BUTTARE GLI OGGETTI A CUI CI SI AGGRAPPA

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BUTTARE GLI OGGETTI A CUI CI SI AGGRAPPA. Le cose si amano. Quale errore! Spesso contengono la proiezione di qualcuno, di un momento, sono praticamente album di ricordi, gli si attribuisce un’anima un po’ come ai peluche, che si fatica a gettare anche se vecchio e non più utilizzato perché “ti guarda con quegli occhioni”. Ci sono anche altre cose che guardano con quegli occhioni, che non si fanno mai gettare, alle quali attribuiamo un significato troppo pressante, quasi pesante, tanto da rendere quelle cose il significato stesso, come dei transformer che divengono ciò che essi proiettano all’esterno, una sorta di trappola inconscia che rende l’uomo solo apparentemente più stabile in quanto può “reggersi” aggrappandosi a qualcosa di concreto e togliendosi da quel mondo tutta psiche nel quale, altrimenti, sarebbe immesso.

Ma a volte esagera. Oggettini, cosette, minuzie, esempio lampante le calamite sul frigo che portano i momenti del viaggio come fossero il viaggio stesso, le collezioni, i bigliettini. Le cose ci tengono attaccati alla realtà, ma non devono essere un ostacolo al ripopolamento del proprio inconscio con nuovi ricordi, nuovi momenti, nuove persone, nuove emozioni. Le cose, in effetti, ci attaccano al passato e anche il passato più bello diviene doloroso nell’accezione di “nostalgico”, si guarda indietro crepuscolari, si fa fatica a non voltarsi per procedere spediti sulla propria strada, sul motto di “chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quello che perde ma non sa quello che trova”. Gli oggettini ci attirano a loro come dei piccoli demonietti che ci vogliono solo per sé, invidiosi del resto, gelosi, insidiosi: io sono il tuo passato, rappresento un momento che faccio ripetere in eterno, non puoi andare via, rappresento una persona che grazie a me esiste ancora, rappresento la tua giovinezza, rappresento la tua infanzia, rappresento te stesso.

Buttare. Prendere e buttare tutto ciò che è di troppo. I ricordi restano, le cose impolverate non servono. Minimizzare e minimalizzare la propria vita, la propria casa, rendersi un contenitore di emozioni e prescindere dall’appoggio concreto a un passato che estende comunque i suoi raggi ad oggi e ci trasporta al domani. Buttare consente di arrivarci più puliti, di compiere un percorso psicologico sul nostro divenire, ci rende liberi. Eliminare le cose tanto belle quanto brutte, soprattutto queste ultime, quelle che riportano a dolori dai quali non vogliamo staccarci. Fare piazza pulita dà un senso di liberazione e consente di introdursi in nuovi stati dell’animo presente, fa sì che con intelligenza si possa creare giorno per giorno la propria vita non rinunciando alle emozioni che, in ogni caso restano; insegna a ricordare tutto senza dover toccare con mano ciò che già non c’è più, riporta alla realtà dell’oggi, permette di rivedere certe persone nella vita vera e smettere di appoggiarsi all’oggettino che arriva dal passato, rende tutto nuovamente presente, garantisce continuità all’essere.

Magari non tutto, ma buttare quasi tutto, dare una bella ripulita alla casa, comprare sacchi condominiali, far sì che si possa passare una mano sulla mensola senza dover spostare decine di cosette impolverate. Tutti questi demonietti, se scalzati dalla libreria e gettati, possono continuare a vivere dentro di noi con i loro significanti, che invece non sono gettati bensì rafforzati dal sentimento e della decisionalità di ricanalizzarli dentro di noi, dove invece hanno tutto il diritto di essere. Non moriranno perché tolti dal salotto o dalla cucina, renderanno però la casa più pulita e avranno finalmente la possibilità di divenire angioletti volanti che tornano in maniera sana. Qualche lettera la si può tenere, ma gettiamo pure la schiuma da barba dell’ex o la scatoletta del viaggio dei diciott’anni. Manteniamo per noi la forza del ricordo e l’intenzione di ricordare tutto.

Romina Ciuffa, 26 maggio 2025

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LA TERAPIA NON DEVE FAR MALE ALLA COPPIA

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LA TERAPIA NON DEVE FAR MALE ALLA COPPIA. Quando un rapporto si spezza, è un rapporto spezzato. Non è facile riportarlo in auge, di certo non come prima perché il prima non esiste più e spesso, nonostante sia stato forse stupendo, è ciò che ha causato la rottura. Sarà difficile non voltarsi più indietro per guardare gli errori, pesarli e farli pesare, perché a tutti gli effetti essi sono un peso. Consigliano la terapia di coppia, ma essa è in molti casi ancor più deleteria perché diviene un luogo di profondi dissidi che lo psicologo solitamente, pur volendo, tende a complicare. Ci si trova a dover affrontare logoranti ore “terapeutiche” di litigi forti. Presto atto che quello è il luogo “protetto” dove mostrarsi per far emergere le proprie dinamiche e complicazioni, potrebbe ben facilmente divenire l’incubatrice di un’angoscia, qualcosa di traumatizzante per i partner o per uno solo dei due, l’appuntamento con l’ennesima discussione. I partner non vogliono altro che tornare insieme, e amarsi, semplicemente amarsi.

Inoltre, una volta usciti dalla terapia, se lo psicologo non è stato in grado di smussare, alla fine dell’ora, gli angoli più dolorosi di entrambi i pazienti e riportarli a una visione comune, delicata, più dolce e costruttiva, si potrebbe creare una tensione che i due faticheranno a sciogliere. Non si può scambiare una seduta, che dovrebbe essere la panacea del bene per i partner che in essa sperano e mettono tutti loro stessi, per un terreno minato, un luogo di tortura, il Dissapore per eccellenza, quello che essi scalzano e per il quale, precipuamente, sono stati indotti ad andare in terapia. Quel luogo protetto non può divenire la Striscia di Gaza della coppia, località dove avvengono bombardamenti continui e dove la pace non si riesce a trovare.

Non necessariamente la responsabilità è dello psicoterapeuta, ma se è vero che in quell’ora le parti da considerare sono tre, allora almeno per un terzo – o un mezzo, se si considera la coppia come uno – lo psicoterapeuta diviene il soggetto che deve sì studiare le dinamiche tra i due ma anche mediare, se ciò è possibile, o comunque far sì che essi escano dalla terapia senza sentirsi cani bastonati, allora in tal caso è da valutare un cambio terapeuta finché non si trovi colui che faccia uscire dallo studio con un senso di leggerezza, non di pesantezza.

La psicoterapia, anche individuale, deve essere comunque un luogo dove la tensione scema. Vero è che è necessario scardinare anche i miti più antichi, andare alla ricerca dell’ago nel pagliaio, dolersi coraggiosamente, ma, sebbene intinti in grandi dosi di maggior consapevolezza e dovendo allontanarsi dalla seduta con dei dati da immagazzinare, delle emozioni da comprendere, un inconscio da affrontare perché possa esplicarsi nella sua totalità, i pazienti devono poter essere lucidi nei giorni seguenti e non temere quell’ora protetta. Altrimenti non ne gioverà né la terapia, né il singolo, e le paure aumenteranno. Occhio a chi non ha il cuore di cacciarvi con dolcezza.

Romina Ciuffa, 25 maggio 2025

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IL DIPENDENTE AFFETTIVO SIAMO NOI

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Più di quanto ci si possa accorgere le storie d’amore sono coniate dalla dipendenza, spesso malata, dall’altro. È malata quando si sta male, unica e semplice definizione. Il dipendente affettivo può giungere da una storia di vita nella quale gli sia stato negato qualcosa, o caratterizzata da un abbandono, da un forte lutto, da momenti metaforicamente o concretamente dolorosi verificatisi nei rapporti parentali, da un erroneo passaggio del bambino dalla fase di fusione a quella dell’individuazione attraverso un oggetto transizionale. Il dipendente percepisce l’amore come un obbligo che lo costringe ad essere sempre innamorato di diverse persone o della stessa, con connotati ossessivi; senza un oggetto d’amore qualunque si sente perso, privo di fondamenta, di identità. Prova sentimenti di colpa quando mette avanti a quelli dell’altro i propri bisogni, e tende a riparare con azioni a volte patetiche, spesso manipolative; si avvicina all’essere masochista perché soffrire è il suo modo per star bene; solitamente è un profondo egoista che riduce il partner ad oggetto attivo di conferma della propria esistenza, il «ti vedo» che era mancato.

Freddo manipolatore, sa gestire l’altro in maniera superba mentre lo consuma. Spesso l’amato non si accorge della manipolazione operata su di lui, altre volte anch’egli è codipendente o controdipendente (consapevolmente o meno) ed alimenta il suo estro di potere attraverso la vittima dipendente. Quando entrambi i soggetti abbiano connotati di dipendenza affettiva, la manipolazione sarà reciproca e la coppia si torturerà con continue, reciproche, richieste d’affetto, le più comuni delle quali sono le scenate di gelosia.

Il partner perfetto per il dipendente affettivo è il narcisista patologico o l’individuo sociopatico, figure che si incastrano bene con il desiderio di dare in continuazione, di corteggiare per essere visti, di amare anche senza amore pur di sentirsi vivi, di colmare il vuoto, note che il dipendente affettivo ha e di cui il narcisista può fare un egregio uso per alimentare il proprio ego. Al termine di una relazione, il soggetto dipendente soffre smisuratamente ma, a differenza degli altri che altrettanto soffrono, egli ha un obiettivo immediato: una volta lasciato solo in balia di se stesso, sentendosi privo di valore intrinseco, si mette subito alla ricerca di un nuovo partner per sostituire il precedente e colmare subito il vuoto ricreato, qualcuno che gli dica «aspettavo proprio te» dopo esser stato incantato con destrezza e disperazione.

Lo trova e con esso ritrova il senso di sé, dimenticando le pene subite per l’ex che tanto smisurate erano apparse: egli, infatti, non va alla ricerca di un partner, bensì di un «colmavuoto». Il suo tatuaggio riporta: chiodo schiaccia chiodo. Ciò è manifesto anche nelle relazioni sociali, ove tende ad essere particolarmente generoso per farsi accettare, spesso copiando gli altri e assecondandoli in maniera camaleontica per essere apprezzato, e svalutando la propria personalità che, da sola, non è affatto interessante – egli crede.

Chi non ha provato mai dipendenza o sentito la sua presenza all’interno di una relazione? Chi, nei dissidi con il partner, non si è domandato «perché non lo lascio?» rispondendosi «giammai»? Chi non ha amato a tal punto da sentirsi vincolato, stretto, apprensivo – chi, in breve, non ha mai provato, anche per un solo istante, la paura dell’amore tossico o l’amore tossico stesso? E chi, riconoscendolo in tempo, ha saputo mettere sé al primo posto, l’altro altrove? Eppure la tossicità rende l’amore una cosa immensa, primordiale, meravigliosa, piena di contraddizioni ma pur sempre piena. Colui che ha sperimentato l’amore tossico sa che sarà proprio quello l’amore che ricorderà. Essere proprietari legittimi di un amore tossico conferisce dei diritti sul dolore e sulla sofferenza, ma anche sulle emozioni più elevate, l’avvicinamento ad un sentimento celeste che rende giustizia allo sforzo umano di combattere avverso le difficoltà, senza rinunciare all’altro ma impegnandosi perché sparisca la dipendenza, la tossicità che riduce chi la prova ad un rubinetto che sgocciola, e resti solo quell’invidiabile, grandissimo amore, ma spurio.

Romina Ciuffa, 20 maggio 2025

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L’AMORE PER GLI ATTACCHI DI PANICO

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L’AMORE PER GLI ATTACCHI DI PANICO. Ci sono persone che si svegliano con gli attacchi di panico tutte le mattine o quasi. Imputano questa sensazione di sospensione, di angoscia, di dolore misto ad ansia, come prima attribuzione, alla (qualunque) storia d’amore che stanno vivendo. Si sta male perché la storia non funziona, perché non soddisfa, perché si sa che si sta sbagliando nel portarla avanti – ecco perché gli attacchi di panico, queste botte d’ansia, l’angoscia perenne. In molti casi, in effetti, l’amore non aiuta: c’è quella componente di sicurezza che viene a mancare e, mancando quella, viene meno tutto il castello di carte costruito sulla propria vita. Si crede che, se l’altra persona si comportasse diversamente o magicamente cambiasse, sparirebbe tutto e il mostro verrebbe distrutto in mille pezzettini.

Poi ci sono quei momenti in cui con l’altro va tutto a meraviglia, la sicurezza dell’amore è raggiunta ed accolta, si pensa “finalmente la persona giusta”, ci si adagia sulla chimera della storia conseguita dopo anni di passaggi dolorosi, un trofeo da mettere nella vetrina, un traguardo raggiunto che dissiperà tutti i problemi che si sono avuti sino ad ora, perché l’amore può tutto. Ma no, l’amore non può tutto, esso non può niente se non essere amore. Nella maggior parte dei casi, infatti, anche quando l’amore è attaccamento sicuro e certezza, comunque ci si sveglia la mattina con gli attacchi di panico e si sentono tutto il giorno le morse angosciose del “non so”, quella sensazione che non fa né vincitori né vinti, che rende la vita invivibile, che fa domandare “perché proprio a me, perché proprio io, mentre gli altri, tutti, sono sereni?”, che fa sentire diversi.

Non è l’amore a far star male, nemmeno nel soggetto più dipendente. L’amore è solo lo specchietto per le allodole, quello cui aggrapparsi quando ci si sente persi e dire che a causa sua si vive attanagliati è la cosa più semplice. È estremamente comodo che la storia d’amore vada male o non funzioni: in questo modo si potrà evitare di fronteggiare il vero problema, il reale sé, i dragoni di fuoco che poco hanno a che vedere con l’amore ma sanno di abbandono, dipendenza, attaccamento, e spesso sono – lo dico con noia – legati al rapporto con i genitori e all’ambiente di crescita, altre volte riguardano tematiche completamente distanti quali la storia lavorativa, l’insoddisfazione nella vita, le frustrazioni, le aspettative deluse, tutte cose che nulla hanno a che fare con l ‘amore.

Ci sono persone, come me, che si svegliano tutte le mattine o quasi con gli attacchi di panico e che devono continuamente fingere con gli altri di stare bene a) per non annoiare, b) per non mettersi in una posizione inferiore, c) per essere visti come affidabili e forti. Quelle stesse mattine, anziché afferrare il telefono e scrivere un messaggio all’altro cui si addebitano le angosce convinti di poter colmare quel vuoto, è d’uopo alzarsi, respirare con forza, camminare fino al primo caffè, mettersi seduti e fare una lista reale delle problematiche che tormentano, escludendo l’amore. Questa lista la si metta in tasca, si porti una penna, durante la giornata si pensi a ciascuno dei punti segnati e, una volta passati al vaglio, li si depenni l’uno dopo l’altro. La verità è che dei nostri attacchi di panico siamo profondamente innamorati e, senza di loro, non sappiamo cosa fare, come in tutte le storie d’amore, non li vuoi lasciare andare, essi ci guidano nelle nostre scelte, giustificano i nostri no, danno un valore alle nostre frustrazioni. Il dolore è proprio come l’amore, affascina e provoca dipendenza. L’amore è solo una grandissima scusa per non soffrire delle cose giuste.

Romina Ciuffa, 19 maggio 2025

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TI AMO – NON HO CAPITO, CHE HAI DETTO?

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 Ho scritto, nel mio libro AMORE MIO TU SOFFRI, nel capitolo riguardante l’amore incompreso, una parte riguardante la comunicazione tra amanti.

“La comunicazione è alla base dell’amore anche fosse non comunicazione, lo precisa anche il primo assioma di Palo Alto: «Non si può non comunicare». Ognuno, pur fosse da solo, comunica. Esprime in continuazione qualcosa. Il messaggio spesso deve essere spiegato. «Ogni comunicazione veicola un contenuto e una relazione», secondo assioma: quando si comunica, si esprime anche la relazione che si ha tra i comunicanti, che è importante per intendere il messaggio. Ciò che in una relazione sentimentale è, a volte, quasi più importante dell’amore, è proprio la punteggiatura della comunicazione che fa sì che non vi siano equivoci, ed è necessario parlare delle modalità di comunicare nei casi in cui i partner si ritrovino a non comprendersi: molte relazioni si sfaldano proprio a causa dell’assenza di questa metacomunicazione.”

Spesso infatti, due amanti che si amano finiscono per odiarsi solo per ragioni comunicative. Accade solitamente a chi è diverso, disomogeneo, che sfida la regola dell’amore del chi se somìa se pia e si immette in una relazione nella quale dalla mattina alla sera bisogna fare lo sforzo di comprendere. Ho distinto tre errori nella comunicazione che possono indurre litigate e, infine, anche la fine della relazione.

Ho immaginato tre tipi di errori. Questi:

“Comunicare è una capacità naturale dell’essere umano, eppure la più complessa. Include tre potenziali errori: un comunicatore, un ascoltatore ed un oggetto comunicato. Il primo, comunicando, potrebbe punteggiare in maniera erronea o non far trasparire il tipo di personalità delle sue che sta parlando: se un pessimista dice «finirà», è una cosa, se l’ottimista dice «finirà», è un’altra, essi intendono esattamente la cosa opposta e, se il parlante non è contestualizzato e non esprime apertamente il proprio atteggiamento, l’altro potrebbe fraintendere e capire cose diverse, dando luogo ad una comunicazione erronea e produttiva di effetti non voluti. 

Il secondo errore, quello del contenuto: spesso il messaggio si deposita sull’oggetto comunicato e non riesce a trasferirsi sull’ascoltatore – ad esso giungono le parole ma non tutte, ad esempio, o una lettera mai arrivata – e questo è un classico error in transmittendo. 

Infine, l’errore dell’ascoltatore: filtrare con la propria interpretazione il messaggio (error in accipiendo), dopo che esso è già stato passato al vaglio dell’interpretazione del trasmittente (error in comunicando) e toccata anche l’oggettività dell’invio. 

In un rapporto d’amore questi tipi di errori si moltiplicano a dismisura, coinvolgendo in toto il lato emotivo: è utile, pertanto – sempre, soprattutto dove la comunicazione sia particolarmente ardua per le due persone e personalità che si sono scelte, quando molto diverse – la regolamentazione dei filtri della comunicazione a quella coppia che, caratterizzata da difficoltà a comprendersi, ha paura di parlare, ha paura dell’altro, ha paura di tutto da un cuore dubitoso, non riesce a dire «domani», teme anche la parola «oggi» e usa spesso la parola «passato» per indicare un presentimento per il futuro, come se esso possa lasciare presagire ciò che verrà senza fare leva sul fatto che è possibile ritrovarsi attraverso la comunicazione totalitaria, che sia di linguaggio, d’espressione, paraverbale, verbale ma anche di tatto e contatto, avvicinamento, odore, sapore, ossia d’amore che osa.

L’error in comunicando non sempre è risolvibile, ma lo è molto di più dell’error in amando e, perciò, è necessario comprendere di quale dei due si tratti, quale osteggi la relazione, per poter passare all’azione e dire: sì, ti amo, purché l’altro non risponda: “Non ho capito, che hai detto?”.

Romina Ciuffa, 18 maggio 2025

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PAPA LEONE XIV COME TUTTI I MIEI EX

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Amore patologico dici. Un Papa è appena morto, un altro si è appena insediato e, tra i suoi primi atti dichiarativi, sostiene immediatamente che la famiglia è fondata sull’unione stabile tra uomo e donna. Leone XIV si schiera subito a sfavore di tutte le altre famiglie che sono oggettivamente tante e vive nella società, in questo modo escludendole senza guardarsi indietro (Francesco). Il concetto di famiglia è andato variando ed ora, a prescindere dall’appoggio agli omosessuali e agli altri tipi di gender, è assolutamente mutato, pertanto descriverlo come unione – peraltro stabile – tra un uomo e una donna rende gli innamorati di Papa Leone XIV molto pochi, considerando anche come sia venuta meno la stabilità della stessa famiglia, instabile per ufficialità dal 1970, anno in cui è stato garantito per via di legge il diritto a divorziare. Pertanto fuoriescono da questa rinnovata Chiesa moltissimi, probabilmente in numero assai maggiore di coloro che restano, compresi i migranti che Prevost ha indicato sentimentalmente tra gli ultimi, ossia i primi da difendere ed amare, poi però richiedendo assicurare agli immigranti la possibilità di rimanere nelle loro terre (mentre Bergoglio aveva parlato di diritto di migrare), rendendo così molto chiara la sua politica contro ogni vociferare che si era fatto in questi giorni rispetto ad un’apertura dell’americano sul mondo.

Si schiera così subito contro il morto Francesco che aveva pronunciato un grande chi sono io per giudicare? in riferimento alle persone omosessuali e che, con il suo operato, aveva fatto sì che il suo non giudizio per umiltà fosse esteso a tutto e tutti. È chiaro come Prevost non intenda, come aveva fatto il suo predecessore, amare il prossimo suo “come se stesso”, restituendo il più classico degli amori patologici di sempre: quello della Chiesa verso i credenti e, soprattutto, verso l’essere umano in qualunque versione, ivi inclusa quella di ultimi che lo stesso Leone XIV ha, tra le sue prime dichiarazioni, sostenuto avrebbe protetto riferendosi alla ritrovata centralità del Cristo e dell’Occidente. Un amore estremamente patologico che si dirama in un senso unico, quello dei credenti verso il Papa e la Chiesa e non il reciproco, in una dinamica di amore egoistico e narcisista.

Questo è l’amore del Papa – più di quello vivo, meno di quello morto, verso l’altro -, qualcosa che è solo prendere senza dare se non dichiarazioni scritte da un ufficio stampa, immesse nel filo conduttore della regia ecclesiastica che oggi torna ad essere più nera che rossa, un vero e proprio far credere (i creduloni) che fa sì che ad esso guardino tutti gli esclusi (moltissimi) nel mondo come ad un vecchio potere spirituale che oggi non ha più nessuna ragione di essere, soprattutto quando non ama il suo prossimo e distingue tra figli e figliastri. Papa, mi ami o no? È il caso di dire: perché, allora, mi ci fai credere? In Dio, e in questo amore. In questo modo mostri solo di non essere in grado di amare, come tutti i miei ex.

Romina Ciuffa, 17 maggio 2025

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BUONGIORNO AMOR PROPRIO!

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Una delle cose di cui meno ci rendiamo conto ed eppure facciamo tutte le sante mattine è guardarci allo specchio. È un gesto consueto, ordinario, aprire gli occhi, lavarsi i denti, trovarsi dinanzi noi stessi tutti i giorni al risveglio. Non ci rendiamo mai conto di chi siamo, che siamo noi, che abbiamo una consistenza, che pensiamo, che ci stiamo guardando. Ci immettiamo in una giornata qualunque, piena di problemi, e per il sol fatto di non esserci guardati attentamente probabilmente attiriamo problemi ancora più numerosi o gravi. Accade questo perché non prendiamo consapevolezza di noi stessi tutte le volte che dovremmo. A volte ci si guarda poco perché si vuole evitare di vedere quelle rughe, quelle cose che appaiono con l’età ma che non si vuole vedere; a volte semplicemente perché si ha fretta. Ebbene, quelle stesse rughe dobbiamo imparare ad apprezzare, quello stesso volto corrucciato, a volte triste, a volte arrabbiato, quello sereno e gioioso per nulla. Tutto va apprezzato, la mattina allo specchio bisogna render conto per trovare il coraggio di gridare: “Buongiorno amor proprio!”. 

Durante la giornata troviamo mille riflessi di noi, specchi nei negozi, in palestra, vetri molto puliti, finestrini delle automobili, ovunque è riflesso il nostro aspetto e ovunque proiettiamo la nostra consistenza con una forza innata, quasi temibile, ma anche di questa non ci accorgiamo. Siamo troppo presi a vivere la vita di qualcun altro, di coloro che sì ci rendiamo conto di vedere, con i quali abbiamo a che fare tutti i giorni o una volta sola, ci succhiano vivi. Dedichiamo a costoro lo spazio che è per noi stessi, quello specchietto retrovisore nel quale dovremmo guardarci per impugnare bene gli occhiali da sole e sentirsi grandi attori di cinema francese. Trascorriamo le giornate senza badare ai nostri riflessi, sia pur riflettendo, eppure dovremmo gridare, ancora, “Buon pomeriggio, amor proprio!”.

Infine giunge la sera, che sollievo diciamo, come se la nostra vita non fosse utile, non dovesse che essere vissuta la sera per cenare ed andare a dormire, o per uscire a volte, dimenticando interamente l’importanza della giornata, comunque essa sia trascorsa, che fa pienamente parte della nostra vita come tutti quegli specchi che abbiamo intercettato e dove la nostra immagine si è posata per un attimo, mentre noi badavamo ad altro. Arriva la sera e ci ritroviamo di fronte, forse, allo stesso specchio della mattina o ad un altro simile di un altro bagno, sempre di fronte alla nostra immagine più stanca della mattina, forse più fiera perché, poco prima di andare a dormire, ci si sente sempre più forti per l’ottundimento che si aspetta e che sembra semplice da affrontare ma che, in realtà, è ancora più difficile di tutta la giornata trascorsa perché ad essa dovrà rendere conto attraverso le posizioni dell’inconscio. Eppure dovremmo urlare, ai quattro venti: “Buonanotte amor proprio!”.

Specchio specchio delle mie brame, nel mio reame io ti guardo, mi vedo, sono la forza in cui io credo, tu rifletti, tu rifletti, mentre vivo tu rifletti il mio volto disarmato: io mi guardo e sono amato!

Romina Ciuffa, 14 maggio 2025

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TI SI CHIEDE SOLO DI VENIRE DENTRO

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TI SI CHIEDE SOLO DI VENIRE DENTRO. Mi dicono tutti: perché scrivi sempre di brutti amori e non di quelli belli? Innanzitutto, perché il mio libro parla di amore patologico, dunque si sofferma sul tradimento, le ossessioni, la dipendenza ed ogni altro tipo di piaga che attanaglia i nostri amori per colpa solamente nostra. In secondo luogo perché l’amore bello non esiste, o meglio, certo che esiste ma è sempre e comunque patologico. Infatti è patologico lo stesso concetto di amore. Amare è spontaneo, un’emozione infallibile, un dolce tormento, la delizia dei sensi – ma per tutti, nessuno escluso, diviene l’unica cosa per cui vivere o sulla quale vivere. Si vive sull’amore come se stessimo sempre con i piedi su un tappetino fatto della persona che crediamo di amare per sentirci al sicuro – lui starà facendo la stessa cosa. La coppia nasce semplicemente dal fatto di doversi unire per riprodursi, dunque una classicissima teoria darwiniana di riproduzione all’interno della specie che fa sì che, perché ciò avvenga, si trovi prima un piacere perché per dovere non lo farebbe nessuno.

Se non esistesse il piacere dell’orgasmo o quello dello stare insieme e sentirsi sicuri con un partner, nessuno si sacrificherebbe per la procreazione,la razza umana si sarebbe già estinta perché non c’è chi non fa niente per niente; se la riproduzione avvenisse con una procedura più complessa, poco ortodossa, anche faticosa, una qualunque procedura manuale, non tutti vorrebbero i figli o sarebbero disposti a darne al mondo perché l’essere umano si salvi dall’estinzione. Nessuno è tanto magnanimo. L’istinto materno esiste perché la donna, rimanendo incinta, gode, ma nemmeno sempre (non è comunque requisito essenziale, tutt’altro), esiste perché sa che ad un certo punto, in un momento qualsiasi della sua vita, intorno ai quaranta o cinquanta, non potrà più avere figli ed eccolo, l’istinto materno. L’istinto paterno, invece, non esiste nemmeno. Il padre è tale perché fa sesso e, anche lui, gode, ma non deve fare altro che venire, non gli si chiede nient’altro. Venire per l’uomo corrisponde non solo al piacere ma anche all’unico momento in cui è padre. Tutti gli altri momenti sono concessioni, responsabilizzazione: lui si concede a fare il padre ed anche ad aiutare la moglie durante la gravidanza, alcuni anche dopo, e costituire figura paterna per il figlio. Ma si badi bene: l’unica cosa che a lui è davvero richiesta è solo l’orgasmo e in una modalità estremamente piacevole, quella del possedere una donna per “venirle dentro”, non fuori.

Ora esistono anche cliniche della fertilità nella quale all’uomo nemmeno si chiede più di “venire dentro”, purché venga in un barattolino e lo consegni alla segretaria. Pertanto, ancora meno risulta essere necessario il padre. Parlando di massimi sistemi, l’amore patologico esiste solo perché uomo e donna hanno creduto di essere superiori rispetto agli animali e, non come questi ultimi, hanno deciso di creare quella che hanno poi chiamato “famiglia”, la più grande ipocrisia che l’intelligente essere umano ha convenzionalmente predisposto, come unico presupposto l’opportunismo: è meglio aiutarsi che stare soli, dunque andiamo a vivere tutti sotto lo stesso tetto “perché ci amiamo”. L’amore è un’altra cosa, l’amore è volere bene anche se non si fanno figli, anche se non è coinvolto l’elemento sesso, l’amore c’è perché improvvisamente si sente questa cosa nel petto, ma non si pensa “che emozione, faccio un figlio”.

Gli animali sono da rispettarsi per la loro intelligenza emotiva: si amano per amare senza chiedere nulla in cambio, si accoppiano altrove con chi non sarà un partner bensì solo la naturalissima esplicazione della riproduzione, porta vermetti ai figli solo per pochi giorni e poi via, si viva la vita ciascuno con nuovi amori. Questa eclatante intelligenza che l’uomo vanta altro non è che paura, una grande paura mista a possesso e gelosia, e non solo: il più grande narcisismo che Dio abbia creato, quello del “voglio un figlio che assomigli a me” mutato poi in “voglio un figlio che assomigli a noi” – per il terrore che l’altro donatore possa essere brutto, si sceglie quello che piace. Ed ecco fatto, l’amore che con l’amore non ha proprio niente a che fare.

Romina Ciuffa, 12 maggio 2025

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LA FAMIGLIA NON È ESSENZIALE

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LA FAMIGLIA NON È ESSENZIALE. Chi ha detto che bisogna amare per forza? Perché sentirsi strani, diversi, se non si ama, se non si è amato, se non si ama più? Gli animali utilizzano la stagione degli amori per riprodursi, gli esseri umani pretendono di amare in continuazione e, quando non lo fanno, campano scuse o si sentono diversi dagli altri, si vergognano a uscire da soli, le donne entrano nella sindrome della zitella che le rende ancora più ridicole. Non amare è uno dei più grandi vantaggi del vivere, che non vincola, non dà dolori, non copre tutte le altre emozioni con questa unica, falsa, emozione: quella dell’amare.

Amare, infatti, è una emozione falsa e fallata; è falsa perché non consente di avere la mente lucida per sapere dell’altro cosa piace, e se piace. Ci si innamora delle persone sbagliate: quale emozione è più falsa di questa? Perché incastrarsi in un tornado di emozioni malate verso qualcuno che non si addice a sé? Solo per non restare soli? O per crollare nel paradosso della caverna, di chi esca da quel buco nero in cui sempre è stato e viene accecato dalla luce del sole, chi crede che quelle ombre siano persone e si innamora di una di esse. Ebbene, sono solo ombre.

Non si può vivere una vita completa per se stessi se ci si innamora di un’ombra, di ciò che sembra essere vero ma è falso. L’amore è un sentimento quasi inutile, tranne che nella parte in cui c’è la dimensione sessuale – ma questa finisce presto – o in cui è possibile, sempre che lo sia, costruire una famiglia – ma anche questo ormai è estremamente gestibile, perché la famiglia stessa non è essenziale, nemmeno negli animali esiste la famiglia. Difficilmente le famiglie restano insieme ed ora si può tranquillamente dire che un bambino non ha bisogno dei genitori, altrimenti nessuno di questi dovrebbe o potrebbe lasciarsi. Il bambino può tranquillamente andare avanti vedendo padre e madre in momenti diversi, altrimenti non sarebbe stato creato in nessuna parte del mondo l’istituto del divorzio.

A maggior ragione, non servono un padre e una madre ora che il processo scientifico ha fatto il proprio corso ed è possibile, per tutti, ricorrere a cliniche per la procreazione, dove a volte manca il padre, a volte la madre, pur sempre i clienti ne escono con un bambino in braccio. La scienza, che ha avuto da sempre come acerrima nemica la Chiesa e ancor di più le forze conservatrici, parla chiaro: l’amore verso un altro non è più necessario. È carino, è divertente, è addirittura bello per un po’: ma poi basta, non siate ridicoli, soli si sta benissimo.

Romina Ciuffa, 11 maggio 2025

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RIDICOLI SENSI DI COLPA, CREPATE

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RIDICOLI SENSI DI COLPA, CREPATE. Tu davvero credi che l’amore con tua madre non sia patologico? Credi che sia un amore che viene dalla natura prima che dal cuore, lei che ti ha dato la vita e ti ha consentito di viverla insieme a tuo padre, se è rimasto. Ma tu non devi niente a nessuno. Per questo, di certo in Italia, l’amore verso la madre è uno degli amori più patologici che esistano. La politica del senso di colpa che viene inculcata a noi italiani – si dice che è perché abbiamo il Papa vicino, e di noi romani si dice anche peggio, considerato che ospitiamo dentro di noi quello staterello infingardo che è Città del Vaticano con il suo cattolicesimo ed il potere temporale – spiega i suoi effetti per tutta la vita. Non vuoi lasciare tua madre sola? Quanti italiani hanno rifiutato un lavoro all’estero per stare vicino alle proprie famiglie? Anche alle sorelle “zitelle” (ma ora si dice “nubili”) dei famigliari dei famigliari? Quanti, invece, hanno accettato quel posto all’estero e la mattina, svegliandosi felici della loro fuga di cervello ed esonerati dalle idiosincrasie ed idolatrie italiane, dunque fondamentalmente liberi, in realtà liberi non sono? Resta sempre quel sensetto di colpa, che fa prendere il telefono e quasi tutti i giorni se non più di una volta al giorno chiamare e dire: “Mà, come va? Come sta papà? Ah, capisco. Sì, me ne rendo conto, sì mamma sì mamma sì mamma” perché si è riempiti da quella vampata di problemi dei quali la menopausa non sopraggiunge mai.

L’amore con la madre è una delle cose più patologiche che noi italiani abbiamo nel nostro patrimonio ereditario, tanto da farmi desiderare di svegliarmi un giorno svedese, ancora meglio finlandese: avrei, innanzitutto, vari assegni dello Stato, ad esempio quello per ciascun figlio che faccio. Poiché non ho intenzione di fare figli, avrei altri assegni e di certo nessuno mi guarderebbe stranamente, come fossi sulla via di quelle famose zie con la z di zitelle. Questa è l’Italia, e l’amore per essa è estremamente patologico. È assurdo sbavare per mozzarelle di bufala e cannoli siciliani, dire “io sono italiano” con tutta quella presupponenza, stare a spiegare agli amici che vengono dall’estero di quanto siamo addirittura stanchi di tutti questi turisti; assurdo poi, arrivare a fine mese sbattendosi senza nessun aiuto, logorati dai call center che chiamano almeno una ventina di volte al giorno (se ti iscrivi al Registro delle Opposizioni da lì prenderanno il tuo numero e paradossalmente riceverai il doppio delle telefonate da operatori di falsi e truffe), finiti dalle tasse, dagli obblighi, dalle stupidaggini televisive, dal monopolio di una Maria de Filippi che ha decerebrato milioni di spettatori, esautorati da brutta musica e brutti film, privi di speranze su qualsivoglia cosa – non puoi aprire un business, non puoi andare in pensione, non puoi cercare lavoro senza la frustrazione di non trovarlo, non puoi fare nulla. Eccolo l’amore più patologico, quello per questa Italietta inutile che è solo bella ma nemmeno troppo: non saranno da meno i panorami del Nevada o quelle infinite costiere australiane, non saranno brutte le isole maldiviane, thailandesi, filippine, solo perché abbiamo la Toscana non potremmo definirci migliori di quelle infinite distese di ghiacci verso i Poli dove andiamo a cercare aurore boreali sulle slitte.

Così se un genio della lampada mi chiedesse quei tre desideri per liberarlo, annetterei al mio primo, segreto desiderio, questi: voglio una landa dove posso atterrare che sia tutta mia e dove arrivi solo bella musica; voglio che sia espulsa immediatamente dalla stessa memoria Città del Vaticano con tutte le altre religioni del mondo, perché “pace” lo sappiamo dire tutti, non serve un nuovo Papa che Putin non ascolterà, eliminati gli estremisti, eliminato ogni riferimento al post mortem, che si coltivi la vita senza pensare a quando saremo morti e senza sensi di colpa verso l’Italia, verso Dio, verso tua madre, verso se stessi. Punto tutto, però, sul mio primo desiderio: quello mi garantirà la felicità, il secondo mi darà panorami illesi da visitare con il mio elicottero, il terzo mi toglierà, finalmente, quell’angosciosa voglia ossia necessità di chiamare mia madre ovunque io sia, soprattutto se sto bene, e la tradurrà in uno spontaneo e dolce “mi manchi” esente da tutte quelle tasse da pagare alla nostra stupidità culturale.

Romina Ciuffa, 10 maggio 2025

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