RAI: CON IL MIO STIPENDIO PAGO LO STIPENDIO DI BRUNO VESPA

La Rai nasce con un regio decreto (il n. 1067) nel 1923. Subito dopo la prima guerra mondiale, subito prima della seconda, e in periodo fascista, nel quale Benito Mussolini puliva l’Italia dal triennio rosso (gran confusione) e poi, prendendosi tutto il braccio oltre che la mano (in posizione alta e definita peraltro), animava una propaganda monopolistica per sottomettere le masse ad una promozione di valori predefiniti dalla dittatura. Fin qui “tutto bene”. Non è pericoloso precipitare, è pericoloso atterrare. L’atterraggio avviene in questo modo: spostiamoci di tanti anni, e arriviamo al referendum popolare del 1995, che conduce all’abrogazione della legge che riservava esclusivamente alla mano pubblica il possesso delle azioni RAI. Tale privatizzazione non è stata mai avviata. L’oggetto della fornitura, in effetti, è la produzione dei programmi di servizio pubblico, ossia pagati dal contribuente attraverso una forma di tassazione, definita “canone”. Un’eccezione al nomen omen: parlare di “canone” non modifica l’evidenza che si tratti di una tassazione sulla proprietà o, per generalizzare, sul possesso di mura (prima, seconda casa, appartamenti collegati, stanze limitrofe, la nonna che vive all’altro piano etc.). Possedere, solo possedere una TV, è come avere della droga in casa: si è “sanzionati”. 

Perché, oggi, la definirei “sanzione”, se è vero che quest’ultima viene applicata contro la volontà dell’utente, sia pure in funzione della violazione di una regola. In linguaggio dell’uomo di strada, una punizione. In questo caso non c’è violazione da parte dell’utente che possiede una TV, come fosse una busta di stupefacenti: nelle nostre case possiamo possedere qualunque cosa sia legale. Pertanto la “sanzione” è applicata sine causa: non v’è violazione di alcuna norma nel possedere una TV o una radio. Ma se prima la RAI aveva una funzione sociale di informazione, diritto costituzionalmente garantito, oggi non l’ha più per due ordini di motivazioni.

Innanzitutto, perché le frequenze sono state liberalizzate, ed a fronte di un mercato che è libero non può permanere un monopolista obbligatorio. Meglio detto: non perché posseggo un’automobile lo Stato ha il diritto di mandarmi multe a casa per il possesso. Lo può fare solo in ragione di una violazione. Nel caso della TV, mutatis mutandis, non perché se ne possegga una, o 100, ciò voglia dire che la RAI (nei suoi 10 attuali canali televisivi) sia guardata o apprezzata. Sky non obbliga a pagare un canone, è la scelta del consumatore che, seguendo i propri gusti, opta per adottare un servizio a pagamento. Questa è libertà. Ogni cittadino libero ha il diritto di partecipare attivamente a quei processi dove vengono prese le decisioni di interesse pubblico, televisione inclusa. Inoltre, nei telegiornali le notizie sono alterate dalla composizione del Governo, pertanto si sta pagando, con una nuova, ulteriore mazzetta, il corpo politico, che impiegherà tali fondi per trasmettere la propria propaganda scegliendo i contenuti. Non è, esattamente come un centinaio di anni fa, l’approccio mussoliniano?

Va bene, fingiamo di trovarci – e non ci troviamo – in uno Stato democratico, costituzionale, in cui tutti possiamo scegliere i nostri diritti con i soli limiti dell’Altro. La democrazia è un’utopia. Aristotele la collocava tra le forme degeneri dello Stato assieme a tirannide ed oligarchia del resto. La tirannide per il filosofo è una monarchia che ha per fine il vantaggio del monarca, l’oligarchia cura gli interessi degli abbienti; mentre la democrazia degenera quando cerca di ottenere il vantaggio dei nullatenenti rispetto alle altre classi. In nessuno di questi casi si insegue il bene comune ma quello particolare, e la democrazia finisce per diventare una tirannide quando l’arbitrio della moltitudine domina incontrastato e i più agiscono ignorando perfino la legge: i governi infatti non si definiscono buoni o cattivi in base alla forma della loro costituzione, ma in base alle qualità etiche e morali dei loro membri. Specifica: il miglior governo dovrebbe essere formato dalla classe media, cioè da cittadini forniti di modesta fortuna. E sostiene: la miglior forma di governo non darà la cittadinanza ai meccanici. Anche Platone aveva parlato di utopia della Repubblica. Per quest’altro, democrazia, oligarchia e  tirannide non possono essere riguardate come modello politico in grado di garantire la giustizia. Ma tornando ad Aristotele, egli dichiara: la scienza politica non può fare gli uomini, ma deve prenderli come li fa la natura. In un certo senso anche con i propri gusti allora: gli altri, i Latini, dicevano de gustibus non disputandum est.

E qui si passa al secondo ordine di ragioni: i contenuti. Io con il mio stipendio pago lo stipendio di Bruno Vespa e Gigi Marzullo, tra gli altri, che ogni santa sera sono presenti in un palinsesto ripetitivo, con «Porta a Porta» e «Sottovoce», nonché gli stipendi dei soliti, soliti, soliti noti. Per assistere a trasmissioni di basso livello culturale, dove si gioca e ci si diverte secondo un arbitrio di quoziente intellettivo pari a meno qualcosa, dove si vincono soldi mentre non si trova lavoro. Per ascoltare i dibattitti di personaggi votati a nessuna causa, apprendere nuove parolacce, distruggere l’italiano, sentire urlare, gridare, insultare. Inermi. L’Italia della RAI è l’Italia dell’ignorante. Anzi, di coloro che vogliono far passare gli italiani da ignoranti. Serie televisive con attori incompetenti, ingestibili, inguardabili. Chiacchiere, chiacchiere. Tutte queste chiacchiere sono oggi luce, perché si pagano in bolletta. Paghiamo le parolacce, le grida isteriche, il narcisismo, esattamente come quando, entrati in casa, pigiamo l’interruttore della luce. Paragoniamo la «Prova del cuoco» a un bene essenziale quale la fornitura elettrica. Ascoltiamo Paola Perego ed i suoi ospiti registrare uno stereotipo sulle donne dell’est, e senza accorgercene ci cibiamo di questo e di pregiudizi o giudizi precompilati. Non abbiamo la possibilità di oscurare tali canali, perché ci vengono propinati con obbligatorietà. Dovremmo essere messi nella condizione di scegliere tra guardare e non guardare, pagare e non pagare. Avere una TV in casa non vuol dire affatto seguire la RAI TV, più probabilmente dare sfogo ad uno zapping selvaggio da cui uscir fuori frustrati, insoddisfatti, salvo accontentarsi dell’istrionismo pubblico. Salvo leggere un libro. Salvo fare l’amore.

Non che gli altri canali siano migliori, ma non ne paghiamo un contributo. Sono canali privati che vanno avanti da sé. Ora c’è Netflix, ora c’è il digitale, ora c’è Sky: a questi gli utenti medi si appoggiano per trovare una distrazione che si avvicini ai propri interessi. Non possiamo paragonare, così come facciamo, Bruno Vespa a Dio, che muove tutto, che decide di cosa dobbiamo renderci edotti ogni santa sera che RAI ha creato. I contenuti garantiscono cultura; quando si tratta di ridondare, di impiegare il caso del giorno per fare audience, di pagare una parcella, allora Aristotele si rivolta nella tomba, obtorto collo. La RAI TV dovrebbe essere una scelta per il contribuente. Non perché si ha un libro in casa ciò significa che si è alfabetizzati: un bambino di due anni non lo leggerà. Così mi sento io quando velocemente passo dalla Rai a TopCrime: un bambino che cerca il gioco adatto alle sue abilità, e corre nella sua stanza dei giochi. Nessuno, solo perché si ha un libro in casa, pagherà la sua università. E così nessuno, solo perché si ha una TV in casa, pagherà il suo canone, facendosi uccidere subliminalmente.

Che la RAI divenga un’opzione, e che il meccanico trovi lavoro: questa è democrazia, non tirannide od oligarchia. Lo dicono i filosofi, che Sanremo non lo guardano. Loro pensano, come li fa la natura. (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Aprile 2017




EUTANASIA, DALL’ITALIA LA FUGA DEI CERVELLI SENZA CORPO

EUTANASIA, DALL’ITALIA LA FUGA DEI CERVELLI SENZA CORPO di Romina Ciuffa. Prendiamo il punto di vista di un cachi. Non si può muovere, eppure può cadere, può farsi male, può essere mangiato. Ma non può scegliere di interrompere la sua vita. Di contro, può godere del fatto che vive nella natura, solitamente non in un ospedale, e che è un cachi, dunque non dotato di un sistema neuronale che lo renda capace di provare cognizioni ed emozioni. Tanto assumiamo. Lo stesso vale per una cicorietta, uno spinacio, una carota, qualunque vegetale. Tranne quello umano.

La prima differenza che si coglie tra quest’ultimo e il primo tipo è l’ateismo: mancando al cachi un apparato cerebrale, viene meno l’intelligibilità dell’ambiente circostante o un suo sviluppo in senso trascendentale. O almeno stimiamo. Uno spinacio vive. Un vegetale umano vive, sa, e trascende, quando consapevole, per dare un senso al suo passaggio terreno. Al vegetale umano non basta la Terra, al vegetale spinacio basta la terra. Un vegetale umano vive, “è saputo” ed è “trasceso” invece, come in un atto passivo, quando è in uno stato di incoscienza o di perdita delle capacità cognitive.
“Sono vivo e vegeto”, diciamo. Attributi che devono essere colleghi per soddisfare il medico, amanti per soddisfare l’individuo. Vegetazione non è vita, vita non è vitalità. Non quando l’individuo umano contrae malattie che lo rendono schiavo della sua data di morte, quando è destinato a rimanere in coma per anni indefiniti, quando è incastrato in un corpo immobile.

Eppure in un altro tempo, in un altro spazio, non si sarebbe posto il problema di tenerlo in vita: solo fino a pochi anni fa si moriva di acetone, oggi curabile con la Biochetasi. Il progredire della scienza, della tecnologia, persino della comunicazione, che danni ne ha provocati, ha fatto sì che non si possa più morire di acetone. Il che va a tutto vantaggio della vita umana, più garantita e protetta. Ma ha anche fatto sì che non si possa più morire. Oggi, 2017, in alcuni casi un cancro è curabile e c’è chi, senza arti, partecipa alle Paralimpiadi e mantiene un margine di forza e dignità che, variando da individuo a individuo, può essere isolato e accresciuto, sostituendo nuove competenze e capacità con le altre andate perdute. Anche la psiche fa la sua parte in ogni singolo caso.

Ma oggi, 2017, è possibile anche mantenere in vita chi, “altrimenti”, sarebbe morto. È questo “altrimenti”, è il condizionale “sarebbe”, che rendono problematica la questione eutanasica. Riflettiamo: anni fa, l’accanimento terapeutico nei riguardi di un “vegetale” non avrebbe fatto molta strada, se non quella che la ricerca e la scienza, in quel momento, consentivano, ben inferiore ai risultati raggiunti in seguito dal progresso. Ho imparato a comprendere le cose attraverso il paradosso, per tornare a normalizzare e relativizzare: così, alla Asimov, immagino un’eutanasia che, in un mondo futuristico ma molto prossimo, sia destinata ad essere l’unica scelta all’alternativa del “vivere-vegetando” per secoli. In un’evoluzione scientifica che corre e che porterà ad infinitivizzare ad libitum le possibilità di sopravvivere, chi potrà stabilire quando è il momento di morire per colui che è mantenuto in vita da una macchina? Chi dovrebbe scegliere l’età in cui fermare le cure? 70, 90, 110 anni? Quale compleanno dovrà essere quello definitivo? E perché non impiegare la criogenetica? Sarebbe possibile che il bambino paraplegico guardi all’insù la mattonella per un centinaio di anni, in perfetta forma in quanto alimentato, seguito, non fumatore: e, parlandogli, osservarlo crescere, sviluppare, invecchiare, morire o lasciarlo, se premorti, in eredità ai legittimari con un legato. Oppure “ucciderlo”, meglio detto, non accanirsi. A che età attivare la procedura della morte medicalmente assistita? Mosè avrebbe scelto di morire se fosse stato in coma? Zaratrusta? Gli antichi longevi pluricentenari? Rita Levi Montalcini cosa avrebbe scelto se a 20 anni fosse rimasta bloccata all’interno della sua lucidità e del suo genio, in un corpo immobile, senza possibilità di comunicare?

Tornando dal futuro, oggi facciamo i conti con la medicina che abbiamo allo stato attuale, quel “vorrei ma non posso” in grado di mantenere in vita “dead men not walking”, detenuti in un braccio della morte che altro non è che se stessi, “le mie prigioni” più mie, aventi una natura totalmente evanescente, l’interiorità, e guardie penitenziarie in camice con cui è inibita ogni comunicazione; quel “vorrei ma non posso” comunque non in grado di salvarli dalla condanna. E si aggiunge il crocefisso in cella, bigottismo religioso, per privare il soggetto della sua personale spiritualità. Non può parlare il politico, non può parlare il cattolico, non può parlare il benpensante a cena, nessuno può farlo; può parlare solo colui che, nella maggior parte dei casi, non può: il malato. Il quale, se legato alla vita, può condividere l’accanimento terapeutico, ma deve poter accedere alle cure ed avere le risorse necessarie per mantenerle. In un contesto pubblico deve avere la fortuna di essere accolto e seguito con amorevolezza, non come un vegetale. Deve seguire un percorso psicoterapeutico, se è cosciente e lucido, e con lui i suoi cari, che al pari sono da accompagnare in un lungo, esasperato percorso.

Pochi giorni fa un italiano, cieco e paraplegico, non riuscendo a grattarsi ma potendo parlare, ha descritto in un video il significato del verbo “prudere”, insegnandoci che il prurito non è per lui un’anticipazione di qualcosa di piacevole, conseguente all’azione del grattarsi, bensì una vera e propria sofferenza, la peggiore: il 39enne milanese Fabiano Antonioni, in arte Dj Fabo, ne parla (con difficoltà estreme nell’eloquio) per minuti interi, “voi non riuscite a capire cosa voglia dire attendere che ti passi quel prurito alla testa”. Così per grattarsi – cosciente, ragionevole, lucido – si è recato con la famiglia in Svizzera, a farsi uccidere. Porta con sé il suo corpo, che più suo non è ma di altri: dei famigliari, di chi gli sta vicino, dei medici, dei media, dei politici, dei religiosi, dei salotti.

Lo stesso accade a un altro italiano, in Svizzera Gianni Trez, 65enne veneto, è morto a Forch, un paesino a venti minuti da Zurigo, dove si trova “Dignitas”, la clinica del “fine vita”. Malato di tumore, la moglie ha dichiarato: “Costretti qui, da Venezia, per una fine dignitosa”. Lucidissimo. “E non è depresso. Abbiamo elaborato a lungo la scelta di venire fin qui. Anche io lo farei. A lui piaceva tantissimo vivere, ma è condannato e vuole morire senza soffrire in modo dignitoso. Perché la vita che ha fatto nell’ultimo periodo per lui non è dignitosa. Ormai pesa cinquanta chili, è costretto alla morfina tre volte al giorno. Il problema è proprio la prospettiva: se sapesse che tra cinque, sei mesi smetterebbe di soffrire allora non lo farebbe. Ma così no”. Servono almeno 10-15 mila euro, solo la la clinica chiede circa 11 mila franchi svizzeri. È il vero caso di fuga dei cervelli dall’Italia: perché di loro, e di molti altri, fugge solo il cervello, il corpo ridotto a un contenitore.

La morte non è una scelta teleogica, ma teleologica. Non serve collezionare le parole di Cristo sulla sofferenza né citare Dante che mette i suicidi in un girone dell’Inferno. C’è chi passa in coma un’intera vita, chi trascorre lunghi anni in stadio terminale. Sono i suoi genitori, figli, aventi diritto, ad ucciderlo nel caso di eutanasia? Sono loro, insieme al medico che li sostiene, i boia dell’accanimento terapeutico? Non in Oregon, non in altri Stati americani, né in Colombia o in Canada, non in altri Paesi in cui la morte medicalmente assistita è operativa. Si è assassini sempre o mai: questo è un concetto universale e la differenza di opinioni e regole, stridendo da Stato a Stato, da Paese a Paese, da religione a religione, da caso a caso, da persona a persona, da medico a medico, persino da malato a malato, non è altro che una conferma che l’eutanasia non è omicidio. L’omicidio è un concetto assoluto, universale, la morte è un effetto pratico prima che spirituale o teleogico. Ovunque è punito chi, con una pistola, uccide un passante. Ciò che muta è la sua valutazione ad opera del legislatore penale, ma sparare a un passante è omicidio in Oregon, in Africa, in Italia e nel sedicente Stato islamico. Un discorso a parte va fatto per l’aborto, lo stupro, l’omosessualità et altera, che cambiano forma e sostanza in ogni hic ed ogni nunc in quanto sono discussi su livelli diversi e hanno diverse implicazioni.

Se il “non uccidere” è universale, perché non si è universalmente concordi sul fatto che l’eutanasia integri la fattispecie di omicidio? Perché l’eutanasia è un concetto relativo, culturale, basato sullo spazio e sul tempo, e sulle evoluzioni umane della scienza; un concetto che dipende e, dipendendo, non ha validità intrinseca. Questa sua non assolutezza lo abbandona nelle mani della politica, della religione, dei progressi della medicina. Ciascuno deve essere in grado, o messo in grado se impossibilitato, di gestire un concetto relativo. “Tu lo faresti?” No. “Ma non sei malato”. Non possiamo immedesimarci, e questo limite non consente di utilizzare ideologie per dire: l’eutanasia no. Soprattutto in uno Stato come il nostro, dove la sanità è malasanità e fa più vittime che la guerra ma, come in guerra, non punisce i colpevoli.

E allora, se spinacio devo essere, se cachi devo cadere, voglio che mi si mangi quando sono maturo, non quando sono marcio, né quando non so più di niente. (Romina Ciuffa)




F.U.T.U.R.E.

F.U.T.U.R.E.
un racconto di Romina Ciuffa
Non c’è nulla all’interno della nave, assolutamente nulla. Nessuno la guida. F.U.T.U.R.E. è vuota.

In questo bar del Village il soffitto è coperto da animali a zigzag ritagliati da cartoni colorati e plastica. Volteggiano in aria come padroni. Qualche lesbica creativa ha tirato fuori le sue paure più grosse e le ha rappresentate, poi le ha appese tutte al Cubby Hole sulla Dodicesima Strada e quando non dorme, perché non vuole e perché i suoi mostri la inseguono nel letto, passa di qua, li guarda in faccia, dritti negli occhi e loro, danzando al suono di un jukebox vecchio modello, non fanno più paura. Non c’è niente di meglio che tirar fuori il mostro e guardarlo in faccia. Un whisky liscio aiuta e per questo intorno alle pareti colorate è sorto un locale, con la pretesa che sia solo per donne. I mostri della lesbica intimoriscono più, allora, qualsiasi avventore che non si troppo macho per entrare ed affrontarli. Amanda Moore mi siede accanto ed è bella. Non so chi sia, so solo che è bella. Mi ero alzata a prendere due birre ed ecco che si siede questa donna accanto alla mia amica, che per l’occasione ho lasciato sola fra le donne, beata tra di esse.

Si siede questa donna in tailleur dopo aver chiesto se la sedia fosse libera. No, in verità sono con un’amica, è a prendere da bere. Sei bella, davvero. Posso sedermi comunque? Sì, c’m’on, siediti, c’è comunque una sedia in più. E silenziosa fa un sacco di domande. Il suo silenzio chiede: sei gay? Sei davvero così bella? Ti piacciono molto gli uomini? Quella è la tua ragazza? E la mia amica, mentre mi attende, in silenzio altrettanto risponde, con due occhi verde imbarazzato: non sono gay. Non sono davvero così bella. Mi piacciono molto gli uomini. No, quella non è la mia ragazza. E il verde imbarazzato diviene azzurro mare quando Amanda la fissa e le fa un’altra domanda senza chiedere. E allora perché mi fissi cosí sin da quando son entrata? A questo la mia amica, che ho lasciato da sola al tavolo del Cubby Hole, non sa davvero cosa rispondere, perché l’ha fissata ininterrottamente da che Amanda ha messo piede nel locale. Questa modella di pochi anni, alta, con la cravatta e occhi predatori, questa maschietta con arte e parte, si fa guardare. Da tutte. E mentre butta giù tequila, io pure guardo la scena da lontano, e palpita il tavolo sotto di lei che lo sfiora con mani grandi, e la mia amica, alta quanto lei, si vede, non sa cosa si fa a una donna se sei una donna, e l’approccio va gustato come un Brownie quando fumi marihuana, senza sapore. Senza fame vera. Solo con quel desiderio di qualcosa che non vuoi davvero. Ma che ti piace l’idea di volere. È quello che sta accadendo ora, mentre ordino le birre e Amanda ordina una bionda confusa.

Torno al tavolo e Amanda, di cui non so il nome, si alza. La seguo e le chiedo d’accendere. La curiosità è donna e qui siamo tutte donne. Il sesso qua dentro non conta perché ce n’è uno solo. Finita la sigaretta, finita la birra, la mia amica continua a regalare occhi a questa mora incravattata, che finisce per essere più alta di lei – cosa che di solito non accade mai alle alte e le colpisce. Affondata mi guarda, e m’alzo quando Amanda viene al tavolo e dice di volermi parlare. Mi chiede cosa volevo da lei. Non voglio niente da te, come-ti-chiami. Si chiama Amanda, dice. E cosa fai, Amanda, e perché a New York ti metti a parlare italiano? Perché lavoro anche in Italia. Ha capito tutto quello che la mia amica mi ha detto di lei al tavolo, e sa che qualcuno ha ceduto, stanotte, sotto i mostri colorati di una lesbica impaurita dall’esserlo che li ha ritagliati in una domenica di neve. Che lavoro fai, se posso permettermi di chiedere? Sono una modella. Non faccio difficoltà a capire che non mente e che ha fatto copertine di Vogue. Il suo coming out è arrivato dopo ed ora è quasi un’icona gay, da quando ha deciso di tagliarsi i capelli alla maschio e di giocare coi motociclisti in bianco e nero e non più piume viola e raso sulle gambe lunghe. Mi dice no, la tua amica è bella, ma è etero. È straight. Basta con le straight: non più. Perché Amanda? Perché l’ultima mi ha fatto soffrire. Basta con le etero. Fanno soffrire più di tutto, come non potessi dar loro più che sesso, e nemmeno completamente a volte. Siamo solo fantasie per loro e restiamo in un mondo fantastico. Forse per questo atterra un Ufo nel Cubby Hole.

Atterra e tutti i mostri che ci sono dentro cominciano a danzare nel cielo e in terra, fra i piedi e fra le mani, e la lesbica che li ha disegnati si nasconde sotto il bancone del bar. Amanda non ha paura, anzi, la vedo a suo agio in mezzo ai mostri. La mia amica non si accorge di nulla ma io li vedo danzare e urlare al ritmo di un valzer solo violino. Li vediamo in poche. Io vedo fiamme arrossare il volto che ho riflesso nello specchio e ballerine con i piedi rotti. Vedo dolore e sensi di colpa. Gessi. Vedo menzogne, battute, vedo la società, vedo la famiglia di ciascuna di queste donne e la mia, vedo maschi mostrare i propri genitali, mandare fiori e fare pipì sul muro. Amanda fuma la sua sigaretta e la mia amica beve la sua birra. Trema la lesbica sotto al bancone ed io, che mi accorgo di ciò che sta accadendo, la vado a soccorrere. La musica là sotto cessa e in questo ritrovato silenzio le chiedo perché ha paura. Non vedi cosa sta accadendo? Sì. Tu puoi vedere? Sì, posso. E non hai paura anche tu? Molta. Un mostro giallo con due passi è davanti a noi e urla. Lei si ripara dietro di me, me lo trovo davanti e mi accorgo che assomiglia alla normalità. Mi accorgo che tutti questi mostri assomigliano alla mia amica ed hanno occhi verdi come i suoi. Cosa facciamo noi sotto al bancone mentre un gruppo di animali di cartone colorato balla valzer senza musica? L’Ufo che è atterrato apre le porte. La navicella ha una scritta cubitale che dice F.U.T.U.R.E.; una luce acceca me e l’altra in ginocchio dietro me, che si gira. Io preferisco guardare, coraggio, andiamo a fondo alla cosa, lascio un attimo la mano di questa sconosciuta terrorizzata che m’implora di restare e mi avvicino alla macchina. Appoggio lentamente il piede sulla piattaforma. Scivolo dentro.

Non c’è nulla all’interno della nave, assolutamente nulla. Nessuno la guida. F.U.T.U.R.E. è vuota. Posso ancora sentire tremare la lesbica da sotto al bancone e vedo tutti i suoi mostri danzarle accanto terrorizzandola. D’improvviso, una figura appare dentro la macchina. È la mia amica: da dov’è passata? Mi prende la mano, quella straight, quella “straight basta”, di repente mi bacia, mi bacia ancora, mi spoglia, sorride, si spoglia, mi bacia, mi prende, fa l’amore con me, dolcemente, senza saperlo fare ma comunque dolcemente mi fa, per un istante, sentire voluta e sorride ancora, mi fa per ore, o forse un secondo poi s’addormenta.

Ora che dorme fa meno freddo dentro la nave e sembra quasi che questa donna l’abbia riscaldata. Amanda aveva torto marcio, il mondo fantastico è reale, è tutto reale qui dentro. È proprio una stupida. Ma cosa vuoi che capisca una modella americana! Stupida. Cosa vuoi che capisca. Guardo lei accanto a me ma la luce della nave mi acceca e mi domando come non accechi lei, come possa addormentarsi così. Non riesco a dormire dentro F.U.T.U.R.E. e posso ancora vedere mostri ballerini, sebbene colorati, spaventare quella lesbica. A me non fanno un graffio ora: sono forte, sono meglio di Amanda Moore. Uno ora ha addirittura il viso di Amanda ed è nero, indossa una giacca e si fa beffa di me. Ma io non ho paura! Io ho il coraggio dalla mia. Io posso affrontare un’eterosessuale, e guardala, è qui che dorme accanto a me! Non si è pentita, non era un gioco. Non sono solo una fantasia: esisto e sono reale. Tu Amanda, invece? Sei reale o finta come una copertina di carta lucida? Hai piume viola addosso o cravatte? Tu che hai paura di tutto, tu che le straight basta, impara a campare! Stupida. Ma il mostro ride ancora, non risponde alle mie provocazioni e a sua volta provoca, chiudo gli occhi un istante per non guardarlo e quando li riapro mi ritrovo sola sulla navicella dentro al Cubby Hole. La mia amica non c’è qui accanto a me, quella che dormiva sotto le luci accecanti di F.U.T.U.R.E. non accecata. Il violino suona ancora e stride un po’, consumato senza accordatura perfetta o corde di valore. A fatica, perché non ho dormito davvero, m’alzo, mi avvicino alla porta della nave e faccio per uscire. Cerco la mia amante. Mi fermo sull’uscio e la intravedo, poi la vedo. È mano nella mano con un uomo. Non la amo, ma fa uno sbraco nel cuore. Amanda la guarda da lontano, poi guarda me come a dire: ti avevo detto cosa fa soffrire nella vita. Si aggiusta la cravatta, si accende una Merit e se ne va su un’altra copertina di Vogue.

Ma sono ancora sulla nave e un’alternativa la ho, i mostri sono ancora più ribelli ora e la mia nuova amica mi guarda. Posso salire anche io? Preferisce una vita lontano dai mostri che ha ritagliato in una domenica di neve, a costo di dover andare via su una navicella vuota. No, le faccio con gli occhi, non c’è niente su questa nave! È vuota! Non posso lasciarti entrare. Si soffre qua sopra, si soffre qua dentro. Ma da sotto al bancone, veloce fa uno scatto ed è a bordo. I motori si accendono. Non sta ascoltando me come io non ho ascoltato Amanda. Si soffre qua dentro. F.U.T.U.R.E. è una fantasia vuota, un gioco di luci, ma la realtà è anche peggio. Non so se scendere, non so se partire, devo decidere in fretta ma sulla nave ci sono solo io e questa sconosciuta piena di paure come me. Non voglio una vita vuota. Faccio un salto prima che le porte di F.U.T.U.R.E. si chiudano del tutto e sono di nuovo al Cubby Hole. La mia amica, quella che ha voluto fare l’amore con me come si pasteggia in preda alla follia post-marihuana, mi sorride, non si è accorta di niente e ancora attende la birra che le devo portare. I mostri ora sono solo pezzi di cartone ritagliati da qualcuno che non c’è più e che nessuno ha potuto più ritrovare, ma sono tutti là che fissano me. Non esce più alcun valzer dal jukebox. Mi racconta che ieri notte ha fatto l’amore con quell’uomo che, poco più in là, sta sfogliando Glamour: in copertina c’è Amanda che ride di gusto. Alzo gli occhi e vedo la luce di F.U.T.U.R.E. divenire più piccola, poi scomparire. La nave non è più vuota ora, non è vuota come lo sono io. C’è una ragazza là dentro, mentre qui dentro non c’è niente.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su FORUM:




MARZIAMO

MARZIAMO
un racconto di Romina Ciuffa
La diversità inizia con la D di dolore e non finisce mai

A Rita.

Che giorno è? Non ricordo cosa sto facendo qui. Quando sono atterrato su questo letto, avevo tutt’altra intenzione. Poi ho trovato te. Hai rovinato tutti i miei piani: il mio obiettivo era quello di distruggere la Terra, non di fare l’amore con te. E che fai, adesso, sbarazzina, sorridi? Stai attenta, perché noi siamo cattivi. Tu mi vedi qui, nudo, tutto tuo. Ma sono cattivo anch’io. Non pensare alle parole che ti ho detto nella notte, mentre tu mi mordicchiavi il collo: tu devi avere paura di me! Guarda che forma strana che ho! Ti sembro qualcosa d’amare? Sfoga i tuoi sentimenti sulle creature uguali a te, perché altrimenti, se scegli me, sarai costretta a vagare in eterno, a vergognarti per tutta la tua breve vita, ed io a rimpiangerti per quella mia restante. Sarai costretta a svegliarti di notte con il sole in faccia, a temere i tuoi simili. Non guardarmi così.

Non ricordo più cosa sto a fare qui. Ricordo che ero sulla mia nave, e davo ordini ai marinai. Comandavo loro di andare il più in fretta possibile, perché altrimenti ci avrebbero visto, colpito, affondato. D’un tratto, un botto. Un rumore assordante, la Terra sempre più vicina, la luce accecante. Un frastuono, il buio. Poi un tonfo: atterraggio morbido. Non ho visto più nulla per un tempo indefinito, e annusavo quella bambagia sulla quale mi trovavo, e toccavo con le mie mani la morbida superficie terrestre, convinto di essere, finalmente, arrivato a destinazione. Ma quell’odore, quell’odore mi ha fatto perdere la cognizione del tempo. Non vedendo, mi spingevo lentamente e pericolante tastando il terreno, non sapendo dove iniziasse e dove terminasse, o se fosse minato, o se fosse sicuro. E così sono arrivato a te. C’era il tuo corpo lì, silenzioso. Non potevo vederti, ma già ti guardavo. I miei occhi erano fissi su di te, fermi, immobili, e tutto il nero che si frapponeva fra il mio corpo freddo ed il tuo corpo caldo era la luce più accecante. Non sapevo che eri lì, ma già ti conoscevo. E solo quando ti sei mossa, con un sospiro, mi sono accorto della tua presenza fisica. Il tuo odore già mi immergeva la mente come un pesciolino rosso nel suo acquario. C’era qualcosa che dovevo fare, in quel momento, ma tu mi distraevi. C’era qualcosa che era meglio che io facessi, ed era andar via subito, o cominciare il mio attacco da te. Ma non avevo più memoria, forse il tuo odore aveva annebbiato le mie stanche membra. Dei miei marinai, nessuna traccia, e già non mi interrogavo più. Due fari, improvvisi, illuminavano il pianeta: avevi aperto gli occhi, e mi avevi visto. Ma, come fossi uscito dal tuo sogno, mi hai sorriso, senza paure. Ricordati, dolce marziana, che io sono qua per distruggerti, non per farmi distruggere: e tu mi hai annientato. Uno sguardo, e la radio non ha più funzionato. Ho perso i contatti col mio mondo, ma verranno a prendermi, e mi porteranno via, via da te, a concludere la mia missione. Perché io avevo una missione; o non l’avevo? Bah, non è importante ora, perché se hai spazzato via con un battito d’ali i migliaia di anni della mia solitudine, forse il mio pianeta dovrà temerti, perché sei più forte di noi. Hai dei poteri che noi non abbiamo. E se tutta la Terra ne possiede, siamo rovinati. Forse è meglio tagliare i ponti, per il bene del mio mondo e dei miei simili. Io sono qui, atterrato su di un letto.

E se ti uccidessero? E se i miei sapessero che mi trovo qui? E se stessero già arrivando, o fossi già nella mira del più bravo di loro? Vivrò anch’io, da adesso in poi, nella paura? Sono venuto a terrorizzare, e invece sono terrorizzato. Cos’è questa cosa che mi fai? Cos’è questa forza che tu hai? Un potere? Un’arma? E arma è l’anagramma di amar. Ridi. Non sorridi ma ridi: devo proprio essere buffo, su questa Terra. Il tuo letto è morbido come quando vi sono atterrato, e la tua pelle lo è ancora di più. Ti temo. Tu mi temi? No, tu non mi temi. Tu non hai paura di niente! Ti farò un regalo per il tuo compleanno: ti regalerò, tutta bella impacchettata con un fiocco rosso, com’è vostra usanza, la salvezza del tuo pianeta. Io me ne andrò, però. Non voglio che tu soffra. E con me tu soffrirai: la diversità inizia con la D di dolore e non finisce mai. (ROMINA CIUFFA)




TRANSESSUALISMO: L’INTERVISTA A UN’EX DONNA OGGI UOMO BISEX E A UN EX UOMO OGGI LESBICA

L’intervista di Romina Ciuffa ai trans Davide e Mirella (su Panorama). Davide era femmina, amava le femmine, oggi è maschio bisex. Mirella, ex ragazzo etero, è lesbica.

Anche su www.archivio.panorama.it/archivio/Tra-uomini-e-donne-non-ci-sono-confini e, alla fine dell’articolo, la versione del cartaceo originale

Impegnata nel sociale, giornalista corrispondente da New York per Panorama, scrissi nel 2006 questa doppia intervista nella quale confrontai i punti di vista di due transessuali: una donna divenuta uomo ed un uomo divenuto donna. A quei tempi non v’era comunicazione sul tema e le lotte, faticose, hanno condotto a miglioramenti nel campo LGBT. Le parole contenute in questo mio lavoro aiutano a comprendere meglio la differenza tra orientamento di gender e orientamento sessuale, che fanno sì che una donna che diventi uomo preferisca spesso intrattenere relazioni con un altro uomo e, dall’altro lato, un uomo che transizioni in una donna finisca per divenire lesbica. Inoltre, dà diretta compiutezza del morboso e sofferente senso identitario di taluni di sentirsi nati in un corpo sbagliato (ultimo film uscito in proposito, “3 Generations“), che gli psichiatri classificano come disturbo dell’identità di genere (spesso abbreviato in DIG), rinominato disforia di genere nel DSM5 (la versione più recente del Manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali), una condizione in cui si ha una forte e persistente identificazione nel sesso opposto a quello biologico. Viene definito “transessuale” ai fini del cambio di sesso solo chi non ha psicopatologia associata: chi non ha un disturbo mentale. È ovvio che, nel caso di una depressione associata o disturbi alimentari, molto frequenti, o altro, questi possano essere derivati dalla condizione del DIG, ossia dalle esperienze negative connesse a tale problematica ma non intrinseche ad essa. Il termine disforia di genere venne introdotto nel 1971 da Donald Laub e Norman Fisk. È poi possibile che la sintomatologia psichiatrica dei soggetti DIG sia conseguenza di un PTSD (Disturbo post-traumatico da Stress) conseguenti a violenze sessuali subite o comunque legate a pregiudizi e atteggiamenti negativi verso le persone con varianze di genere. Questo tipo di esperienze traumatiche sono molto frequenti in tale popolazione Il DIG può comunque mascherare rilevanti problemi psichiatrici. Infine, anche il disturbo di dismorfismo corporeo è associato al DIG, benché inserito tra i disturbi facenti parte dello spettro del “Disturbo ossessivo complusivo e disturbi correlati”. In questa doppia intervista, pubblicata su Panorama, ascolto solo loro, non la società né la psichiatria.

Lui è nato femmina, ha sempre amato le donne, poi è diventato uomo, ora è bisessuale. Lei è nata maschio eterosessuale con esperienze omosessuali, poi ha avuto una parentesi come donna etero e adesso è lesbica. Sono Davide Tolu e Mirella Izzo. Il primo, autore dello spettacolo teatrale One New Man Show in tour per l’Italia, scrittore, portavoce del Coordinamento nazionale Ftm (femmine transizionanti maschio), solo da 12 anni è fisicamente uomo, dice: «Se non fossi riuscito a operarmi, mi sarei ucciso. Detestavo talmente quelle parti femminili che m’impedivano di essere me stesso che me le sarei amputate». La seconda, Mtf (maschio transizionante femmina), presidentessa onoraria di Crisalide azioneTrans, ex dipendente di Poste italiane e varie cariche sindacali, si definisce «diamante»:  «Perché non transizioni e non sopravvivi se non impari a essere dura».

Esiste un sesso intermedio?

Davide. In natura il confine tra i due sessi non è netto: il transessualismo è un fenomeno naturale in alcune specie di animali, così come l’ermafroditismo. Se nella specie umana il cambio di sesso non avviene spontaneamente, esistono però vari generi intermedi come l’intersessualismo e lo pseudoermafroditismo. È di scoperta recente l’esistenza di maschi che hanno patrimonio genetico femminile: si sono sviluppati come uomini anche se erano XX per una disfunzione genetica. Sono sterili, ma non hanno alcun problema di salute. Un’altra stoccata della natura alla presunzione umana di voler etichettare tutto prima ancora di conoscere.
Mirella. Non uno, ma esistono più sessi intermedi e orientamenti sessuali misti. La quasi totalità degli animali esprime comportamenti omosessuali a eccezione che nei periodi riproduttivi. La Chiesa continua a considerare gay e trans contro natura, mentre leoni e leonesse si dedicano al rapporto etero solo nel periodo fertile, i figli vengono accuditi da lesbiche e i maschi si concedono ad affettività gay. Anche i comportamenti trans sono frequentissimi. Senza scomodare i cambi di sesso spontanei nei pesci o l’ermafroditismo di molte specie, basta chiedere ai contadini, nei cui pollai ogni tanto un gallo si rifiuta di montare le femmine, non canta e cerca uova da covare, e le galline provano a inseminare.

A suo tempo l’onorevole Vladimiro Guadagno, in arte Luxuria, è stata colta dalla collega Elisabetta Gardini nella toilette parlamentare femminile. Ma in quale bagno deve andare una persona trans?

Davide. Da quando un guardiano della stazione mi buttò fuori dai bagni delle donne a 14 anni, ho cominciato ad andare in quelli degli uomini: per me è stato un riconoscimento della mia identità maschile, fuori e dentro. Per qualcuno i bagni unisex sarebbero più «politically correct», contrarie ai quali sono le donne perché «gli uomini sporcano di più». Credo che pulizie più frequenti siano la soluzione, come anche togliere le targhette dalle porte: quando una persona in transizione è costretta a scegliere, mette comunque in imbarazzo qualcuno.
Mirella. La direzione del mio ufficio alle Poste predispose un bagno solo per me, un’operazione di cortesia che rappresentava l’imbarazzo della dirigenza: modi gentili per separarti dagli altri attraverso il «privilegio segregante». Ma se è davvero una questione d’igiene, facciamo bagni anche per chi è circonciso e per chi non lo è, visto che cambia il controllo sul getto d’urina. E non sa la Gardini quante donne fanno la pipì in piedi? Mamme, insegnate ai vostri figli maschi a fare la pipì in piedi nei boschi e nei vespasiani e seduti nelle tazze e nelle turche: non saranno meno virili, solo più puliti.

Omosessualità e transgenderismo come si rapportano?

Davide. L’omosessualità si riferisce all’orientamento sessuale, il transessualismo all’identità di genere. Il trans Ftm è psicologicamente uomo e, come qualsiasi uomo, può essere etero, omo o bisessuale. Prima della transizione ho frequentato lesbiche, scoprendo che venivo percepito come uomo creando destabilizzazione nella loro percezione di sé. Fisicamente ero donna, uomo nell’identità, e non avevo né desideravo rapporti con uomini. Ora ne amo uno e rifiuto il limite imposto alla mia sessualità: proprio in quanto trans sono costretto a essere me stesso il più fedelmente possibile.
Mirella. Fare in un colpo solo il doppio salto mortale di sovvertire identità e orientamento sessuale dominante è troppo. Spesso si confonde il modello che si aspira a diventare con l’oggetto dell’attrazione; quasi tutti, ai primi stadi della transizione, per condizionamento sono o diventano etero rispetto al sesso di elezione. Una volta superato questo limite decide l’orientamento affettivo: chi cerca l’amore complementare si rivela etero, chi lo cerca affine omosessuale, come me. E in genere le donne, pure le lesbiche più rigide nel rifiuto del maschio, mi percepiscono donna. Anch’io vittima del condizionamento, ho ritardato di decenni la transizione poiché non riuscivo a coniugare il mio sentirmi femmina con l’attrazione verso questo stesso sesso, e ho dovuto sperimentare veloci approcci con uomini per autorizzarmi a valere come donna. Ora, dopo cinque anni con una compagna e altri al femminile, posso dire con serenità di essere lesbica. Attualmente single, purtroppo.

L’intervento ai genitali è un passo necessario?

Davide. No. Non tutte le persone trans desiderano l’intervento, ma il tribunale condiziona la modifica anagrafica del sesso all’intervento di rettificazione dei genitali, sia pure la legge non lo richieda espressamente. Una volta avuta l’autorizzazione, dopo una lista di attesa per l’intervento a carico del Servizio sanitario nazionale, avviene l’operazione e il tribunale registra la rettifica. Chi non accetta di sottoporsi all’intervento affogherà in un limbo giuridico per tutta la vita.
Mirella. Il bisogno di intervento è condizionato dal fatto che lo Stato ci consegna documenti e indicativi di genere adeguati alla nostra realtà solo se ci sottoponiamo a tale procedura. Ciò è semplicemente aberrante. Noi Mtf siamo discriminate anche qui: agli Ftm il Servizio sanitario nazionale passa la mastectomia perché un uomo con il seno non esiste, mentre è a nostro carico il costo della rimozione della barba. Evidentemente le donne con la barba vanno bene.

Ha completato la transizione?

Davide. Sì, e transizionare mi ha insegnato che le differenze tra sessi non sono nette: esiste una sorta di individuo-base che non è né maschio né femmina.
Mirella. L’ho completata, ma per me non ha voluto dire operarmi ai genitali, bensì far circolare estrogeni nel mio cervello femminile. Se la transizione cambiasse solo il corpo e non rimuovesse gli effetti del testosterone nella psiche servirebbe a poco,  lo scopo è trovare un equilibrio.

Passare nel corpo di un uomo e di una donna può aiutare a comprendere le differenze tra i  sessi?

Davide. Tra i nativi americani le persone transgender erano considerate un tramite naturale tra sessi e, perciò, dotate di innata saggezza. Se riconoscessimo le diversità come ricchezze scopriremmo che le persone trans non sono un peso ma una forza motrice, la cui sola esistenza dimostra che tra il maschile e il femminile c’è un continuum, non un confine netto. La transizione è un passaggio, non un abbandono totale di una vita per approdare a un’altra: non cambiamo identità ma adeguiamo il corpo, mezzo d’espressione che influenza la personalità al pari dell’essere bassi o alti.
Mirella. Siamo state spie nel mondo maschile, come gli Ftm lo sono stati nel mondo femminile.

È più facile la transizione per un Ftm o per un Mtf?

Davide. In una società patriarcale passare dal sesso femminile al maschile è visto come un avanzamento nella scala sociale. Gli atteggiamenti maschili in chi è nato donna sono maggiormente tollerati e un Ftm, al pari di una donna mascolina, può vivere nel limbo tra i sessi. Tollerato ma oppresso: gli Ftm nella storia non sono quasi mai riconosciuti tali. Allevati come femmine, se si vestono da maschi non destano scalpore. E i forti effetti del testosterone cancellano ogni traccia di ambiguità.
Mirella. La condizione transgender mette in luce il maschilismo: tradire il «privilegio» è imperdonabile. Mio padre, che per due anni si è rifiutato anche di parlarmi al telefono, un giorno disse a mia madre che se mia sorella avesse sentito di diventare uomo, avrebbe capito, ma io, io che ero uomo… no.

Maschilismo o femminismo?

Davide. Man mano che studiavo i capisaldi del femminismo e venivano a galla tutti i torti degli uomini, mi sentivo inconsciamente in colpa in quanto maschio (sia pure non ancora nel corpo) e mi sentivo un traditore. Stai scegliendo la strada più facile, mi dicevo, l’unico modo per rimediare alle umiliazioni subite dalle donne è che siano le stesse a ribellarsi: quindi, se vuoi fare qualcosa per loro, devi farlo da donna! È stata la mia crisi più tremenda. Ho capito che gli Ftm devono molto ai movimenti di liberazione della donna e omosessuale, ma ho abbandonato il collettivo ritenendo giusto che le donne se la cavassero da sole.
Mirella. Noi Mtf siamo già parte del movimento femminista. I movimenti transfemminista e translesbico in Italia sono ai primi passi, ma in paesi più evoluti stanno contribuendo a scrivere nuove pagine su un’identità femminile liberata dall’influenza dell’educazione alla sottomissione e un’identità lesbica che sappia esistere in modo non subalterno al maschile dominante. In Danimarca, il Partito femminista ha acquisito una leadership transgender-femminista e una politica più radicale contro la società maschilista. Gli Ftm, dal canto loro, hanno l’occasione per far nascere «l’uomo nuovo», liberato dai condizionamenti di un maschilismo violento contro le donne, ma contemporaneamente anche una stretta gabbia per gli uomini stessi.

Problemi sul lavoro?

Davide. Sì, tanti, specie per le ragazze. Ben Barres, neurobiologo e docente di neurologia e scienze neurologiche, è un transgender da donna a uomo. Recentemente ha denunciato il fatto che la sua vita come ricercatore è cambiata dopo la transizione. Quando era giovane fu, come donna, scoraggiata a frequentare il Mit (Massachusetts Institute of Technology) nonostante i risultati eccezionali conseguiti. E racconta che nel 1997, quando iniziò la sua vita al maschile, dovette sentire un collega dire a un altro: «Ben Barres ha tenuto un grande seminario oggi; certo il suo lavoro è molto migliore di quello della sorella». Ovviamente non esiste nessuna sorella di Ben, ma Ben prima della transizione. Superiorità genetica? No, maschilismo. Personalmente, non ho avuto problemi sul lavoro. Conta l’informazione, come quella predisposta in un opuscolo Crisalide-Cgil che spiega come gestire il rapporto persona trans/colleghi, le regole sulla privacy, l’utilizzo dei bagni, i permessi per gli interventi.
Mirella. I problemi sul lavoro sono infiniti. Io, come il 99 per cento delle neodonne. Trovare con documenti difformi un lavoro diverso da quello del lavascale è quasi impossibile. Sono grata alle agenzie di pulizia che guardano al lavoro svolto e non a cosa c’è fra le gambe. Tutti gli altri settori ci sono preclusi. Quando ho iniziato la transizione non potevano licenziarmi, ma ho subito tre anni di mobbing pesantissimo e ne sono uscita solo grazie all’intervento dell’unica dirigente donna dell’ufficio. Oggi sono invalida civile al 100 per cento per un aneurisma all’aorta causato dall’ipertensione di quegli anni. Ci abbiamo rimesso io, l’azienda che ha perso una buona impiegata, lo Stato che deve pagarmi una miserrima pensione a soli 47 anni. Se avessimo la privacy sul nostro percorso, le aziende non saprebbero. Dirò di più: una trans è un ottimo investimento perché, discriminata ovunque, scarica sul lavoro la voglia di rivincita.

Cosa chiedereste al governo?

Davide.Una legge all’inglese per il cambio di genere e nome a prescindere dall’intervento sui genitali e che non passi attraverso un giudice dove la persona transgender ha come controparte lo Stato. La copertura delle spese della transizione da parte del ministero della Salute. Una legge che recepisca in toto la direttiva europea secondo cui le norme per le pari opportunità si applichino anche a chi transizioni da un sesso all’altro o intenda farlo. Il tutto da aggiungersi alle revisioni in via d’approvazione della legge Mancino, che ha aggiunto orientamento sessuale e identità di genere fra le aggravanti dei reati per odio e pregiudizio, e della norma sul diritto di asilo che ha esteso a gay e trans il diritto di rifugiarsi in Italia da paesi dove essi sono puniti legalmente o attraverso gli squadroni della morte.
Mirella. Un’azione positiva sulla prostituzione transessuale, per molte Mtf unica possibilità di sopravvivenza a una famiglia che le ha abbandonate e a una società che non ha offerto il minimo spiraglio lavorativo. Quindi, i Pacs. Ho presentato una lettera al ministro per le Pari opportunità Barbara Pollastrini nella quale rilevo una falla nella legge 164 che regola il cambio di sesso; con soddisfazione constato che l’onorevole Luxuria ha fatto proprie queste osservazioni per ottenere una legge che preveda l’automatismo tra rettifica del sesso e cambio del nome anagrafico senza l’obbligo di chirurgia genitale. L’anomalia: in Italia sono vietati i matrimoni gay, ma una trans può chiedere l’autorizzazione all’intervento, poi non procedere alla seconda istanza di rettificazione anagrafica e, nel corpo di una donna ma ancora uomo sui documenti, realizzare un matrimonio lesbico autorizzato dallo Stato. Di fatto, posso sposare una lesbica. E non è detto che non lo faccia.   (ROMINA CIUFFA)

PANORAMA- Dicembre 2006




L’AEREO È MIO E ME LO GESTISCO IO

Ciò che rende pilota un pilota è la solitudine. Non tutte le donne sanno star da sole. Il distacco da terra: senza di esso non si vola. Le ali sono per chi ama il silenzio, per chi ha dolore sulle scapole, per chi ha paura di volare (non c’è atterraggio senza paura: questa consente di sopravvivere, darwiniano meccanismo di difesa). Le donne, più leggere, sono fatte per l’aria più di alcuni uccelli. Volano per passione o per lavoro, praticano tutti gli sport aeronautici, pilotano ogni tipo di velivolo (ultraleggeri, aerei certificati, motoalianti, deltaplani, paramotori, mongolfiere, aerei di linea, caccia, astronavi), si riuniscono in manifestazioni Flydonna, non temono il pregiudizio e sono più attente e preparate degli uomini: è stata proprio una donna, la 24enne Maxi J., copilota, a recuperare con una manovra acrobatica l’Airbus A320 della Lufthansa colpito a marzo del 2008 da una raffica della tempesta Emma durante un atterraggio ad Amburgo, impedendo lo schianto dell’aereo e salvando la vita ai 131 passeggeri e all’equipaggio. In guerra feroci, vere combattenti: l’Unione Sovietica ricorse a tre reparti aerei da combattimento rosa, le “streghe della notte”, che non indossavano il paracadute ritenendo più onorevole morire sui propri aerei.

Fu la prima equiparazione aeronautica tra uomini e donne e andarono tre medaglie di Eroe dell’Unione Sovietica al maggiore Marina Mikhailovna Raskova e alle sue colleghe, che stabilirono un record mondiale di volo nonstop a bordo di un ANT-37 nell’estrema Siberia orientale, coprendo circa 6.000 chilometri in 26 ore e 29 minuti. Ieri ribelli, oggi audaci. Come la romana Angie Ciuffoletti, campionessa europea di paramotore, anche detentrice di un guinness di velocità e di tutti i titoli che spettano a una numero uno. Angie l’ho conosciuta una volta che atterrai sul campo di volo di Otricoli. Ero partita con un Tecnam P92 dalla Flyroma – l’aviosuperficie di un grande uomo volante, Italo Marini, colui che “battezza al volo” quasi tutto il Centro Italia, ma non solo – per assistere a un raduno di paramotoristi; la sera davanti a un camino più grande di noi, quello della Club House, questa paramotorista mi ha raccontato di sé. È in aria da quando era piccola. “Vedere mio padre volare mi ha reso come lui”, ossia immortale. Ogni volta che la incontro ha i piedi per terra ma la testa – bionda, effimera – è dove si trova la sua vela. Perennemente insoddisfatta, e ha ragione: “Al volo, ma soprattutto al paramotore, non è prestata attenzione. Ho vinto praticamente tutti i premi, non solo in Italia, ed è come se fossi una disoccupata tra le tante”. Non è come in America, dove le atlete sono stimate e appoggiate: Angie vince, e la si dimentica.

Ma non è sola. L’Enac (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) nel 2006 evidenziava un aumento negli ultimi anni delle donne pilota: tra il 1980 e il 1999 solo 51 donne risultavano iscritte all’Albo della Gente dell’Aria, mentre in poco più di 5 anni – dal 2000 al 2006 – il numero arrivava a 88. In quella data, l’apporto femminile nel trasporto pubblico era di 6 comandanti e 67 pilote su velivoli di linea, 3 comandanti e 29 pilote su velivoli non di linea, 4 comandanti e 10 pilote su elicotteri non di linea; quindi, 20 istruttrici di volo, di cui 18 su velivoli e 2 su elicotteri. Tra di esse l’altoatesina Martha Heissenberger, prima pilota italiana di mongolfiera; Maddalena Schiavi, allora 48 anni di volo alle spalle; la pilota di elicotteri Paola Bogazzi, titolare dell’Avmap Satellite Navigation, che si occupa di cartografia e sistemi Gps. Io stessa.

Dall’Aeronautica Militare proviene il tenente pilota Stefania Ida Irmici, del 6° Stormo di Ghedi, prima pilota di tornado: il padre non fece nemmeno il servizio militare ma lei a 22 anni aveva un sogno: guidare un jet. “Si può essere donna e pilota allo stesso tempo”, dice. La giovane Charlotte Costantini mi spiega: lei, che è un’antropologa, porta gli aerei dell’AirOne, vola 20 giorni al mese su tratte europee e si sottopone a un addestramento continuo e check rigorosi. Pregiudizi? “Molti. Una volta proprio una signora, appreso che a pilotare sarebbe stata una donna, ha chiesto di scendere dall’aereo. Ma sono riuscita a calmarla. C’è diffidenza ma anche molta solidarietà a bordo, soprattutto da parte delle passeggere”. E aggiunge: “Una volta ho volato con un comandante donna, ma è stato un evento eccezionale”.

Eppure lei, Samantha Cristoforetti, è andata oltre. Non solo aviatrice: è la prima astronauta italiana e la terza in Europa, dopo l’inglese Helen Sharman (che ha volato nel 1991) e la francese Claudie Andre-Deshays (sulla ISS nel 2001). Nata a Milano nel 1977 e residente in provincia di Trento, è tenente pilota di velivoli AM-X e AM-XT in servizio presso il 32° Stormo con base ad Amendola. Alla selezione per lo spazio, che prevedeva la scelta di 6 astronauti, avevano partecipato più di 8500 aspiranti. Laureata all’Università Tecnica di Monaco di Baviera e all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli, è stata la prima donna a ricevere l’onoreficienza della “Sciabola d’onore”.

Allora vado in volo. Decollo dalla Flyroma, pista 09 per vento traverso proveniente da sud-est. Questa navigazione mi porta fuori dai nostri confini senza un piano di volo ben definito. Dallas, Texas. “Sono consapevole che sto rinunciando ad avere una famiglia”, mi confessa Katie Braun, capitano nella Horizon Airlines, istruttore di volo e pilota che negli anni ha insegnato a molti allievi a volare, parecchi di essi italiani e “tutti scioccati di avere un’istruttrice donna”. A capo di un jet Bombardier canadese di 70 posti, è sottoposta continuamente allo stupore di passeggeri e primi ufficiali, nonostante nella sua compagnia su 600 dipendenti 60 siano donne. Ma solo poco più di venti capitane. “Le mie vacanze le faccio in aereo”, com’è naturale.

Riparto. Com’è naturale. Innanzitutto faccio un touch-and-go sull’aereoporto RHV di San José, in California, intitolato a quell’Amelia Reid nota per essere una delle prime donne nell’aviazione americana (la prima pilota del Nebraska, Evelyn Sharp, la iniziò al volo nel 1939), che ha insegnato a volare a più di 4 mila allievi. Un’Amelia da non confondere con la Earhart, protagonista di un (risibile) film che racconta la vicenda della pilota che non lasciò tracce di sé dopo la trasvolata che da Miami la portò a Porto Rico, lungo la costa nord-orientale del Sud America, in Africa, India e Nuova Guinea; dopo 22.000 miglia – ne mancavano 7 mila per compiere il giro del mondo – venne persa a poca distanza dall’isola di Howland, carburante esaurito e comunicazione interrotta. Per alcuni l’operazione fu il prodotto di una missione di spionaggio (nell’isola di Mikumaroro venne ritrovata la suola di una scarpa dello stesso modello e numero di quelle indossate da Amelia), per altri l’aviatrice fu fatta prigioniera dai giapponesi con l’accusa di essere una spia ed in seguito giustiziata mentre, secondo il documentario della National Geographic “Where’s Amelia Earheart”?, sarebbe sopravvissuta ai campi di prigionia e tornata in America sotto falso nome. Che quasi mi pare di vederla in volo.

Per rifornimento atterro ad Ellington, Connecticut. Manica a vento ferma, velocemente libero la pista. Unico aeroplano fra tanti elicotteri per parlare con Susanne Hallen, della scuola della North East Helicopters: “Per lavoro piloto gli Air Atlanta Helicopters, per diletto i choppers”, come l’R-22, un gioiellino sul quale volo spesso anch’io, brevettata e innamorata, e ne conosco le meraviglie dell’atterraggio sulla vetta più alta e innevata di un cucuzzolo d’Appennini, o della merenda accanto alla croce alta del Tuscolo. “Ho il brevetto di pilota commerciale (CPL, ndr) e sono prossima a conseguire i brevetti da istruttore (CFI e CFII, ndr)”.

Si solleva un polverone, vento traverso, meglio proseguire: decollo ala al vento e piede destro, direzione sud-est, bussola 140 gradi, Messico. Lisa Cooper proviene dal Missouri: per 8 anni ha vissuto a Portland, nell’Oregon, lavorando per l’Horizon Air, sussidiaria dell’Alaska Airlines. Pilota un CRJ-700 tra l’America occidentale, il Messico e il Canada: “Volo sin dai tempi del college e voglio entrare in una compagnia di bandiera”.

Quindi bussola 120, Brasile. Dall’alto Copacabana, l’aeroporto di Maricà, il Cristo di Rio, ma mi dirigo (270 gradi) verso San Paolo dove Clarissa Pereira mi racconta il suo primo volo da solista: “L’ho fatto a 18 anni su un elicottero leggero. Da allora non ho mai smesso di volare” e, finite le riprese del video Atlas Brazil per Discovery Channel per le quali ha messo a disposizione le proprie abilità, le hanno detto: “Grazie Clarissa, ci hai incoraggiato a volare”.

Incoraggia anche me per la mia traversata sopra l’Atlantico e rientro a Roma in volo strumentale notturno sopra un aereo di cartone. Atterro per pista 27, il vento ora spira da nord e punta la manica a vento in posizione consueta, ripongo le mie ali nell’hangar della Flyroma e mi fermo un attimo, in silenzio. L’odore è quello dell’erba umida ed è quasi l’alba. Nessuno sa che ho preso un ULM per attraversare l’oceano e parlare di donne. Solo uno struzzo ed un maiale mi guardano. Il primo allunga il collo e, nonostante ali inette al volo, dal mio sguardo si convince che un giorno lo faranno volare. Il secondo mi chiede com’è il cielo, perché i maiali non possono guardarlo. Gli rispondo che è come una donna: inafferrabile. E quasi vive meglio lui, che non lo sa. (ROMINA CIUFFA)

 




EBBENE SÌ, IL CAR SHARING L’HO INVENTATO IO

C’è un pessimismo dilagante, il mondo va a rotoli. Ma ripassiamo la teoria dell’apprendimento sociale dello psicologo Albert Bandura, con una premessa: l’autoefficacia percepita si distingue dall’ottimismo e corrisponde alla convinzione di «sapere di saper fare». Un alto livello di autoefficacia percepita rende i compiti difficili occasioni per mettere alla prova le proprie capacità con forte aspirazione e impegno e agisce sui sistemi autonomico ed immunitario: aumenta la tolleranza della sofferenza, attiva difese nei confronti delle malattie, tiene le distanze da condotte e agenti patogeni ed integra il concetto di autostima. Dipende da attribuzioni causali: il «locus of control», la percezione che il controllo di determinate situazioni sia interno o esterno alla persona; la stabilità delle cause (la facilità del compito è stabile, la fortuna instabile); la controllabilità sui fattori in gioco. In un momento difficile come questo, è molto probabile che il «locus of control» della nostra vita sia collocato all’esterno: è lo Stato che non ci permette di, è la crisi che non rende possibile il, è la burocrazia, è l’America, sono i dem, sono i conservatori, è la corruzione…

È l’anticamera della depressione: attribuire un insuccesso a fattori esterni, instabili, incontrollabili, fa ritenere che i risultati negativi si verificheranno di nuovo, innescando una spirale di scarso impegno, sfiducia nelle proprie capacità e un senso di impotenza. Martin E. P. Seligman, descrivendo questo stile attributivo come caratterizzato da 4P – permanente, pervasivo, personale, pesante – elabora una vera e propria ricetta per il pessimismo. È invece caratterizzato dalla formula delle 4E l’ottimismo ottuso: sono le «e» che definiscono le situazioni dell’ottimista come estemporanee, esclusive, esterne, esigue, una predisposizione che conduce alla deresponsabilizzazione. Eppure un bicchiere è mezzo pieno e mezzo vuoto nello stesso momento. È il «feel bullish», il sentirsi un toro, a predisporre al bicchiere mezzo pieno, ben rappresentato nella statua del «Charging Bull», toro di Wall Street, opera dell’italoamericano Arturo Di Modica che troneggia nel Bowling Green Park di New York. Ed è anche la locuzione «start up»: la scalabilità è il presupposto essenziale per lanciare sul mercato un’idea.

Era il 1986, avevo 10 anni quando inventai il «car sharing», mentre mio padre era intento a cercare posto per la macchina sotto il palazzo di Valentino: nessuno mi dette credito, ero troppo piccola. Mi trovavo a Piazza Mignanelli, a Roma, e ne parlai a mia sorella Giosetta, della mia stessa età. Internet non esisteva, i numeri di telefono di casa non avevano nemmeno il prefisso. Eppure elaborai un business plan sulla base delle domande che lei, sempre geniale, mi poneva. Avevo previsto la possibilità di installare, nelle vetture, un apparecchio che avesse registrato la carta prepagata dell’utente; che lo stesso sarebbe stato sanzionato per le infrazioni e responsabilizzato per eventuali incidenti; un’assicurazione completa; la possibilità di riparcheggiare le auto ovunque a Roma in modo che altri avrebbero potuto prelevarle nella medesima modalità. Avevo previsto tutto salvo una App, giacché non era tempo di App ed io non avevo ancora inventato Internet e smartphone. Non venni ascoltata se non da mia sorella, che dopo anni mi mandò un articolo sul bike sharing francese: avevamo, a quel punto, circa vent’anni. La vivemmo come una sconfitta personale. La mia intuizione avrebbe cambiato la modalità, l’approccio e la vita automobilistica del Paese. Ma, soprattutto, mi avrebbe resa miliardaria.

Il problema fu che non avevo inventato la start up. Ossia, troppo presa dai miei studi di scuola media, non avevo coscienza dell’esistenza di bandi e fondi per poter far progredire un’idea. E, soprattutto, nessuno mi avrebbe ascoltato, se non la mia gemella. Oggi la start up è il futuro del nostro ottimismo, unica possibilità per sentirsi un toro. Materassi sottovuoto sono quelli di Eve Sleep, prezzi competitivi e consegna a casa; ravioli cinesi con ingredienti italiani consegnati a domicilio quelli di Hujian Zhou, cinese residente in Italia da 20 anni, in società con un macellaio meneghino; cabine-letto per gli aeroporti, quelle notti infinite di scalo, ed ecco la ZzzleepandGo di tre ventenni, che ne hanno realizzato in casa il prototipo automatizzato completo di letto, wi-fi, sveglia, cromioterapia, luci a Led, contenuti multimediali e possibilità di prenotazione, ora presente negli aeroporti di Malpensa e Bergamo-Orio al Serio; ci sono i «supereroi» di Gabriele di Bella prenotabili online: colf, badanti, personal trainer, baby sitter, fisioterapisti, tuttofare.

Il figlio di Mogol, Francesco Rapetti, anziché cantare produce Nuvap, un dispositivo in grado di rilevare l’inquinamento negli spazi chiusi, che uno spedizioniere passerà a ritirare dopo una settimana per poi inviare un report al cliente con le soluzioni per eliminare gli agenti inquinanti. Per la salute c’è il rilevatore di ictus, Neuron Guard, start up di Mary Franzese, 30 anni; c’è Empatica, del trentaduenne Matteo Lai, per il rilevamento dei segnali fisiologici della vita quotidiana; c’è Eucardia, di Francesca Parravicini e del padre Roberto, cardiochirurgo di Milano; c’è D-Eye, prototipo dell’oculista Andrea Russo, che attraverso uno smartphone compie uno screening per una prima diagnostica sull’occhio del paziente. Flavio Lanese a 56 anni cambia vita e inventa SpeedyBrick, un mattone che si monta come i Lego; Solenica, del 24enne Mattia Di Stasi, produce Lucy, una lampada che insegue la luce del sole, idea nata dalla scomodità di un ufficio non luminoso e dall’illuminazione – è il caso di dire – che la luce della strada di fronte potesse essere ridirezionata nel punto giusto. Cinque sardi, riuniti a casa di nonna Elvira, inventano Sardex, una moneta che vale come l’euro, per far fronte alla crisi finanziaria (una sorta di Sardexit?) nella consapevolezza che la crisi della liquidità non corrisponda a una crisi di produttività: basta dare la possibilità di sostenersi a vicenda attraverso un mercato parallelo.

A chi si chiedesse come trovare i soldi per lanciare una start up (oltre trovare sponsor e finanziamenti), ovviamente, rispondono altre startup: Crowdbooks, del 42enne Stefano Bianchi, pubblica libri in crowfunding: chiunque può sostenere un progetto editoriale preacquistando una copia a prezzo scontato; DeRev, portale di raccolta di fondi del salernitano Roberto Esposito, ha trovato 1.463 milioni di euro per ricostruire a Napoli la Città della Scienza distrutta da un incendio; Iubenda, del 27enne Andrea Giannangelo, aiuta i clienti a costituire una start up innovativa in pochi passaggi online. Si può anche fare una colletta su Collettiamo, idea nata da tre giovani marsigliesi che si trovarono a raccogliere i soldi per organizzare la festa di Capodanno con parenti ed amici.

Personalmente, ho una soddisfazione: aver inventato il car sharing a 10 anni. Morale della favola: i bambini, ascoltiamoli. Il plagio, a volte, è telepatico.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – febbraio 2017




AGGRESSIVITÀ E FRUSTRAZIONE: DALL’EFFETTO ARMA AL MODELLAMENTO TV

Un eccesso di aggressività si avverte: madri che uccidono figli che uccidono padri che uccidono mogli, stupri, lacerazioni con l’acido, cadaveri occultati, giochi di pulsione distruttiva per dirla freudianamente. Precedentemente ho parlato del conflitto interiore, il dubbio, l’angoscia correlata. In questo articolo l’intenzione è quella di dare un senso alle teorie sull’aggressività e la frustrazione, estremamente collegate alle teorie sul conflitto. Non è un segreto che, più passa il tempo, più la frustrazione avanza. Essa è generata dalla politica, dalle istituzioni, dalla qualità della vita, dal confronto con altri Paesi: sebbene l’erba del vicino sia sempre più verde, e questo è il caso di ricordarlo. Ma di certo l’Italia ha raggiunto un picco storico di frustrazione. Intendo per frustrazione una reazione personale e comportamentale accompagnata da sintomi vegetativi, che può portare a disturbi psicosomatici, disturbi mentali quando non vere e proprie malattie. Essa si verifica quando un ostacolo si presenta, un obiettivo non è raggiunto, un compito è interrotto, la propria autostima è minacciata, non è possibile gratificare un bisogno, e in tutte quelle situazioni in cui l’individuo sperimenta un «fermo» rispetto alle proprie aspettative più ampie.

Kurt Lewin (1890-1947), gestaltista, teorico della funzione del campo C=f(P,A) secondo cui il comportamento di un individuo è una funzione regolata da fattori interdipendenti costituiti dalla sua personalità e dall’ambiente che lo circonda, effettua esperimenti sulla sospensione ed interruzione del compito e nota che l’energia mobilitata continua ad operare e cerca vie di scarico, un accumulo che è percepito soggettivamente come un’esperienza emotiva spiacevole e dolorosa.

Sigmund Freud (1856-1939) ricollega la frustrazione alla mancata gratificazione dell’Es, per lui elemento libidinoso della psiche che non conosce negazione né contraddizione, e, nel suo modello energetico della motivazione, fa confluire l’accumulo connesso in altro: l’uso di meccanismi di difesa conduce a differenti soluzioni di sfogo, la prima delle quali è la sublimazione dell’energia ossia il suo scambio in attività sostitutive (lo sport ad esempio), o lo spostamento verso altri bersagli, spesso aggressivo. Ricordando i tre luoghi psichici freudiani: l’Es (la parte impulsiva, irrazionale, animalesca), il SuperIo (l’etica, la coscienza morale che sorge gradualmente e tende a reprimere gli impulsi dell’Es), l’Io (che si situa tra l’Es e il SuperIo, media tra le due tendenze e consiste in un continuo tentativo di equilibrio). Quest’ultimo è sempre in oscillazione anche in soggetti sani adulti. Un esempio per tutti il fil «Un giorno di ordinaria follia» in cui il protagonista Bill Foster, interpretato da Michael Douglas, per la frustrazione di una giornata qualunque raggiunge il punto di non ritorno, armandosi e minacciando la città.

Collegano frustrazione ed aggressività molti autori, in senso energetico l’etologo tedesco Konrad Lorenz (1903-1989), secondo cui compito della società e degli educatori è reprimere le spinte o creare valvole di sfogo (negli anni di Freud la militarizzazione era un’alternativa molto valida). Sono John Dollard (1900-1980) e i colleghi del gruppo di Yale a dare il massimo rilievo al collegamento tra frustrazione ed aggressività. Secondo essi l’aggressività presuppone sempre frustrazione, e quest’ultima conduce sempre ad un comportamento aggressivo, un legame che può essere rivisto solo attraverso strategie di ridirezionamento verso attività in grado di consentire la scarica. Si verifica uno spostamento quando muta il target della spinta aggressiva attraverso comportamenti diretti verso altri soggetti ed oggetti distinti rispetto alla causa generativa.

Ma questa teoria è considerata estremista: per Robert Richardson Sears (1908-1989) e George Armitage Miller (1920-2012) «non sempre», ossia frustrazione e aggressività sarebbero collegati solo ove vi siano condizioni particolari (la frustrazione prepara l’aggressività ma non la implica), ed è Leonard Berkowitz (1926-2016) che, con gli esperimenti ben noti degli «indizi aggressivi», rilevava il cosiddetto «effetto arma»: se nel campo è presente un oggetto che richiama aggressività, esso catturerà l’attenzione selettiva dell’osservatore che avrà non solo difficoltà a ricordare altri dettagli (problema dei falsi ricordi, molto rilevante nelle testimonianze e deposizioni processuali), ma sarà maggiormente predisposto all’uso della violenza. L’indizio aggressivo «arma», infatti, suggerisce il comportamento violento, finanche lo legittima, ed innesca una sequenza distruttiva, configurandosi come appiglio. L’esempio più lampante è costituito dai disordini pubblici e gli scontri che avvengono nel corso di manifestazioni in cui sono presenti forze dell’ordine dotate di armi, manganelli ed altri oggetti simili. Berkowitz aveva condotto un esperimento per avallare la sua teoria, e aveva evidenziato come i soggetti ignari, umiliati e derisi da un complice dello sperimentatore, tendevano ad infliggere più scosse, e più prolungate, al provocatore quando venivano a conoscenza che alcune armi, presenti nel campo di sperimentazione, appartenevano a costui.

La teoria degli indizi aggressivi è applicabile in Paesi quali gli Stati Uniti d’America, dove le armi possono essere acquistate, il nuovo presidente è favorevole al loro uso – in questo modo ampliando la motivazione dei cittadini a possederle se non altro per potersi difendere da altri che ne abbiano comprate – e non a caso nel Paese sono molto comuni le stragi nelle scuole generate dagli stessi studenti. In questo anche i media hanno un’elevata responsabilità, ma per dare atto di questo a breve mi soffermerò sugli studi di Bandura.

Intanto Dolf Zillmann pone un limite alla teoria dell’effetto arma, integrandola con l’evidenziazione dell’interpretazione tra arousal (eccitazione) ed aggressività: dopo le provocazioni i soggetti compivano attività fisica su una cyclette, e coloro che subito dopo il termine dell’esercizio fisico potevano somministrare una scossa al provocatore erano meno aggressivi rispetto ai soggetti che attendevano 6 minuti. Ciò perché questi ultimi non potevano più attribuire l’arousal allo sforzo fisico, e dovendo scaricare la tensione accumulata la riversano nel comportamento aggressivo. Diversamente accadeva ai primi. L’attribuzione della frustrazione ad una motivazione, diceva Zillmann, arresta l’aggressività.
L’aggressività per Seneca era follia, per i greci coraggio in battaglia, Thomas Hobbes (1588-1679) parlava di un uomo «homini lupus», mentre Friedrich Nietzsche (1844-1900) dava solo al Super Uomo la capacità di canalizzarla. Per i comportamentisti, l’aggressività è frutto di condizionamento operante (derivato dagli studi di Ivan Pavlov) in cui il rinforzo è dato dalle condizioni vantaggiose del comportamento aggressivo, mentre per i cognitivisti parla Albert Bandura (1925).

Lo psicologo canadese, nell’ambito dei suoi studi sulla «agenticità umana», considera il «modellamento per imitazione» come meccanismo di base per l’aggressività. Dal 1960, con le psicologhe Dorothea e Sheila Ross della Stanford University, condusse una serie di esperimenti sugli effetti che la visione di un soggetto violento in azione può esercitare sugli osservatori: sono i famosi «Bobo Doll Experiments», gli esperimenti con la bambola Bobo. Lo psicologo divise dei bambini di età prescolare in tre gruppi di bambini in età prescolare;  nel primo inserì un proprio collaboratore con il compito di mostrarsi aggressivo nei confronti del pupazzo gonfiabile Bobo. L’adulto picchiava il pupazzo con un martello gridando: «Picchialo sul naso!» e «Pum pum!». Nel secondo gruppo, quello di confronto, il collaboratore giocava con le costruzioni di legno senza manifestare aggressività nei confronti di Bobo. Nel terzo gruppo, quello di controllo, i bambini giocavano da soli, senza alcun adulto con funzione di modello. Successivamente i bambini venivano condotti in un’altra stanza nella quale erano presenti giochi neutri come peluche e modellini di camion, e giochi aggressivi quali fucili, una palla con una faccia dipinta legata ad una corda, e lo stesso Bobo. I bambini del primo gruppo manifestavano un’incidenza maggiore di comportamenti aggressivi rispetto a quelli che avevano visto il modello pacifico e a quelli che avevano giocato da soli. Ossia: l’aggressività si impara. C’è un modello che influenza gli altri. Tali esperimento portarono a conclusioni molto operative nell’ambito deggli effetti della TV sui bambini stessi. E non solo. Ciò dimostra come in un Paese nel quale le armi sono a portata di mano e la televisione propini modelli di violenza continui sia più facile una tornata di «effetto arma» e modellamento stile Bobo. I media italiani non aiutano: i dati lo dimostrano. Inutile rinchiudersi nella torre costituzionale della responsabilità penale personale: non è così. In molti casi, tale responsabilità è dell’intera società.

Nel metodo: sulla frustrazione a stessa seduta di psicoterapia/psicoanalisi si presta ad esserne fonte: il tempo limitato, il distacco dello psicanalista, il fatto di doverlo dividere con gli altri pazienti e, in particolar modo, il pagamento. Un terapeuta di approccio cognitivo-comportamentale mira a sviluppare nel soggetto un riapprendimento, dopo aver valutato quale apprednimento è stato generato dalla sperimentazione della frustrazione da parte del paziente, e come si è modificato il suo comportamento. Un utile test è l’inventario dei meccanismi di difesa, ma sono sempre validi il Rorschach, noto test di interpretazione di macchie, e il Tat (Test di appercezione tematica) di Henry Murray, che porta all’interpretazione di 31 immagini tra foto, riproduzioni, quadri, illustrazioni.  (Romina Ciuffa)




ROMPILGHIACCIO

ROMPILGHIACCIO

Senti, non sarà forse l’istinto
di conservazione a salvare
l’onta di contraddizione
che traduce in neve il mare
e sintetizzando il sale
lo fa friggere in padella
per saltare una patata
come in una zuccherata
cortesia, e in cucina
il tempo ammina
tutti i miei desiderata?
Senti, non sarà forse un’orata
a parlare dei pinguini
mentre il vecchio pescatore
crede solo nei delfini?
Questo dico: ogni tanto
anche un pesce pensa al freddo,
rompe il ghiaccio,
si ripara nel fondale
e lì pensa alla Groenlandia –
sarà grande, sarà come
descriveva il nonno squalo? –
che curiosità l’amore
quando l’ignoranza duole.

2 febbraio 20017, Romina Ciuffa 




ROMPI

ROMPI

Sette anni di guai
per il tuo riflettere
non sconterò mai.

20 gennaio 20017, Romina Ciuffa