grandissimo amore, ma spurio.

Nel mito l’amore nasce da una ferita inflitta da Zeus a certi esseri tondi che si univano solo con la Terra e che, spezzati in due, per necessità cominciarono ad accoppiarsi tra loro come due metà con l’aiuto del dio Amore per sentirsi nuovamente interi, dunque per bisogno. Così la dipendenza di quelle figure mitologiche si trasmette all’umanità. Il mal d’amore della dipendenza è assunzione costante di droga, in questo caso di sostanze psichiche e corporali: serotonina, dopamina, ossitocina. Si sfama anche di urla, gelosia, possesso. Servono maggiori quantitativi di dosi e si finisce in circoli viziosi che ripiegano sempre nelle stesse dinamiche, tornando al punto di partenza; si cerca l’immediato alleviamento della tensione attraverso la presenza del partner, il suo occhio fisso su di sé, non si riesce ad uscire dal rapporto anche nei casi più gravi, un tradimento è consentito perché porta a riaffermare la forza della coppia. La temibile caratteristica del rapporto è il «craving», la forte brama di possedere l’altro in modalità «binge», grandi abbuffate che fanno stare bene come quando, nella notte, si apre il frigo e si divora ciò che contiene. Però non si lascia.

Imparare a lasciare andare è uno dei compiti più complessi dell’essere umano, che trova negli altri più che in se stesso ragione di vita. Lasciare chi si è amato è davvero quel supereroe destinato non a tessere una tela, come Spiderman, bensì a sfasciarla per poter ricominciare in un luogo più pulito, più sano, quello dove Dolore non c’è. Bisogna farsi aiutare, e farlo, anche se c’è Amore. Il primo periodo sarà orrendo, come nell’astinenza da droga, ci si chiuderà in se stessi, si proveranno attacchi di panico, si prenderanno benzodiazepine, ci si torturerà ogni minuto; lo saranno anche il secondo e il terzo periodo, tutto sembrerà infinito e insormontabile. Ma, piano piano, questo lascerà il posto ad una nuova vita dove dirsi «io non amo più» e sentire, finalmente, la mancanza di Amore, quella che si voleva sentire, la mancanza di Dolore, un moto di Libertà che restituisce un sé rinato, sì sofferto, addolorato, straziato ma pronto a stare da solo. Per un po’ o per sempre.

Romina Ciuffa, 20 aprile 2025

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DIVORZIO: LE FANTA-NOZZE, UN GIOCO DA TAVOLO

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IL FANTA-NOZZE DELLA LEGGE SUL DIVORZIO. L’amore eterno esiste? Non se esiste il divorzio: esso legittima più amori e rende la vita più facile. L’amore finisce anche solo perché Darwin lo ha ritenuto il meccanismo di selezione della specie atto alla riproduzione. Ci piace dire che l’amore è eterno perché abbiamo paura della solitudine, di morire da soli, anche di vivere da soli. Fare i figli in realtà prescinde totalmente dall’unione, è possibile procreare anche senza conoscersi, come fanno gli animali o con l’aiuto della scienza. Tutto questo è, oggi, largamente ammesso nel mondo occidentale. Se, prima, al matrimonio poteva succedere solo il matrimonio, giacché il divorzio non era consentito, in Italia le istanze sociali si andarono rispecchiando nei loro rappresentanti attraverso l’asserzione dello stesso legislatore che, prendendo atto dei limiti della coniugalità, nel 1970 scrive la legge n. 898 (anche detta Fortuna-Baslini) contenente la disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, riconfermata dai risultati del referendum abrogativo del 1974 facendo crollare, così, uno dei più grandi capisaldi della concezione di famiglia italiana, oramai appannaggio della sola Chiesa: l’eternità delle nozze. Sono crollati con esso anche i sensi di colpa? I tempi moderni hanno accolto, in tutto il mondo, l’idea di un’unione non eterna, che possa essere sciolta proprio come la si è creata. Solamente due Paesi nel mondo occidentale ora non consentono di divorziare: Città del Vaticano, per le ragioni che non è necessario esporre, e le Filippine, nelle quali il percorso verso una legge divorzista è già iniziato.

In via generale, i matrimoni eterni sono durati fino alla legge sul divorzio o fino a che i valori non sono cambiati? Ovvero: è stata l’istituzione del divorzio a far sì che i valori cambiassero rafforzando la volatilità dell’unione coniugale, o le nuove generazioni hanno portato a galla la già presente necessità di poter sciogliere il vincolo coniugale che, in quanto esistente, è stata vista e regolamentata? È nato prima l’uovo o la gallina? A ben vedere, la legge divorzista è stata invocata da molti, ma non da tutti (tanto che nel referendum abrogativo la vittoria dei divorzisti avvenne per un pugno di voti in più). In quegli anni, le coppie (quelle dei nostri nonni e dei nostri genitori) «erano abituate a non lasciarsi», si legavano saldamente e trovavano giocoforza soluzioni ai conflitti che, immancabilmente, si verificano in una relazione. Dopo la formalizzazione del divorzio (in Italia come altrove) si sono viste sempre più coppie sfaldarsi: ma quanto si sono sforzati i partner di mantenersi solidi insieme, cercando soluzioni?

Quanto si è pensato, prima di sposarsi, all’opportunità di farlo? Con l’arrivo del divorzio lampo – istituito in Italia nel 2015 per consentire di divorziare decorsi un anno dalla separazione, nel caso giudiziale, o sei mesi, nel caso consensuale – è risultato ancora più semplice lasciarsi, senza dover affrontare lungaggini che, nell’ambito della coppia, risultavano ostiche (una fra tutte, il tentativo di riconciliazione). Ciò ha, probabilmente, incentivato un vero e proprio «mercato delle coppie» – sul quale ben si riflettono i gossip dei famosi – in cui esse, unendosi e sfaldandosi, turnano e ruotano in un gioco di matrimoni e divorzi fra diversi soggetti in successione, portando alla luce anche il tema del mantenimento e della cura dei figli, dinamiche che sembrano corrispondere ad un gioco da tavolo, un «fanta-nozze».

Il matrimonio è diventato, così, «un» contratto tra i molti che possono stipularsi nel corso della vita; il primo, il più importante perché più ingenuo, può durare per un periodo iniziale corrispondente alle età di crescita dei figli avuti in comune; i successivi avranno una durata mutevole e potranno essere vari, anche forieri di ulteriori figli. Si veda, allora, come si è tornati alla funzione economica del matrimonio: come secoli fa, anche adesso l’essere umano è potenzialmente monogamo fintanto che uno dei due partner si occupa della famiglia e l’altro è protetto durante la gravidanza, lo svezzamento e la prima fase dell’educazione – ciò vale, mutatis mutandis, anche per le unioni omosessuali con i mezzi che hanno a disposizione per la genitorialità. Prevedendo la possibilità di interrompere il patto formale, si è scelto di dare uno stop formale all’amore formale: la scala che si è percorsa insieme porta, in questi casi, a un piano terra dove è possibile ricominciare, a una nuova era per entrambi.

Sembrerebbe di poter rispondere alla quaestio qui mossa – chi è nato prima – che l’istituto del divorzio ha costituito la richiesta di una società che già non accettava si disponesse solo in un senso del proprio diritto (liberi di unirsi sì, e allora perché non di separarsi?) perché sentiva, nelle proprie maglie, l’esigenza che la firma non fosse messa col sangue; nel contempo, proprio la possibilità di separarsi ha fatto non solo separare molti, ma anche sposare: infatti, sapendo di non dover più avere un tempo infinito matrimoniale, gli stessi matrimoni sono stati incentivati e così, come un gatto che si mangia la coda, la legge sul divorzio ha creato più matrimoni che hanno creato più divorzi. Postilla: parlare di valori qui non equivale a dire che matrimonio uguale valore positivo, divorzio uguale valore negativo. Un sistema valoriale completo include tanto l’unione quanto la fine dell’unione: con l’ammissione del divorzio si ottiene, pertanto, un sistema valoriale più ricco, che riflette le esigenze della società e, dunque, includendo il divorzio, lo ammette tra quelle.

Se, nonostante la possibilità di divorziare, la coppia non si sfalda, rimane unita – vuoi per assenza di gravi dissidi interni, vuoi per l’impegno di entrambi nel risolverli, vuoi per la paura di rimanere soli – ed arriva, così, alla vecchiaia, si sperimenterà una forza spesso più perentoria e incisiva di quell’amore romantico che si credeva abbandonato tanti anni prima, destinato a tornare proprio in veste di amor maturo e, a maggior ragione, amore anziano, libero dalle incertezze e dagli sgomenti giovanili. A un’età più avanzata, l’amore può ritrovarsi o riprovarsi anche per un’altra persona, mettendo in discussione la propria vita e avendo un nuovo approccio col sesso che, in effetti, non viene meno. Si invidiano, forse, i nonni che hanno saputo trascorrere l’intera vita insieme, spesso dandosi ad un partner unico: la loro pazienza, il senso della continuità, la consapevolezza, le certezze, la compagnia e l’essenza dell’altro, tutte virtù che accompagnano l’amore camaleontico, che muta forma e colore nel corso degli anni per adattarsi ai cambiamenti dei due partner, della famiglia, della vita, delle età. Non è poi così male stare insieme per sempre, ma non lo è nemmeno stare da soli.

Romina Ciuffa, 19 aprile 2025

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