Il mio tasso di mortalità è elevato. Muoio in stragi di me causate dall’incuria dall’erronea interpretazione del mio ridere e frignare dal fallimento dell’effetto Rosenthal dall’inconcludenza dell’effetto Hawthorne dalla realizzazione dell’effetto nocebo dall’inconsistenza dell’effetto sorpresa dall’inglesizzazione dell’effetto wow. Mi estinguo nella mia dissociazione ove i me oggettivizzano gli io e di stenti d’affetto ancor muoio per la presenza di favole a lieto fine a irradiare la mia infanzia pre-mortem condendola di illusioni metaforiche mentre in giovane età io insieme a me in due morivo come avviene alla rinuncia di senso (non metaforico/esistenzialista/trascendentale ma) solo semplicemente sensato, normale lancinante di affilate teorie sul perché Romina deve vivere e invece Misery non deve morire. Sono quel tricheco che infine congela dal caldo la Terra surriscaldata con freddezza il ghiaccio che si ritira mille leghe sotto i mari un romanzo la cui fine è lasciata ad un ghost writer quando il suo scrittore è morto d’aneurisma cerebrale. Sono il duello tra me e me in un Far West ricreato nei laboratori del Dams. Nota solo per alcune delle mie morti – alcune essendo insabbiate altre rinnegate nessuna rivendicata – salto quando penso che reincarnadomi (Dio non voglia) in una rana, un canguro, un saltimbanco, un saltimbocca potrei farmi trovar pronta nel saltar tutte le tappe, quindi volare. Salto per non stare ed insieme non andare, salto perché è l’unica che in effetti non so fare. Fosse stato Cristo crocefisso a 43 anni, non avrebbe avuto le forze cognitive psicologiche fisiche spirituali per resuscitare, nemmeno per suo padre – soprattutto per suo padre – a quarantatré malanni. A 33 la Pasqua si può anche organizzare, poi arriva la stanchezza, il ma che lo faccio a fare: mettermi a resuscitare?
Siamo il tempo in cui l’inchiostro che utilizzi a ogni mia morte per rifarmi su una tela di cotone poi si asciuga come a dire: c’è di nuovo odor di pioggia, alzatevi e fuggite, amatevi e dormite, non restate lì a sfangare. La Terra è un dissuadere per noi che siamo M’arte, aliene che si dicono «si p’arte». Così, quelle volte che prendiamo l’astronave, c’è un bottone che si spinge e che ci spinge a ritrarci come ossesse l’una l’altra: tu col rosso autoespulsione, io con tutto ciò che trovo nel pannello di comando da cui puntualmente odo: «1 secondo all’implosione». E di nuovo, morte inchiostro Terra arte. M’arte.
(Romina Ciuffa, 25 dicembre 2019) (ritratto: opera di Iulia Georgiana Murgoci)
RESA
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RESA
Così, io mi arrendo
e alzo le mani
per un accordo. Romina Ciuffa, 20 dicembre 2019
ADDIO ANTONIO MARINI, MORTO SUPERSTITE DEI TERRORISTI
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di ROMINA CIUFFA (22 agosto 2019). Fino alla fine un superstite, un sopravvissuto alla giustizia-come-si-deve, quella del tempo che fu, che fino all’ultimo non è stato ucciso da chi lo voleva morto. Lo si conosce come l’uomo dell’antiterrorismo, il Pubblico Ministero con PM maiuscole come in un bravo codice di procedura penale; io lo conosco come colui che, pur vedendomi crescere, mi chiamava “direttore”. Non una figura a caso nel patrimonio meteoritico italiano e mondiale della Giustizia, anche l’uomo che ha regalato a Papa Wojtyla il proiettile che non lo uccise, sottraendolo ai reperti giudiziari perché, a fini processuali, non serviva più. Se lo diceva lui, era così. E in questo modo fece sì che quel frammento di piombo fosse incastonato, come voleva Giovanni Paolo II, nella corona della Madonna di Fatima. A tutt’oggi.
Oggi che Antonio Marini non c’è più da ieri, 21 agosto. I giornali si sono precipitati a pubblicare i loro coccodrilli, tutti uguali, nessuno distinto, e probabilmente già pronti essendo lui portatore di un male inesorabile che, per il principio di non contraddizione, non lo ha scalfito minimamente nell’essere, lasciandolo – come sempre – nel suo umore e nella sua forza.
Ne sono testimone: mi chiamava carico di intenzioni, di costanza, mandava messaggi e foto, e parlava di futuro. Suo e del suo libro, la raccolta degli articoli sul terrorismo che lo hanno reso da sempre un grande collaboratore del nostro Specchio Economico, progetto che aveva quasi terminato con il direttore Victor Ciuffa ma che la scomparsa di quest’ultimo fermò. O meglio, rallentò. Ogni mese, per decine di anni, Marini scriveva per noi due rubriche: Giustizia e Terrorismo. Con costanza e attualità, con il senso del tempo e l’importanza di fissarlo.
Umilmente consapevole di non essere uno qualunque, non un “comune mortale”, nel combattere – prima come Procuratore generale facente funzioni, poi avvocato generale della Corte d’appello capitolina – delicate lotte in delicati processi come quelli sull’attentato al Papa, sulla strage della scorta di Aldo Moro in via Fani e il di lui omicidio, sulla morte della studentessa della Sapienza Marta Russo, sull’agguato, firmato dalle nuove Brigate Rosse, costato la vita al giuslavorista Massimo D’Antona.
Alcuni suoi processi sono raccolti nel suo sito in un’apposita sezione: http://www.antoniomarini.com/processi-2/. Il libro voluto da lui e da Victor Ciuffa sul terrorismo uscirà entro l’anno.
Marini muore “in sordina” perché è il giorno in cui, caduto il Governo, se ne attende uno nuovo (i veri eroi non amano essere notati). E così è per me più opportuno dar conto, con le sue stesse parole negli anni, di come si sia sviluppata quella politica (nello specifico antiterroristica) che è anche alla base del cambiamento di oggi in tema di “straniero”.
Ricordando che mi chiamava ogni volta e mi diceva: “Direttore, ti ho mandato l’articolo. Leggilo e dimmi cosa ne pensi”.
“Ci si chiede: quanta libertà siamo ancora disposti a sacrificare in nome della sicurezza?”, (ottobre 2006);
“Uno dei nodi ancora da sciogliere nella lotta al terrorismo internazionale è la definizione stessa di terrorismo (…)”, (novembre 2006);
“Ora, non v’è dubbio che la costituzione delle unità investigative interforze costituisca un importante passo in avanti nell’azione di contrasto del terrorismo internazionale e che, ferma restando l’assoluta libertà del pubblico ministero di avvalersi di altre strutture di polizia giudiziaria nello svolgimento delle indagini, tali unità sapranno fornire un contributo particolare all’accertamento dei delitti più gravi di terrorismo. (…) Le unità antiterrorismo non hanno ancora visto la luce, mentre la pianta malefica del terrorismo internazionale cresce invece a vista d’occhio giorno dopo giorno. A quanto pare, si teme di provocare un accavallamento di competenze e una dispersione del patrimonio investigativo o, peggio ancora, una trasfusione sul piano giudiziario di attività che sono principalmente mirate alla polizia di sicurezza. Ma forse la ragione del ritardo è un’altra. Mancano le risorse finanziarie necessarie a rendere operativo il progetto, risorse che dovrebbero essere individuate e reperite da ministri degli Interni in quelle già disponibili, senza generare nuovi capitoli di spesa. Come al solito la coperta è troppo corta: in mancanza di nuovi fondi, se si copre una parte si rischia di scoprire l’altra (…)”, (gennaio 2007);
“L’esperienza accumulata in questi ultimi anni nella lotta al terrorismo dimostra che la comunicazione via internet costituisce uno dei mezzi più efficaci e meno controllabili per organizzare cellule terroristiche e fare proselitismo (…)”, (gennaio 2006);
“Mentre le esigenze di prevenzione e di repressione del terrorismo anche internazionale non possono assumere alcun rilievo relativamente al rispetto di alcuni diritti intangibili e assoluti, esse possono però giustificare l’adozione di misure restrittive incidenti sull’esercizio di altri diritti, purché siano soddisfatte le condizioni all’uopo previste dalle singole disposizioni che li tutelano (…)”, (luglio 2007);
“Insomma, è tempo di gettarsi dietro le spalle le due tragiche ideologie che hanno dominato il secolo scorso con il loro delirio totalitario. Quanto agli ex terroristi, è tempo che smettano di cercare tribune da cui esibirsi, fornire la loro versione dei fatti, tentare ancora subdole giustificazioni. Lo Stato democratico che intendevano abbattere si è mostrato fin troppo generoso nei loro confronti. Pur avendo il diritto di reinserirsi nella società dopo aver pagato i conti con la giustizia, devono farlo con discrezione e misura, senza mai dimenticare le proprie responsabilità morali che non sono meno importanti di quelle penali (…)”, (giugno 2008);
“Così come non dovrebbero dimenticare le proprie responsabilità morali anche coloro che hanno contribuito a teorizzazioni aberranti e a campagne di odio e di violenza da cui sono scaturite le peggiori azioni terroristiche, ovvero hanno offerto al terrorismo motivazioni, attenuanti, coperture e indulgenze fatali. Il riferimento ai «cattivi maestri» e ai tanti fiancheggiatori rimasti impuniti appare evidente (…)”, (giugno 2008);
“L’esigenza di combattere il terrorismo non fa venire meno il divieto di estradare o; di espellere lo straniero dal territorio dello Stato quando esistono seri e concreti motivi per ritenere che esso corra il rischio reale di essere sottoposto, nel Paese di destinazione, a tortura o a trattamenti inumani e degradanti (…)”, (settembre 2008);
“Configura il delitto di «atto di terrorismo», previsto e punito dall’articolo 280 bis del Codice penale, aggravato dalla finalità di eversione dell’ordine costituzionale, la collocazione di un ordigno micidiale sul davanzale di una finestra dell’ufficio elettorale del candidato alle elezioni per il rinnovo del Parlamento della Repubblica (…)”, (settembre 2010);
“Si va consolidando la tendenza a considerare il territorio europeo non più solo un riparo e una retrovia logistica, ma anche un teatro operativo e una base per pianificare iniziative da consumare altrove (…)”, (dicembre 2010);
“È, però, principio centrale del diritto internazionale dei diritti umani che esso debba tenere il passo con il mondo che cambia. Alcune delle più gravi violazioni dei diritti umani sono oggi commesse da o per conto di attori non statali che operano in situazioni di conflitto di un tipo o dell’altro, anche mediante reti terroristiche nazionali o internazionali. Di qui l’esigenza di adeguare la normativa alla realtà, riconoscendo le vittime degli atti di terrorismo come vittime di gravi violazioni di tale diritto (…)”, (ottobre 2012);
“Il prolungarsi della crisi economica aumenta i fattori di rischio sul fronte dell’eversione e del terrorismo (…)”, (maggio 2013);
“Non v’è dubbio che l’Isis, a differenza di altri gruppi terroristici che combattono in Iraq e in Siria, abbia un grande «appeal» tra i giovani stranieri, spesso occidentali (…)”, ottobre 2014.
Non solo il grande PM Marini. Anche un uomo di mondo, che amava l’Opera e le prime, le cene tra amici, perché no la mondanità sic et simplicter ma sempre e comunque colta, le presentazioni dei libri, gli incontri ad altro livello, i salotti di un certo tipo (frequentatore assiduo di quelli di Anna Maria Ciuffa, sempre in prima linea nel giro dei grandi invitati), le alleanze mentali, le rivelatrici disquisizioni su Italia ed internazionale con tutti, ma anche chiacchierate alla mano, contraddistinte da serietà, giocosità, buon umore, dolcezza, energia (insignito anche del Premio Simpatia 2015 nella Sala del Campidoglio). Sempre con la moglie Elisabetta, una coppia nota nel mondo romano ed italiano per intelligenza ed affettuosità, classe, presenza (spesso ritratta sul Dagospia di Roberto D’Agostino).
Per me il Palazzaccio, la Corte dove mi riceveva e restavamo a parlare per lungo tempo al fluire del Tevere. Per me la promessa di portarmi al Carcere di Regina Coeli, che non conoscevo, sapendo che avevo esercitavo da psicologa in quello di Rebibbia. Per me, giurista e penalista, ma soprattutto grande costituzionalista, un esempio da seguire.
Andato in pensione solo nel 2015, ricevendo subito il Premio alla Carriera Giudiziaria e il Premio Colosseo D’oro. La nuova, più definitiva assenza di Antonio Marini lascia un vuoto invalicabile nel panorama intellettuale e culturale italiano e nella lista di coloro che possano essere consultati per “capire cosa fare”, soprattutto in un momento – quello odierno – in cui mancano combattenti tanto da non esserci nemmeno un voto, e così, con essi, le idee e l’onestà intellettuale, l’esperienza, il coraggio, l’animo. Viene meno un giudice, un uomo di legge, un lottatore, un sentimentale, un romantico, un cervello, un amico.
Solo un terrorista non è riuscito a sconfiggere, ma lo si ricorderà per quelli che ha fermato. In tutti i casi incluso l’ultimo, risolutivo, con una costante: senza paura. (Romina Ciuffa, il tuo direttore e la tua amica)
HO INTERVISTATO UNA GATTA PIANISTA: NORA, THE PIANO CAT
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Ho intervistato un gatto. Ma, cosa ancora più importante, ho intervistato l’unico musicista, in tutta la mia vita, che ho stimato anche come persona.
Gioacchino Rossini aveva scritto un Duetto buffo di due gatti, brano per piano e due voci femminili che interpretano il miagolio suadente e lamentoso di due mici. Il testo faceva proprio «miao». Un pezzo ironico composto per ricordare quei due gatti che lo svegliavano tutte le mattine nella sua residenza di Padua e che appartenevano alla padrona di casa, alla quale lo dedicava. Oggi in Pennsylvania c’è Nora, una gatta che sa suonare il piano da quando aveva un anno: sa scegliersi le note, cerca quelle nere, conosce il ritmo e lo segue, sa cambiare il volume. Appoggia anche la testolina sulla tastiera mentre suona, come faceva Beethoven da che divenne sordo. Non sarà un caso, allora, che ha ottenuto milioni di visite su Youtube questa micia. Vive con altri cinque gatti e due umani, Betsy Alexander e Burnell Yow, che la presero per caso in un negozio di animali del New Jersey, il Cherry Hill.
Nora the Piano Cat
Betsy, diplomata in Composizione, suona e canta dal 1978, a 15 anni scrisse il suo primo musical, su Caino e Abele, si trasferì a New York, scrisse i musical Stakin’ My Claim, Another Kind Of Hero, poi un musical su Anna Frank, un altro basato sulla commedia I Never Saw Another Butterfly e molti altri per bambini. Per la sua gatta ha scritto duetti, che ha pubblicato perché i suoi allievi potessero studiarli: Nora the Piano Cat’s Easy Piano Duets (because not everything in life should be hard) e Nora The Piano Cat’s Impressive Sounding Duets (because sometimes you just want to impress other people). Burnell è un pittore e un musicista autodidatta. Insieme a Betsy ha creato il Raven Wings Studio (www.ravenswingstudio.com).
Domanda. Nora, come hai imparato a suonare il pianoforte? Risposta. Ho vissuto con Betsy e Burnell per circa un anno prima di cominciare a suonare. Mentre i miei fratelli sonnecchiavano al piano di sopra, io trascorrevo tutto il mio tempo sotto, nello studio con Betsy e i suoi allievi. Ballavo – specchiandomi nel riflesso delle mie zampe – sopra la coda del pianoforte formando circoli mentre loro suonavano, e dalla coda del piano osservavo dall’alto i libri di musica sul leggio e le loro dita; altre volte mi sedevo accanto agli allievi sulla panca o sulla poltrona e guardavo Betsy fare lezione. Mi piaceva soprattutto infilarmi nel fodero della chitarra. Vedevo l’attenzione che Betsy dava ai suoi allievi mentre suonavano ed io adoro essere al centro dell’ attenzione.
Di solito non faccio follie per essere coccolata o tenuta in braccio, ma mi piacciono gli applausi e i complimenti: un giorno semplicemente sono saltata sulla panca e mi sono seduta proprio come gli altri allievi, ho usato i cuscinetti delle zampe per premere sulle note e mi sono compiaciuta di ascoltare i suoni che ne uscivano. Betsy e Burnell mi hanno sentito e sono corsi giù per le scale esultanti: è lì che ho deciso di continuare a studiare pianoforte. È stato come un viaggio premio: ricevo mail da tutto il mondo e i fans mi vengono a trovare per sentirmi suonare. Sono felice di ispirare gli altri a raggiungere il proprio potenziale e scoprire la gioia di suonare uno strumento.
D. Ti viene mai da cacciare una mosca che ti ronza intorno mentre suoni? O meglio: i tuoi istinti animali prevalgono mai sui tuoi talenti umani privandoli di razionalità? R.Come ho scritto sul mio libro, Nora The Piano Cat’s Guide to Becoming a Good Musician (or How To Get Good At Anything Hard), Betsy è umana e ha l’attenzione di un umano; io sono un gatto e, per natura ho l’attenzione di un felino. Il rumore più sottile, il movimento più fine mi distraggono, ahimé, così procedo a intervalli, ma riesco molto perché sono molto concentrata durante le lezioni di pratica e lavoro duramente sulle parti più difficili. Tuttavia, se un insetto mi vola davanti, devo smettere di fare ciò che sto facendo e vado a cacciarlo. Sono un predatore, dopo tutto. E se uno dei miei fratelli si avvicina al piano mentre sto suonando, devo interrompermi e dirgli di andar via: è il mio pianoforte e non mi piace dividerlo con nessuno, nemmeno con Betsy. È importante non doversi comparare agli altri mentre s’impara a suonare uno strumento. Naturalmente traggo ispirazione dai musicisti talentuosi, ma accetto chi sono e faccio il meglio con ciò che ho. Betsy ha dieci dita ma io ho solo due zampe e la mia testa da usare, e suono con passione ed entusiasmo a prescindere da questi limiti. Credo di essere come il primo astronauta che ha camminato sulla luna: sono un pioniere, un esempio per tutti gli altri gatti del pianeta, e ispiro tutti a esaudire i proprio sogni.
D. Chi è il tuo musicista preferito? Chi ti fa fare più fusa, chi ti esalta, chi ti fa venir voglia di suonare di più? R. Facile: Betsy è la mia musicita preferita! L’ascolto ogni giorno. Faccio rumorose fusa anche mentre sono io a suonare il piano (le faccio a volte anche quando dormo e mi accarezzano la pancia). Il solo fare musica è in grado di eccitare ogni parte di me, come accade ad ogni altro musicista professionista.
Ho anche degli artisti preferiti: innanzitutto Johann Sebastian Bach, un genio. Tutte le volte che ascolto suonare il suo Minuetto in Sol, dal libro di Anna Magdalina, o il dolcissimo, delirante Preludio in Do, o qualunque altra sua brillante composizione, devo correre al piano e suonare, anche se stavo riposando. Sono anche una grande fan di Beethoven, in particolare di Per Elisa. E sono stranamente colpita da Mary Had A Little Lamb.
D. Qual è il tuo genere preferito? R.Sono una musicista classica. Essendo un’intellettuale, non posso che immergermi nella perfezione matematica ed emotiva di questo genere, ma sono aperta a tutti i tipi di musica e di strumenti. Se solo potessi tenere un flauto, proverei a suonarlo: grazie al cielo sono stata adottata in una casa con un pianoforte!
Mi dicono sempre che sembra che suoni del jazz, e sono d’accordo: è facile per me suonare il tritono perché tra il si e il do o tra il mi e il fa non ci sono tasti neri. Per questo mi ascolterete spesso suonare un si e un fa insieme: è un intervallo buonissimo per la mia zampetta. Ma posso anche raggiungere i tasti neri, che aggiungono molto sapore al suono. Preferisco le note sopra il do: sono sempre stata attratta dalle note alte poiché posso ascoltarle molto meglio di quanto non facciate voi umani. Eh già, tutti abbiamo dei limiti da superare nella vita.
D. Sai davvero cosa stai facendo mentre suoni il pianoforte, o suoni a caso? R. Mi prendi in giro? Certo che so quello che faccio. Se guardi i miei video, noterai che spesso nei duetti suono nella medesima chiave in cui suonano gli allievi. Non è un caso: decido davanti a quali note sedermi prima di suonare. Suono anche ritmi diversi e ripeto note da pianissimo a forte e al contrario. Quando l’allievo smette di suonare, anche io termino nel duetto. Ogni volta. Sempre. Quando lui smette, io smetto. Come potrebbe essere un caso?
Una volta, sotto Natale, Betsy insegnava usando il mio piano, così mi sono seduta all’altro e ho suonato: la la la, la la la, la do fa sol la in ritmo perfetto, l’esatta introduzione di Jingle Bells. Quando sono da sola, improvviso. Se Betsy e Burnell entrano per riprendermi, io mi interrompo e salto giù – non mi piace essere interrotta durante momenti di intensa creatività -. A volte utilizzo una zampa per tenere una nota e uso l’ altra per suonarne un’altra, così posso produrre un suono uniforme.
D. Cantare è un’ipotesi? R.Una volta Betsy e Burnell stavano rilasciando un’intervista al piano di sopra, ed io ho cominciato a suonare furiosamente e a cantare (mi piace essere sempre nello «spotlight») miagolando più forte che potevo: nel futuro proverò anche a cantare mentre suono.
D. Ti senti un gatto differente, o un umano differente? R.Mi sento un gatto. Ultimamente mi hanno detto che sono ingrassata: perché la gente comune ha queste aspettative rispetto a una celebrità? Perché bada solo alle apparenze? Noi siamo come tutti. Come Oprah, mi piace mangiare e ho un metabolismo lento. Mi piace stare da sola, o con Betsy. Il mio unico amico è mio fratello Ronnie, i miei fan mi adorano e per me è un piacere essere intervistata da te. Saluto tutti i miei ammiratori italiani e auguro che i loro sogni di tonno divengano realtà. (a cura di Romina Ciuffa)
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SETTIMANA DEL CERVELLO 2019: CHE GENERE E CHE GENDER DI CERVELLO?
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In collaborazione con PSICHELOGIA. Non dovrebbe essere solo una l’anno, la settimana del cervello. Dovrebbero essere 366 giorni, almeno. Ma intanto un passo. Al via dall’11 marzo la Settimana Mondiale del Cervello alla sua quarta edizione, appoggiata dall’Enpap, l’Ente di previdenza e assistenza degli psicologi: 834 eventi in 800 città e oltre mille professionisti psicologi, psicoterapeuti, neuropsicologi, biologi, neuroscienziati, medici, logopedisti, insegnanti, tutti con l’obiettivo di diffondere i benefici e i progressi delle scoperte neuroscientifiche e di “animare il cervello”. La “Brain Awareness Week” nella versione italiana è coordinata dalle psicologhe Donatella Ruggeried Elisabetta Grippa.
GUARDA TUTTI GLI INTERVENTI
Per il presidente dell’Enpap Felice Torricelli, un dato vale la pena sottolineare: “Abbiamo sempre più strumenti che ci consentono di intervenire in maniera efficace per aiutare le persone a vivere una vita di migliore qualità: collaborare in maniera costruttiva e creativa tra professioni diverse mettendo insieme punti di vista diversi sul cervello, che non è soltanto il substrato fisiologico su cui costruiamo la nostra attività fisica, ma è anche un elemento di studio su cui convergono attenzioni da parte di discipline professioni molto varie, a disposizione di tutti per dare più possibilità a una vita piena e più dignitosa”.
Felice Torricelli, presidente dell’ENPAP
Federico Zanon, vicepresidente ENPAP
Molta attenzione è data al genere, nelle sue varie declinazioni: orientamento sessuale, coppie di fatto, discriminazioni, rapporti donna-ricerca. Federico Zanon, vicepresidente dell’ente di previdenza, spiega:
“La ricerca scientifica sulla psicologia delle differenze di genere sta aiutando a fare luce sulle reali caratteristiche che differenziano uomini e donne, differenze che sono molto lontane dagli stereotipi popolari su cui si fondano le gravi discriminazioni di cui la nostra società purtroppo è ancora intrisa. Queste discriminazioni, purtroppo, hanno effetti tangibili e molto concreti: dal gender pay gap alle difficoltà che le donne incontrano nel mondo del lavoro. Contiamo che la psicologia e i suoi risultati scientifici possono giocare un ruolo determinante nei prossimi anni per un’evoluzione sul piano dell’eguaglianza e dei diritti civili, e contro ogni forma di discriminazione basata sul genere e sull’orientamento sessuale”.
Istituita nel 1996 dalla Dana Alliance for Brain Initiatives, in corso ogni anno a marzo, la campagna italiana “La Settimana del Cervello” è organizzata e coordinata da Hafricah.net, portale di divulgazione neuroscientifica partner della Dana Foundation e creato da Donatella Ruggeri, psicologa e coordinatrice dell’evento.
Le psicologhe Elisabetta Grippa e Donatella Ruggeri
Dal 2007 Hafricah.net funge da anello di congiunzione tra il mondo accademico e il pubblico interessato all’argomento. Di anno in anno, sono cresciuti i consensi e le iniziative offerte ai cultori della materia e ai cittadini. Rispetto all’edizione precedente, quella del 2019 interessa tutte le Regioni (erano 19 nel 2018), gli eventi e i momenti di incontro sono 234 in più, e i professionisti impegnati sono passati da 600 a 1.139.
In questa edizione, come sottolinea la psicoterapeuta Elisabetta Grippa, è stato introdotto anche il Progetto Scuola, curato da Giorgia Marziani e Nicoletta Agostinelli e dall’Associazione Calliope. Il progetto ha vinto un prestigioso premio di riconoscimento da parte della Federation of European Neuroscience Societies (FENS), volto a dare a bambini ed adolescenti, attraverso un opportuno linguaggio, nuove conoscenze scientifiche, e inserendole in un apposito eBook di teorie e attività da svolgere in classe. Oltre ad offrire momenti dedicati alla conoscenza, nelle scuole potranno essere effettuati screening sulle abilità dell’apprendimento, per l’identificazione precoce dei DSA (disturbi specifici dell’apprendimento).
Da destra a sinistra: Federico Zanon, vicepresidente ENPAP, psicologo; Felice Damiano Torricelli, presidente ENPAP, psicologo; Antonella De Minico, moderatrice; Donatella Ruggeri, psicologa e UX designer, coordinatrice nazionale Settimana del Cervello; Elisabetta Grippa, psicologa, coordinatrice nazionale della Settimana del Cervello
“La figura dello psicologo è vicina ai bisogni delle persone, diffonde conoscenza–specifica Grippa–. Cominciare a compiere quest’opera già a partire dalla giovane età aiuta ad avere consapevolezza nelle scelte quotidiane, ad attuare decision making, a riconoscere le notizie vere da quelle false mettendole in discussione aldilà di pregiudizi e stereotipi. Perché la conoscenza rende liberi, più riflessivi e più inclini al pensiero critico”. Aumentano anche le possibilità di effettuare screening cognitivi per gli adulti, promossi con un protocollo uguale in tutta Italia e coordinati dalla Scuola di specializzazione in Neuropsicologia del Dipartimento di Psicologia dell’Università LaSapienza di Roma, che ha dato all’evento il patrocinio istituzionale.
Michela Balconi, coordinatrice del progetto dell’Unità di ricerca in Neuroscienze sociali e delle emozioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
È inoltre introdotto il paradigma dell’hyperscanning: cosa accade nel nostro cervello e in quello dell’interlocutore quando iniziamo a interagire durante una conversazione e in che modo ci si sintonizza? Non più l’attenzione ad un cervello, bensì a due, in interazione, in una neuroscienza “a due persone”. Tema che trova applicazione utile in diversi settori, sociale, aziendale, clinico e riabilitativo, a cui risponde la professoressa Michela Balconi, coordinatrice del progetto dell’Unità di ricerca in Neuroscienze sociali e delle emozioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
“Divulgare, diffondere, oggi, vuole anche dire utilizzare i social network“, sottolinea la Ruggeri. L’edizione 2019 della Settimana del Cervello è anche online e sui social. In rete sono state lanciate due campagne: #chegeneredicervello e #ricerchepazze. La prima indaga sulle innegabili differenze tra cervello femminile e maschile, sottolineando come queste differenze siano un punto di forza e non un motivo per continuare ad alimentare gli stereotipi di genere; la seconda si propone di intrattenere il pubblico raccontando alcuni tra gli studi neuroscientifici più stravaganti.
Iscrivendosi alla newsletter del sito www.settimanadelcervello.it si può ricevere l’eBook “Share some Lobe”, ricco di informazioni scientifiche sul personaggio Mr. Brain (link diretto per iscrizione alla newsletter: http://bit.ly/2GYMOtf).
La settimana terminerà, ma l’auspicio è che il cervello non faccia la stessa fine. (ROMINA CIUFFA)
JURACY: EPOCA “JURASSICA” DEL BRASILE A ROMA
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Fino a poco tempo fa Roma era un altro Brasile. Solo chi c’era, chi lo ha vissuto, sa cos’era; chi è arrivato dopo, è arrivato dopo la partenza di troppi brasiliani che hanno fatto la storia della brasilianità romana, fuggiti, nella gran parte dei casi, perché l’Italia non aveva, né ha, più alcunché da offrire. Uno di costoro è Luis Juracy Rangel Lemos: astrofisico, malandro, sambista. 5 anni a Roma per un dottorato in Astrofisica relativistica, nel 2012 torna in Brasile e con lui va via un pezzo di «riomanità» pura, pirandelliana, nella quale ogni samba costituisce un pezzo di poesia d’autore. L’epoca “jurassica” è terminata. Oggi è di passaggio a Roma per le sue ricerche “interplanetarie”. Pubblicammo, alla sua partenza, un cartaceo interamente dedicato a lui (oggi al link http://www.scribd.com/doc/86905581/RIOMA-1-Juracy-lampo-di-raggi-gamma) per spiegare, a tutti coloro che lo avevano conosciuto o ne avevano sentito parlare, chi è Juracy: lo riproponiamo, per aggiornarlo nel futuro prossimo con il prosieguo sella sua storia e la descrizione di molti altri dei brasiliani che hanno collaborato a rendere Roma… Rioma.
RODA PLANETARIA
La gente dice: È matto. Oppure: Vive in un mondo di fantasia. O ancora: Come può confidare in cose prive di logica? – ma il guerriero continua ad ascoltare il vento e a parlare con le stelle.Paolo Coelho (da Manuale del guerriero della luce) qui sembra descrivere Juracy. Di lui si dice «è matto»: vederlo per anni nel suo completo bianco da malandro non può che condurre un osservatore superficiale a tale conclusione. Vive in un mondo di fantasia ogni qualvolta, mentre suona un samba, Juracy si ferma, mi prende l’orecchio e comincia a descrivere tutta la storia della singola composizione: l’autore, il racconto, il momento storico, e vi aggiunge finanche considerazioni personali. Fantasia perché, ad un tratto, nei suoi insight proietta fuori di sé tutte le stelle che ha dentro e invita a guardarle. Juracy è quello che, durante un samba, mi ha spiegato tutta la sua tesi di laurea in Astrofisica partendo da un discorso sulla linguistica e, con estremo rigor di logica, giungendo alle statistiche del cosmo. Poi torna a sambare nella sua Malandragem personale, totale: l’essere Juracy significa un cosmo nel quale i pianeti si riuniscono attorno a un cerchio, il Sole, per danzare un samba luminoso, vera e propria roda interplanetaria.
JURACY, LAMPO DI RAGGI GAMMA «Il segreto non è prendersi cura delle farfalle, ma prendersi cura del giardino, affinché le farfalle vengano da te. Alla fine troverai non chi stavi cercando, ma chi stava cercando te» (Farfalle, Màrio Miranda Quintana, poeta delle piccole cose). È questa la chiosa iniziale che scelgo per parlare di Luis Juracy Rangel Lemos. C’è un motivo. Non è trascorso giorno in cui Juracy non abbia ricordato a tutti l’importanza della poesia e della cultura brasiliana, dell’approfondimento, dell’analisi. Guardare al cielo – un astrofisico lo fa – rende ciò che è lontano vicino, esperibile.
La cultura è una stella. Lo si capisce anche solo dalla risposta ad una domanda semplice: come ti chiami? «Luis era il nome del mio nonno materno, Juracy il nome di mio padre; Rangel il cognome di mia madre, venezuelana, Lemos di mio padre, paulista. Il nome Juracy deriva dalle lingue indigene Tupi-Guarani e significa persona che fa del bene». Non solo. Specifica: «Sono nato negli Llanos venezuelani il 27 marzo 1980. Mio nonno materno è originario della Cordigliera delle Ande, vicino a San Cristobal, alla frontiera con la Colombia; mia nonna materna nacque su un’isola caraibica, Margarita. Mia nonna paterna è originaria del sertão pernambucano, discendente da un olandese e un’indigena. Mio nonno paterno era un alagoano mulatto dell’Agreste. Fu un importante leader nella regione del Pontal do Paranapanema contro lo sfruttamento dei contadini; venne ucciso dalla polizia del dittatore Getulio Vargas nel 1953. Mio padre aveva solo 4 anni».
Astrofisico, in Italia dal 2006 con una borsa di studio, Juracy ha discusso la propria tesi di dottorato il 15 dicembre 2011 ed è tornato in Brasile, dopo essersi reso noto nel panorama romano. Approfondire le origini di un «cittadino del mondo», come si definisce, è essenziale per capirne l’essenza, quella che lo ha portato a guardare il cosmo da Roma. Il padre di Juracy studiò Fisica a Mosca tra il 1970 e il 1976. Per la presenza su territorio brasiliano della dittatura militare, proveniendo da una famiglia di sinistra, ritenne più sicuro il Venezuela, dove nel 1976 vi si recò ad insegnare Fisica. «Fu lì che conobbe mia madre, dando lezioni di fisica, e lì che si sposarono ed ebbero tre figli (le mie due sorelle, una del 1977, l’altra del 1981). Nel 1986 mio padre trovò lavoro a Boa Vista, capitale dello Stato di Roraima, vicino alla Foresta Amazzonica». Questo Stato ha circa 200 mila abitanti su una dimensione poco inferiore all’Italia.
Juracy nuota negli igarapés, i corsi d’acqua amazzonici. La regione è abitata da un insieme di etnie differenti: «Ho imparato il portoghese con i figli degli immigranti». Dopo 6 anni e mezzo, suo padre ottiene un lavoro al Cefet (Centro Federal de Educação Tecnológica) di Paraná, a sud, più precisamente a Medianeira, al confine con l’Argentina e il Paraguai, freddo d’inverno sotto zero, abitato da discendenti europei, fondamentalmente tedeschi ed italiani del nord. Una delle terre più fertili del mondo, oggi ancora di stampo prevalentemente agricolo, prima dominata da una foresta molto fitta, la Mata Atlântica. «Il Paraná è uno Stato molto ricco. Presi parte al movimento studentesco della scuola superiore finché, nel febbraio del 1999, non mi recai a studiare Fisica nella UFSCar, l’Università federale di São Carlos, all’interno dello Stato di São Paulo», secondo l’Enade (Exame Nacional de Desempenho dos Estudantes) la migliore università del Paese. L’esperienza è molto positiva, il modello prende spunto da quello nord-americano: «Una interazione incredibile, campionati sportivi oltre le aspettative, finanche un campionato di Fisica».
Nel febbraio del 2004 Juracy inizia un dottorato in Cosmologia presso l’Osservatorio di Valogno, all’interno del Dipartimento di Astronomia dell’Università federale di Rio de Janeiro. «I due anni e mezzo trascorsi a Rio hanno costituito i momenti più intensi della mia vita. Una città estremamente violenta, nel contempo meravigliosa: la natura, le spiagge, la gente, le rode de samba, il teatro e milioni di altre qualità. Fu a Rio che iniziò la mia passione per il samba, nei locali senza amplificazione, nelle rode attorno ai tavoli, nelle strade, mai dimenticando di cantare i samba più antichi come si chiedessero benedizioni per i loro stessi compositori; i duelos versados, duelli di improvvisazione; i testi profondi, le tematiche forti – amore, politica, storia, valori, satira -. Tutto questo catturò la mia attenzione. Allora capii l’importanza della cultura popolare e come la sua conservazione sia necessaria al benessere di un popolo».
Il 17 ottobre del 2006 Juracy parte per l’Italia con una borsa di dottorato in Astrofisica relativistica nell’Università La Sapienza. A Roma arriva solo il 17 dicembre: prima trascorre un mese a Pescara ed uno a Parigi. Studia il fenomeno del Gamma Ray Burst, l’esplosione di raggi gamma, intensi lampi che possono durare da pochi millisecondi a diverse decine di minuti. Queste potenti esplosioni di GRB costituiscono il fenomeno più energetico finora osservato nell’universo. «Ancora non siamo riusciti a spiegarci come sono prodotti».
Il primo anno a Roma è anche l’anno della scoperta della musica italiana, principalmente Fabrizio De Andrè e il genere della pizzica. «Eppure con il tempo, il samba è tornato ad essere la mia valvola di fuga per uccidere la saudade della mia terra. In Europa ho appreso almeno l’80 per cento di tutto ciò che so del samba stesso. Ma in Italia ho studiato anche la storia europea, quindi quella cinese, ed ho conosciuto più di 10 Paesi europei e, tra le altre, le città Dublino, Istanbul, Barcellona e Stoccolma. Credo che il livello dell’università italiana sia molto elevato, sebbene abbia io stesso assistito al crollo della sua qualità, dovuto probabilmente ai Governi che si sono susseguiti e alle continue crisi che non fanno che portare con sé verso il basso tutto il sistema didattico».
Ma la chiosa finale è sempre di Quintana: «Non so cosa vogliono da me questi alberi, questi vecchi angoli di strada, da essere così miei solo guardandoli un istante.»
MALANDRO
Il sambista è un personaggio classico brasiliano, caratterizzato da un’attitudine furba; negli anni 30 e 40 ad esso ci si riferiva con il termine di malandro, figura somigliante al Casanova italiano, uomo non sposato che possiede molte donne, non lavora eppure ha sempre denaro, spesso vinto al gioco; lo mantengono le donne e la musica. Ha sempre la meglio. Indossa un completo bianco e un cappello Panama e cammina dondolando con una navalha de barbear in mano (il rasoio di barbiere). Oggi «malandro» costituisce quasi un titolo nobile. Esempio della Malandragem carioca è il cantautore Bezerra da Silva.
Malandragem: Define-se como um conjunto de artimanhas utilizadas para se obter vantagem em determinada situação (vantagens estas muitas vezes ilícitas). Caracteriza-se pela engenhosidade e sutileza. Sua execução exige destreza, carisma, lábia e quaisquer características que permitam a manipulação de pessoas ou resultados, de forma a obter o melhor destes, e da maneira mais fácil possível. Contradiz a argumentação lógica, o labor e a honestidade, pois a malandragem pressupõe que tais métodos são incapazes de gerar bons resultados.
NASCE WEDŌ LABEL, L’ETICHETTA DI MUSICA COPERNICANA
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Presentazione: Cortile Cafè (Via Nazario Sauro 24/A), Bologna – lunedì 26 novembre 2018 h 21.30
Sarà presentata, lunedì 26 novembre alle ore 22 negli spazi dello storico Cortile Cafè di Bologna, la nuova etichetta indipendente WEDŌ ma anche “social”, nata dall’ingegno di Francesco Maria Gallo, comunicatore cresciuto negli ambienti del DAMS di Bologna, allievo di Umberto Eco e seguace di Luciano Nanni, nonché cantautore e musicista. Con lui nel team la giornalista, editrice e scrittrice Romina Ciuffa, tra le prime cantautrici ad essere prodotta dalla label (qui di seguito il link ai tre estratti dell’album in uscita, “Sandra e Raimondo”, “Pellicine” e “Su un filo di imene“: PLAYLIST @ https://www.youtube.com/watch?v=cwP1fJZqbd8&list=PLP32VaNlelOr0D1ezijG2hXtqjMGw98al).
Il nome WEDŌ significa tante cose e, tutte, con o senza trattino, spiegano il significato del progetto. “We do” in inglese significa “facciamo”, perché questo è un fare: fare musica. “Do” in italiano indica il dare: dare musica. Il trattino di WEDŌ è inserito di proposito per distinguerlo dalla connotazione inglese, perché si legga come il “do”, la nota musicale. Ma non solo: dō, nel linguaggio kanji giapponese, significa “ciò che conduce”, nel senso di disciplina vista come via, percorso, cammino, in senso fisico e spirituale. In latino, l’interiezione “ō!” esprime altresì un’ampia gamma di emozioni: gioia, dolore, desiderio, ammirazione, stupore. Un’invocazione, un’esclamazione, l’unione degli opposti, il disco del sole e della luna.
Dischi: sono quelli che, insieme a Mauro Alberghini, conduttore radiofonico di Radio Città del Capo, saranno presentati in prima nazionale durante l’evento, trasmesso in diretta nazionale radio e video. Si esibiranno dal vivo i primi prodotti selezionati fra moltissimi dai talent scouter di WEDŌ: oltre agli stessi Francesco Maria Gallo e Romina Ciuffa in veste di produttori ed artisti, lo spagnolo Jay The Truth, con un brano che scivola dialetticamente tra spagnolo, inglese e spagnolo senza soluzione di continuità, il quale non rivela il proprio volto per scelta personale e, pertanto, il suo brano sarà presentato dalla performance di danza contemporanea di Laura Ulisse. Quindi i volti scoperti della neonata label: Nicoletta Noè, Andrea Mazzacavallo, Honey & Red Wine (Lisa Maria Gelhaus e Max Marchetti feat. Claudio Vignali), Tiziana Scimone, Le anime leggere (Nicola Bagnoli e Tiziano Tarli) e il già noto Legality Band Project (Francesco Maria Gallo, Filippo Lambertucci, Manuel Goretti, Daniele Raffaelli e Agostino Raimo).
Mauro Alberghini, Radio Città del Capo
WEDŌ non è solo un’etichetta discografica o un produttore. Canale digitale della nuova frontiera della musica emergente e indipendente, sviluppa offerte modellate sulle esigenze specifiche del pubblico e coglie le opportunità di ampliare il pubblico potenzialmente raggiungibile. Rappresenta una vera e propria rivoluzione copernicana, perché equivale all’individuazione di tutta quella nuova generazione di compositori, autori, cantautori ed interpreti, che in tutto il mondo, attraverso il social WEDŌ, interagiranno con i loro follower condividendo le proprie produzioni: l’un con l’altro incrementeranno la conoscenza, la diffusione, la vendita e lo streaming di un prodotto di qualità, altamente selezionato dal principio. Non è un mescolone, è una selezione. La selezione di quelli bravi, o di quelli che a WEDŌ piacciono. Questo sistema di sharing people tra artisti indipendenti stima una community in un anno di oltre 4 milioni di utenti in Italia e 15 milioni di utenti in Europa.
Francesco Maria Gallo
WEDŌ è anche una piattaforma che, attraverso una serie di servizi trasversali (videointerviste, live streaming di house concert, videoclip, raccolta di partiture e booklet, mappatura di autori indipendenti nel mondo, geolocalizzazione dei concerti indie, geolocalizzazione dei compositori) offre opportunità di migliorare l’engagement digitale degli appassionati della musica emergente e indipendente. Il team WEDŌ sfrutterà la molteplicità relazionale della piattaforma digitale per promuovere le produzioni in-store, allestendo, di volta in volta, specifiche campagne marketing interattive attraverso cui aumentare e implementare nel mondo social il coinvolgimento diretto degli appassionati prima durante e dopo della pubblicazione del prodotto digitale.
E poi me saltate addosso,
ed il coup de foudre provate,
e poi confessate “giuro,
ch’a livelli de ‘sti qua
a me nun m’era successo”,
e poi “sesso?”.
E “de soldi te ricopro” ieri m’ha detto,
aggiungendo pe’ da’ effetto:
“te regalo la barca, te regalo” (quanto affetto),
ed ancora domandate “ce sta tu marito in sala?”
quando non
“un figlio io, co’ te, lo farei mo’:
verrebbe un genio pensa ‘n po’,
pensace n’attimo (intanto abbraccico)”.
Io ‘n ‘ce penso, ma ce sudo e ce risudo,
poi ce tremo:
DNA ridotto a stremo.
Puntualmente
ve rispondo a tutti quanti,
cortese, con l’occhi mia ingranati,
appesantiti dall’insonnia
della rogna:
ve prego, ve supplico, nun je la faccio più,
lo sento dire almeno ducento volte ar giorno
– “t’amo e t’orno” –
e voi me dite seri: “ammazza, umile”,
ma continuate a far fraseggio stabile
e filosofico buttato là,
che a me me suona come “blablabla”
privo di ogni fondamento.
Così me chiudo in casa,
ASAP sola me potenzio
e penso:
daje, quanto è bello sto momento,
qui che al massimo c’è ‘r vento.
Ma chi esce, ma chi trama,
perché ‘nse sta zitto e m’ama? In silenzio,
pe’ poi fassela passa’
perché io del còre altrui nun vojo traccia
né minaccia:
voi gestiteve l’infarto,
e io so’ bona con la testa non col còre,
ché pe’ córe
come ‘na maratoneta
c’ho ‘no squarto.
Voi teneteve l’infarto,
che io amo solo lei, solo lei,
che so’ anni che è la mia
e non è l’anomalia
che me ripetete invano.
Voi teneteve l’infarto,
che io amo solo lei, solo lei
che da sempre è stata mia:
amo la bradicardia.
da BLABLAMIND, il Forum di Psicologia e Coaching @ www.blablamind.com. Apprendo che le università straniere (qui e là) tengono corsi di «Happiness», felicità. Anche online. Spesso le classi fisiche sono troppo piccole per i fruitori, e si verifica un «overbooking». Risponderò qui alle varie domande che possono spontaneamente o meno porsi, tra cui: la felicità è davvero insegnabile? Che ontologicamente fa rima con: la felicità è standardizzabile? Che nel marketing fa rima con: ci fregano?
Intanto una panoramica. Potrebbe pensarsi che tutto giunga dalla malfamata America, che vende anche la «madre d’artista» ai suoi figli. Ma leggo che anche, tra le altre, l’Università di Abu Dhabi (ADU) ha inaugurato, nei campus di Abu Dhabi e Al Ain, un corso di Introduzione alla Felicità e alla Psicologia positiva, in quanto «in linea con il programma di salute pubblica dell’università». Esso si concentra su definizioni, principi, strategie e implementazioni delle tematiche in oggetto, sul lato ottimistico della natura umana, sui modi più efficaci con cui gli individui possono raggiungere pieno potenziale. Deena Elsori, capo del Dipartimento di Scienze applicate e Matematica, ha dichiarato: “Il corso sulla felicità è un risultato fruttuoso di numerosi workshop e programmi di formazione rigorosi per i membri della nostra Facoltà sul concetto e sulla nozione di felicità”.
Università di Abu Dhabi (ADU)
C’è un MOOC (Massive Open Online Courses) anche in California, Università di Berkeley, dal nome “The Science of Happiness”: esso insegna la scienza rivoluzionaria della psicologia positiva, che esplora le radici di una vita felice e significativa. Gli studenti si impegnano, da gennaio 2018, in lezioni provocatorie e pratiche, sperimentando come la ricerca all’avanguardia possa essere applicata alle loro vite. Creato dal Greater Good Science Center dell’Università, il corso si concentra su una scoperta fondamentale della psicologia positiva: quella felicità è inestricabilmente legata a forti connessioni sociali e alla possibilità di contribuire a qualcosa di più grande di sé. Inoltre, offre agli studenti strategie pratiche per coltivare la felicità, quali provare diverse attività sostenute dalla ricerca che favoriscono il benessere sociale ed emotivo ed esplorare come la felicità cambi lungo la strada. I docenti Dacher Keltner ed Emiliana Simon-Thomassono noti nel settore della psicologia positiva; a loro si uniscono esperti di empatia, consapevolezza, gratitudine ed altro, quali Barbara Fredrickson, Paul Ekman, Sonja Lyubomirsky e Jon Kabat-Zinn.
Paul Ekman
Harvard non è da meno: Tal Ben-Shahar tiene uno dei corsi più popolari che l’Università di Boston (Massachusetts) abbia mai offerto, “How to get happy”, e si concentra su ciò che rende le persone felici piuttosto che sulle loro patologie. Gratis. Perché i soldi non possono comprare la felicità. Anche il corso “Happiness 101” di Yale (New Haven, Connecticut) è disponibile gratuitamente. Nell’ultimo semestre ben un quarto degli studenti di tutta Yale si è iscritto alla materia di “Psychology and Good Life”, in un numero di circa 1.200: la più grande iscrizione registrata per una singola classe nella storia di 317 anni della Yale University.
Me compresa. Mi sono appena iscritta. Mi sono chiesta, infatti: chi altri – oltre Yale, se non Yale – può avere la possibilità di rendermi felice? Così ora sono invischiata in 10 settimane di attento studio della mia felicità, cercando di deviarlo dalla concentrazione su: situazione sentimentale, vita sessuale, relazioni sociali, lavoro, famiglia, soddisfazione, salute, benessere, e buttandomi a capofitto sui libri.
Dopo aver – per anni e tuttora – rigettato coloro che propinano (costosi) manuali e lezioni di felicità senza scientificamente dimostrarmi:
il rigore del metodo;
l’analisi diagnostico-statistica che ne dovrebbe costituire il fondamento;
la loro felicità (evidenze probatorie oltre a foto di famiglia e corse sulla spiaggia col cane),
ho creduto e credo che – per la natura della mia struttura culturale e cerebrale – siano necessari:
un diploma universitario (quattro lauree, che ho, mi hanno reso già felice in effetti, per il sol fatto di progredire nella conoscenza);
la copertura della terza più antica istituzione di istruzione superiore negli Usa nonché di uno dei nove college coloniali istituiti prima della rivoluzione americana;
il fatto che la professoressa Laurie R. Santos sia una mia coetanea. Quindi “sa”.
Laurie Santos, Yale University, durante una lezione di “Felicità”
Passo subito a lei. Nata nel 1975, anche professoressa di Psicologia e Scienze cognitive a Yale, nella sua “monkeynomics” (economia delle scimmie) esplora le origini evolutive della mente confrontando le capacità cognitive di umani ed animali e testando i problemi della psicologia umana sui primati, le cui irrazionalità sono spesso (e non volentieri) a noi comuni. Direttrice del Canine Cognition Lab di Yale, è oratore TED (marchio di conferenze gestito dalla Sapling Foundation) ed è stata inserita dalla rivista Popular Science tra le giovani menti “Brilliant 10”del 2007, e dalla rivista Time nei “Leading Campus Celebrity” del 2013; nel giugno 2016 è stata messa a capo del Silliman College, una delle 14 università residenziali a Yale. Lo scopo del suo corso non è solo imparare cosa secondo la ricerca psicologica renda felici, ma insegnare a mettere in pratica strategie: la sua prima parte rivela l’erroneità di idee sulla felicità e le caratteristiche fastidiose della mente che portano a pensare come è comune pensare; la seconda si concentra su attività che hanno condotto a un aumento della felicità e su strategie per costruire abitudini migliori.
Yale University, New Haven
L’ho ascoltata. Ritiene che il corso sia necessario: gli studenti di Yale non sono davvero felici, dice. Devono mirare alla big picture, una visione a 360 gradi. Dopo aver terminato l’intero percorso, gli studenti potrebbero (lei dice dovrebbero) essere in grado di mettere in pratica le nuove conoscenze/competenze.
Se chiedi alle persone se sono felici, solitamente esse non si sentono a proprio agio nel rispondere, fa notare.
Come possiamo mettere la felicità sotto un microscopio? Afferma: ciò è possibile. Se potesse correggere una comune credenza erronea, la dottoressa Santos si concentrerebbe sulla seguente: si è soliti pensare che il cervello sia in grado di darci informazioni accurate su ciò che davvero vogliamo. Il punto più delicato, qui, è nel ritenere che alcune cose possano renderci felici, senza badare alle altre, che possono invece essere stabilizzate con la pratica. Ciò che noi riteniamo di volere, in realtà semplicemente non lo vogliamo. O possiamo non volerlo.
L’esempio che riporta è quello classico: il salario. È vero, può aiutare un po’. È qualcosa che crediamo in grado di renderci felici ma che, di fatto, non ci avvicina minimamente alla condizione sperata. La domanda da porsi è: per cosa vale davvero la pena vivere? Eppure, sapere approssimativamente ciò che può procurare la felicità non è la soluzione finale. Possiamo immaginare che lo stipendio non ci renderà felici, e sapere che la meditazione aiuta, ma fino a che non si mettano in pratica tali consapevolezze nulla accadrà, niente cambierà. Il corso prepara a questo: attuare ciò che si studia e si impara, durante lo svolgimento del corso stesso. Rivedere le proprie abitudini. Gli studenti non dovranno solo impegnarsi nello studio, ma anche e soprattutto nell’azione.
Quando a Laurie viene domandato: “Se oggi avesse 90 anni, cosa vorrebbe sapere del suo passato?”, lei risponde: “Credo vorrei comprendere ciò che sta accadendo al nostro Paese in questo momento. Politica ed altro. Non so dire dove tutto ciò ci stia portando. Se avessi una palla di vetro e potessi chiedere alla mia futura me ‘cosa è accaduto?’, vorrei conoscere gli effetti delle azioni attuali sul nostro domani”.
A proposito dei suoi studenti di Yale, afferma: “Hanno molte esigenze. Mi rendono fiera perché si domandano cosa è giusto e cosa non lo è, ne ammiro gli elevati standard di giustizia sociale e ritengo che la loro identità debba essere protetta. Ciò che è frustrante, invece, è che li vedo perdere a Yale molto del loro tempo, ad esempio tra fogli e burocrazia, mentre potrebbero utilizzare tali ore per passeggiare, conversare con nuove persone, pensare. Non hanno il tempo per godere di questo spazio, e temo che fra 20 anni un giorno si sveglieranno e, ricordando il passato, si porranno questa domanda: a cosa stavo pensando allora? Vorrei scuoterli oggi e dir loro: divertiti, godi di questi giorni o li perderai!“
Perché gli studenti dovrebbero iscriversi a questo corso? “Questa è una domanda facile”, replica. “Il mio campo di studio si pone una domanda: cos’è l’essere umano? Come dovremmo vivere la nostra vita? Sono domande che l’uomo si fa sin da quando è umano. Noi abbiamo il modo scientifico per rispondere a questo, siamo fatti per rispondere a tale interrogativo”.
Sono tre le ragioni che hanno portato la docente di Psicologia dell’Evoluzione ad aprire questa finestra universitaria sulla felicità.
La prima: The science of Psychology has lots of new insights.La psicologia ha molte nuove intuizioni, il Governo può spingere le persone al cambiamento con programmi accurati, e, di fatto, essi sono funzionali e funzionanti anche grazie al progresso delle scienze psicologiche.
La seconda: We need these insights pretty badly.Abbiamo un assoluto, estremo bisogno di tali intuizioni e suggestioni. Secondo uno studio del 2013, gli americani sono il popolo più infelice del mondo. Sono prescritti farmaci contro la depressione in proporzione di 400×1 rispetto a quanto avveniva 20 anni fa, specifici gruppi sono sempre più infelici e spesso di essi fanno parte i laureati. Da cui il secondo corollario della seconda ragione: Yale students need these insights pretty badly.Gli studenti di Yale hanno un assoluto, estremo bisogno di tali intuizioni e suggestioni.
La terza ragione, quella più “personale”: I need these insights really badly too. Io stessa ne ho bisogno. Ossia, è la stessa docente a fare coming out. “Non voglio che si pensi che io abbia raggiunto tutti i miei traguardi: non è così. Sono solo a metà strada”.
Aggiunge: “Potreste pensare che la professoressa del corso di Felicità sia felice come un emoticon a faccina contenta (lo mostra ai suoi studenti durante la lezione). E che vada in giro tra gli studenti di Yale a dire: ragazzi, voi siete tristi, io vi renderò felici quanto me! Ebbene, non è vero”.
Personalmente, solo ad ascoltare Laurie sto meglio. Finito il corso di dieci settimane, darò mie notizie in tema di felicità. (ROMINA CIUFFA)