ERTHARIN COUSIN: ONU, INSIEME A OBAMA PIANTIAMO SEMI PER SFAMARE IL MONDO

Ambasciator non porta pena, è detto. Ma una pena ce l’ha Ertharin Cousin, rappresentante permanente degli Stati Uniti presso le Agenzie dell’Onu: la fame nel mondo. Il World Food Programme, in italiano Programma Alimentare Mondiale, è stato istituito nel 1963 con sede in Italia, a Roma, e costituisce il braccio operativo del sistema delle Nazioni Unite per gli aiuti alimentari. Tra gli obiettivi di sviluppo del millennio che le Nazioni Unite si sono prefissate di raggiungere entro il 2015, dimezzare la percentuale della popolazione colpita dalla fame nel mondo è diventato prioritario e per raggiungerlo l’ambasciatrice è giunta a Roma, inviata personalmente da un suo vicino di casa: Barack Obama. Lui stesso le chiese, durante un party natalizio tra amici, di portarlo alla presidenza.

Domanda. Sembra che da sempre sapesse dove dirigere le sue energie. Qual è stato il filo conduttore della sua vita?
Risposta. Ho iniziato con naturalezza la carriera forense, che ho proseguito per 30 anni, una decisione mossa da un unico desiderio: quello di aiutare gli altri. Mio padre era un attivista operante per i diritti civili nella nostra comunità a Chicago, nel West Side, mia madre un’operatrice sociale. Ci hanno cresciuti insegnandoci l’impegno per la comunità, così fu per me molto naturale decidere di divenire un avvocato. Cominciai a Chicago, praticando il Community Law e occupandomi soprattutto di violenze domestiche e di problemi tipici di uno stato di povertà. Il passo successivo fu l’Onu, mi occupavo non dell’organizzazione bensì dei singoli membri. Era il 1983 quando Chicago elesse per la prima volta un sindaco afroamericano, Harold Washington, un momento di assoluta importanza per la storia della nostra città. Avevo lavorato per la sua campagna elettorale, e mi occupai di quella di Jesse Jackson nelle elezioni presidenziali statunitensi del 1984. In quelle occasioni ebbi modo di ampliare i miei orizzonti e ottenni l’opportunità di occuparmi di altre campagne e di divenire direttore degli uffici regionali del Segretario generale dello Stato dell’Illinois e direttore del Chicago Ethics Board. Quindi mi avvicinai al settore privato, nel ruolo di qualità di direttore degli Affari governativi per la compagnia telefonica AT&T. In quel periodo Bill Clinton si candidava alle presidenziali, vincendole, e mi fu richiesto di lavorare per il suo team, così mi trasferii a Washington; avevo studiato International Law and Policies con l’ex Segretario di Stato Dean Rusk ma, devota al lavoro di comunità, non avevo mai pensato che avrei potuto usare tali competenze allo stesso fine. Mi sentii molto onorata quando la Casa Bianca mi chiese di lavorare per il Ministero degli Esteri.

D. È rimasta per molto tempo alla Casa Bianca?
R. Ho seguito le attività di Hillary Clinton in Cina, per la Conferenza sulle donne, per poi occuparmi nel 1996 delle operazioni per la campagna presidenziale Clinton-Gore. Dopo la vittoria fui nominata vicepresidente degli Affari governativi, comunitari e politici, ma soprattutto, dal 1997 ho lavorato per il Board for International Food and Agricultural Development, ente che assiste i progetti agricoli dell’Agenzia per lo Sviluppo internazionale, quindi per il Jewel Food stores, una compagnia con 35 mila impiegati, fino a divenirne vicepresidente per gli Affari pubblici. Le soddisfazioni economiche derivate dall’impiego nel settore privato non mi bastavano. La mia domanda è sempre stata una: cosa posso fare per rendere la vita degli altri migliore? Così nel 2002 sono entrata a far parte dell’America’s Second Harvest, oggi Feeding America, la più grande organizzazione americana per la fame, che sostiene le oltre 200 banche del cibo nel Paese. Durante quel periodo ci siamo impegnati a portare il cibo nelle zone colpite dall’uragano Katrina, e quell’esperienza mi ha fatto capire quale fosse il mio dono, aiutare gli altri. Quindi ho cominciato a lavorare per aiutare varie organizzazioni americane non profit, sviluppando gli accordi necessari alla loro sopravvivenza. In questo modo ho capito che senza il settore privato queste organizzazioni non avrebbero futuro, e ho appreso a mettere a punto le partnership appropriate, che è il know-how che ho portato con me in questa esperienza di ambasciatore dell’Onu.

D. Quando è entrata a contatto con l’attuale presidente degli Usa?
R. Nel Natale 2006 ho incontrato per caso, in una festa dei vicini, il senatore Barack Obama che mi ha detto: «Sto pensando di farlo, e vorrei che lei mi aiutasse». Io risposi: «Se si candiderà, io ci sarò». Capii subito, quando genericamente disse «farlo», che si riferiva alla corsa per le presidenziali. Ho partecipato in gennaio ad un incontro più ufficiale e sono divenuta consulente senior della sua campagna. Inizialmente nessuno pensava che avrebbe vinto. Con i Clinton avevo lavorato molto, e avrei di certo appoggiato Hillary se Barack, che è un amico e un vicino, non me l’avesse chiesto, ed è stato impossibile per me dirgli di no. Ho così informato il team Clinton che avrei seguito Obama e loro, consapevoli del fatto che provengo dall’Illinois, sono stati comprensivi. Li ho rassicurati che non avrei mai compiuto alcunché potesse ledere la loro campagna, e così è stato. Abbiamo lavorato duramente. Quando iniziammo, nessuno conosceva Barack Obama se non dal discorso che tenne al Congresso, che ricordo come il giorno più freddo mai avuto nell’Iowa. Più avanti era molto chiaro che avrebbe vinto, poiché il suo messaggio cominciò ad essere ascoltato in tutto il Paese, ed io iniziai a chiedermi cosa avrei voluto fare in tal caso.

D. Come avvenne lo spostamento dagli uffici presidenziali verso l’ambiente diplomatico degli aiuti?
R. Una volta eletto, informai il presidente che avrei voluto lavorare per organizzazioni umanitarie e lui mi disse: «Che idea grandiosa!», perché era a conoscenza del fatto che da sempre ero stata entusiasta di svolgere un lavoro di aiuto alla comunità. Anche il team di Obama esultò dinanzi alla mia scelta. Nel settembre 2009 sono stata nominata dal presidente rappresentante permanente presso le Agenzie dell’Onu per il cibo e l’agricoltura, tre organizzazioni maggiori e tre minori, tutte operanti a Roma: il WFP (World Food Program), l’Ifad (International Fund for Agricultural Development), la Fao (Food and Agricultural Organization), l’Iccrom (International Centre for the Study of the Preservation and Restoration of Cultural Property), l’Idlo (International Development Law Organization) e l’Unidroit (International Institute for the Unification of Private Law).

D. In cosa consiste il suo compito?
R. Non si tratta solo di fornire cibo, bensì di dare alle popolazioni gli strumenti perché possano procurarselo da sé e divenire, nel tempo, più indipendenti. Lo facciamo attraverso programmi specifici come il P4P, Purchase for Progress, e accordi in cui cerchiamo di garantire equità tra le parti e sostegno verso i Paesi in via di sviluppo. Il WFP costituisce il braccio operativo del sistema delle Nazioni Unite per quanto riguarda gli aiuti alimentari; anche la Fao si occupa di aiutare l’agricoltura, ponendosi come foro neutrale in cui le nazioni si incontrano alla pari per negoziare accordi e discutere linee di condotta. L’Ifad promuove e finanzia programmi e progetti che mettano i poveri delle aree rurali in condizione di sconfiggere la povertà. Tra le minori, l’Iccrom è il Centro Internazionale di Studi per la Conservazione e il Restauro dei Beni culturali e si occupa della conservazione del patrimonio sia mobile che immobile in tutto il mondo; l’Idlo pensa allo sviluppo del diritto in ambito internazionale e l’Unidroit, più specificamente, all’unificazione del diritto privato fra i vari Paesi. Rappresentiamo gli Stati Uniti presso ciascuna di queste organizzazioni, e gli altri membri del team sono esperti nei vari settori; personalmente sono nell’executive board del WFP. La nostra squadra è composta da esperti in emergenza e sviluppo rurale. Gli Stati Uniti sono i sostenitori più rilevanti nelle tre organizzazioni principali. È importante che i fondi, che provengono dai contribuenti, siano utilizzati come previsto: qui ci occupiamo di questo, ci assicuriamo che il programma incontri determinati requisiti. Mi reco anche personalmente sul campo, osservando che i programmi disegnati qui a Roma siano di fatto sviluppati nei vari Paesi, e verifico l’impiego effettivo delle nostre risorse, perché il programma sia usato a beneficio reale del Paese in questione.

D. La sua esperienza in Italia le dà modo di comprendere differenze precipue con gli Stati Uniti. Quali in particolare?
R. Noto che l’America è spesso scollegata dal resto del mondo; in Europa, diversamente, vi sono connessioni naturali fra Paesi vicini, e in Italia è più facile sentirsi allievi del mondo. Mi accorgo qui di avere più responsabilità non solo per ciò che accade negli Stati Uniti ma per lo sviluppo dell’intero mondo, e sono molto orgogliosa di essere americana per la generosità che il nostro Paese usa nel sostenere i vari programmi. Con questo mandato ho l’opportunità di testimoniare l’impatto reale che i programmi umanitari, che ero abituata a conoscere da un diverso punto di osservazione, hanno sullo sviluppo mondiale, e non avrei potuto afferrarne l’importanza solo leggendo i documenti prodotti. Ovunque mi troverò dopo questa missione, resterò sempre legata al mondo. Mi rendo conto che la comunità globale è molto responsabile della salvaguardia dei Paesi sottosviluppati, ma i più vulnerabili non sono meno responsabili del proprio destino. Australia, Giappone, i Paesi del Bric – Brasile, Russia, India e Cina -, non c’è un Paese più responsabile di altri per ricchezza, e il maggiore sviluppo di alcuni rispetto ad altri rende i primi solo responsabili a un differente livello, non «più» responsabili.

D. In che modo i Paesi meno sviluppati possono collaborare in questa strada comune verso una crescita sostenibile?
R. Un programma molto interessante è quello che ha adottato l’Unione Africana, il Caadp (Comprehensive Africa Agricolture Development Program), e che tutti i Paesi dell’Unione europea stanno firmando. Con esso infatti si impegnano non solo ad investire nell’agricoltura, ma ad investirvi almeno il 10 per cento del proprio prodotto interno, in tal modo riconoscendo che la sostenibilità di ogni programma è direttamente legata alla proprietà del programma stesso. Meglio detto: ogni Paese deve porre le basi per il proprio destino. Non c’è nulla che gli Stati possano fare da soli, come partner di sviluppo, per garantire la sostenibilità dei programmi in Paesi in via di sviluppo. È sempre richiesta una partnership con questi ultimi, che devono impegnarsi al pari dei Paesi sviluppati e investire le loro stesse risorse, anche economiche, per migliorare le proprie condizioni.

D. Nei Paesi del Bric spicca la Cina. Considerando l’enorme crescita avuta negli ultimi anni, può essere ancora mantenuta al livello degli altri tre?
R. I Paesi facenti parte del Bric sono considerati meno sviluppati di altri, e sono ora definiti come di nuovo sviluppo. Ma la Cina costituisce senza dubbio l’esempio di cosa può accadere se il Paese si impegna per primo nella propria crescita sostenibile.

D. In che modo è presente il Vaticano negli aiuti alla comunità globale?
R. Il Vaticano ha numerosi programmi nel mondo nei quali investe significativamente, ed ha osservatori presso ogni organizzazione; esso è riconosciuto dall’Onu e partecipa al dibattito politico nella Fao e nei programmi del WFP. Lavoriamo con la Santa Sede come con altri colleghi, ovviamente non c’è alcun riferimento alla religione; a Roma ne avverto la presenza anche sul piano del cattolicesimo, ma nell’esercizio delle mie funzioni, così come negli Usa, il Vaticano corrisponde a uno Stato come un altro con cui collegarci nella nostra missione.

D. Quali sono i suoi rapporti con Roma e l’Italia?
R. Sono a Roma perché la missione si trova qui; il WFP iniziò all’interno della Fao, la cui sede è sempre stata qui, e quando se ne è distaccata è stato naturale mantenere la sede. A Roma nascono i programmi a beneficio di tutto il mondo . Amo questa città, i suoi abitanti sono genuini e generosi, ho conosciuto persone che rimarranno per sempre presenti nella mia vita, che mi hanno aperto le loro case sapendo che potevo trovare difficoltà di integrazione non avendo padronanza della lingua. Mi hanno reso una persona più aperta rispetto a prima, e non avrei mai pensato di ricevere da questa esperienza un tale ulteriore beneficio a favore del mio bagaglio culturale. Ho visto molti luoghi in Italia, l’Umbria ad esempio, la Toscana, il Nord, ho visitato alcuni Paesi del Nord Europa e programmo altri viaggi nel mio tempo libero. Ogni cosa qui è molto vicina, e non sono abituata a questo modo di viaggiare.

D. Cosa c’è nel suo futuro?
R. Dopo quest’esperienza non so cosa ci sarà, né dove. Gli ambasciatori tradizionalmente restano in carica per circa tre anni, e io sono a metà. Continuerò a lavorare su ciò che sto facendo qui. Sono stata sul campo molte volte, non mi opporrei ad essere trasferita permanentemente in un luogo specifico dove poter mettere a frutto, direttamente, la mia esperienza. Per il momento mi impegno completamente nel mio lavoro a Roma, poi sceglierò l’opportunità più consona alle mie esigenze di aiutare il prossimo.

D. In che modo l’America è stata presente nei luoghi di Haiti dopo il terremoto che l’ha colpita distruggendola?
R. Si è trattato di uno dei disastri naturali più devastanti mai visti. Gli Stati Uniti lavoravano per sostenere l’agricoltura di Haiti anche prima del terremoto; dopo il disastro, 900 mila persone si sono spostate verso le campagne. Questo ci ha dato modo di intervenire nello sviluppo rurale di quei luoghi attraverso i nostri strumenti. Abbiamo stretto un accordo con il Brasile per portare trattori ad Haiti; ci siamo impegnati a creare un mercato accessibile per acquistare semi e materiale agricolo. Dobbiamo continuare anche oltre il momento dell’emergenza, ed essere presenti in tutto il periodo della ricostruzione del Paese.

D. Per New Orleans, invece?
R. A New Orleans sono andata almeno venti volte e posso testimoniare tutti i cambiamenti dalla settimana successiva all’uragano Katrina ad ora, le differenze nella vita degli abitanti, la ricostruzione delle case e dei centri di commercio: è un caso di intervento privato a supporto di quello pubblico su un’area devastata. Proprio usando questo come modello abbiamo potuto lavorare per Haiti. Il punto è il ruolo del settore privato e degli investimenti nello sviluppo, essenziali per creare economia nei luoghi non sviluppati attraverso accordi equi. Il nostro obiettivo è individuare tante più opportunità possibili per ogni mercato e assistere, usando le organizzazioni di riferimento, nella sottoscrizione di accordi per lo sviluppo.

D. Nel summit del G-8 2009 tenutosi a L’Aquila, il presidente Obama annunciò l’investimento in tre anni di circa 3,5 miliardi di dollari per lo sviluppo agricolo e la sicurezza alimentare. Di che si tratta?
R. Il Governo Usa ha lanciato il programma «Feed the Future» per riaffermare l’impegno nei confronti della fame e della sicurezza alimentare a livello globale. Esso aggiunge risorse ai programmi già in atto, promuovendo la collaborazione tra gli interessati e investendo in produttività agricola, ricerca e mercati bonificati, per aumentare la fornitura di prodotti alimentari e ridurre i prezzi.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Aprile 2011




GIULIANO ZUCCOLI: ASSOELETTRICA, IL GIUSTO MIX ENERGETICO ALLA BASE DELLE NOSTRE ESIGENZE

Assoelettrica riunisce circa 120 imprese che operano nel libero mercato assicurando circa il 90 per cento dell’energia elettrica generata nel territorio nazionale. Guidata dal presidente Giuliano Zuccoli, l’Associazione nazionale delle imprese elettriche è nata il 25 settembre 2002 dalla fusione dell’Unapace con l’associazione sindacale delle imprese elettriche private, al termine di un’azione avviata nel 1946 dalla prima e che l’ha portata a conquistare negli anni l’autorevolezza necessaria per divenire interlocutore significativo sia nel settore energetico sia nel contesto politico e istituzionale. Durante il periodo successivo alla nazionalizzazione del sistema elettrico le azioni intraprese dall’Unapace si rivolsero, oltre che alla salvaguardia degli interessi rappresentati, anche a favorire il superamento dei vincoli e a consentire l’allargamento degli spazi a disposizione degli operatori industriali. Un primo significativo risultato in questa direzione si ebbe con l’approvazione della legge n. 308 del 1982 e, successivamente, delle leggi n. 9 e 10 del 1991, che permisero una parziale liberalizzazione della produzione di energia elettrica, favorendo l’introduzione di tecnologie innovative e lo sviluppo di nuove rilevanti realizzazioni. Con il recepimento della direttiva europea 92 del 1996 e l’introduzione delle nuove norme in tema di liberalizzazione e apertura dei mercati elettrici, sono stati avviati ulteriori significativi cambiamenti. Dal maggio 2009 è a capo dell’Assoelettrica Giuliano Zuccoli, laureato in Ingegneria elettrotecnica nel Politecnico di Milano, che ha ricoperto varie cariche nel settore dell’energia: già amministratore delegato, presidente e consigliere delegato dell’Aem, presidente di Federelettrica, di Federutility e di Edipower (consorzio acquirente di Eurogen, una delle Genco vendute dall’Enel), nell’ottobre 2005 è diventato presidente di Edison e nel marzo 2008 presidente del Consiglio di gestione di A2A, nata dalla fusione tra l’Aem e l’Asm Brescia.

Domanda. In che modo l’Assoelettrica si pone al centro del dibattito sull’energia elettrica in Italia?
Risposta. La nostra Associazione tutela in tutte le sedi, istituzionali, politiche ed economiche, gli interessi degli associati, assumendone la rappresentanza e promuovendo e coordinando le opportune iniziative comuni. Lo fa prima di tutto ricercando con continuità le soluzioni più appropriate per assicurare al Paese l’energia elettrica di cui ha bisogno alle migliori condizioni economiche, di affidabilità e sicurezza, e per consentire una piena liberalizzazione del settore energetico e una migliore competitività del mercato elettrico. A tal fine promuoviamo studi e confronti per una più ampia conoscenza delle attività e delle iniziative settoriali, e analizziamo tutti i problemi energetici, con particolare attenzione alla riforma della legislazione e della regolamentazione del settore elettrico.

D. Che cosa è accaduto nel settore elettrico in questo nuovo millennio?
R. Nell’arco di dieci anni il volto dell’industria elettrica italiana è radicalmente mutato. In luogo di un operatore pubblico monopolista, affiancato da alcune imprese municipali, vediamo oggi un sistema articolato in centinaia di produttori di energia elettrica di ogni dimensione, che fanno ricorso a un ventaglio di fonti energetiche dall’idroelettrico all’eolico, dalle biomasse al gas naturale, dal carbone ai gas di sintesi e, speriamo presto, al nucleare. Dieci anni fa si parlava ancora di GenCo, le cosiddette Generation Company, assemblate dal precedente operatore monopolista e poste sul mercato: si è avviato così un mutamento strutturale del mercato nella generazione di energia elettrica, al punto che il principale operatore copre ora una quota ormai inferiore a un terzo del totale. Oggi l’80 per cento circa della produzione elettrica italiana è suddivisa tra 7 operatori, una situazione che non trova confronto in nessun Paese europeo, con l’unica eccezione della Gran Bretagna.

D. Quale tipo di investimenti sono stati fatti per raggiungere questo nuovo risultato?
R. L’ammontare degli investimenti realizzati nel settore della generazione nell’ultimo decennio può essere stimato in oltre 25 miliardi di euro, quasi 8 dei quali indirizzati allo sviluppo delle fonti rinnovabili. Oggi il nostro Paese dispone di una potenza aggiuntiva, altamente efficiente, di quasi 20 mila megawatt. Uno sforzo enorme, che non trova alcun confronto di recente, neppure guardando all’industria elettrica degli altri grandi Paesi europei nei quali, semmai, si è assistito a un sostanziale ristagno degli investimenti che solo in alcuni di essi, e soprattutto sulle rinnovabili, paiono essere in ripresa soltanto da un paio d’anni. Questi interventi hanno permesso di accrescere in misura molto rilevante l’efficienza del parco di generazione. Gran parte degli investimenti nel comparto termoelettrico si sono infatti concentrati sulla tecnologia del ciclo combinato a gas naturale. Questo per vari motivi: più rapida realizzazione degli impianti, riduzione dei costi, migliore accettabilità sociale di impianti che presentano emissioni meno rilevanti delle centrali tradizionali, minori costi logistici connessi alla presenza di una capillare rete di gasdotti nel territorio nazionale.

D. In che modo ciò ha accresciuto le capacità energetiche italiane?
R. Oggi il parco termoelettrico italiano è il più efficiente su scala europea, se non mondiale, con livelli di efficienza in vari casi prossimi al 60 per cento e con una media complessiva ormai vicina al 50 per cento. Escludendo dal calcolo il nucleare, questo colloca il sistema di generazione termoelettrico del nostro Paese al primo posto in Europa in emissioni di anidride carbonica per chilowattora prodotto: un eccellente risultato, che comporta però anche alcune conseguenze non altrettanto positive e che la crisi economica internazionale sta accentuando. Il massiccio ricorso al gas ha comportato uno squilibrio del mix di fonti primarie: oggi più della metà dell’energia elettrica viene prodotta in Italia impiegando il metano, ciò che, unitamente all’assenza di un sistema di generazione nucleare, rende il sistema elettrico italiano ancora assai vulnerabile. Certo, siamo lontani dai tempi in cui la capacità di generazione nemmeno bastava a far fronte ai picchi di domanda, comunque occorre agire per migliorare questi aspetti. Dopo aver soddisfatto la richiesta di sviluppare in misura quantitativamente adeguata e qualitativamente efficiente il sistema di generazione elettrica, le imprese del settore sono chiamate a guardare ancora più in là e a proiettarsi in una prospettiva temporale più ampia in cui ridisegnare il mix delle fonti primarie.

D. Com’è la situazione dei prezzi per l’energia elettrica in Italia e nel resto dell’Europa?
R. Il mix è una delle condizioni perché i prezzi dell’energia elettrica in Italia si riallineino a quelli medi europei e, soprattutto, a quelli dei Paesi nostri diretti concorrenti industriali. A questo proposito, però, bisogna fare chiarezza: i prezzi praticati nei confronti di alcune categorie di consumatori domestici e in qualche caso anche di consumatori industriali sono in Italia inferiori alla media europea. Da decenni è infatti in vigore un sistema di sussidi, solo parzialmente modificato di recente, i cui costi si riversano su tutti gli altri consumatori. D’altra parte, mentre in Italia si usano per circa l’80 per cento combustibili fossili, in Francia quasi l’80 per cento dell’energia elettrica viene prodotta dal nucleare, in Germania nucleare e carbone di produzione nazionale valgono insieme più di due terzi dell’energia generata e non molto diversa è la situazione della Spagna. La media europea vede oltre un quarto di produzione nucleare, altrettanta con il carbone, poco meno del 30 per cento con il gas naturale e l’olio, il resto con fonti rinnovabili.

D. Qual è il giusto mix affinché i consumatori italiani possano avere tariffe di energia elettrica analoghe a quelle in vigore in altri Paesi?
R. È necessario modificare il mix attuale. All’Italia serve un grande rilancio del nucleare e un più ampio ricorso al carbone con impianti efficienti e dotati dei più moderni dispositivi in grado di ridurre le emissioni. Il nucleare non è un’alternativa alle rinnovabili. Modificare in questa direzione il mix delle fonti primarie permetterà di ridurre la vulnerabilità energetica del Paese, diversificando le aree geografiche di approvvigionamento. Il ricorso sempre più ampio al gas naturale ha comportato una crescita della dipendenza da pochi fornitori. La soluzione è nota: lo sviluppo di un parco di rigassificatori che permetterebbe di alleggerire la dipendenza dalle condotte che uniscono l’Italia e l’Europa ai Paesi esportatori.

D. Ha sostenuto che i conti tra richieste di realizzazione di impianti rinnovabili entro il 2020, per un ammontare di 150 megawatt, e il picco di domanda totale in Italia di 54 megawatt, sono troppo sbilanciati per non intervenire e creare un sistema razionale di incentivi. Perché?
R. Non è pensabile che siano incentivati investimenti che alla fine fanno ulteriormente aumentare i costi dell’energia, da noi già alti. In un mondo ideale preferiremmo un sistema che non ha bisogno di incentivi. Quello reale non è così, serve un meccanismo di incentivi mirato al rispetto dei vincoli europei, una quota del 17 per cento di fonte primarie rinnovabili al 2020, altrimenti gli investitori privati non si muoverebbero a causa del rischio regolatorio e non avendo certezza del ritorno degli investimenti.

D. Che pensa dei certificati verdi, titoli negoziabili che corrispondono a una certa quantità di emissioni di anidride carbonica?
R. Non è più sostenibile l’obbligo di acquistarli, malgrado sia prioritario scongiurare una così marcata riduzione del prezzo di ritiro dei certificati verdi anche in considerazione dei già elevati risparmi conseguibili con la riduzione della quota d’obbligo. Insieme ad incentivi coerenti con criteri generali di equa remunerazione per i rifacimenti degli impianti, in particolare gli idroelettrici, l’Assoelettrica chiede una maggiore gradualità nella riduzione della quota d’obbligo di acquisto di energia da fonte rinnovabile a carico dei produttori termoelettrici, spostando l’annullamento delle quote a non prima del 2016, mentre oggi è fissato al 2015.

D. Quando il consumatore potrà avvertire il cambiamento nella produzione di energia attraverso un risparmio sulla bolletta?
R. Tutto questo potrà dare risultati tangibili e significativi soltanto quando la rete di trasmissione e distribuzione dell’energia elettrica venga finalmente adeguata alle esigenze del Paese. Terna sta lavorando molto intensamente in questa direzione, ma occorre metterla nelle condizioni di operare nel modo migliore, evitando che le autorità locali interessate alla realizzazione dei nuovi elettrodotti provochino ritardi e blocchi dei lavori anche per anni. Oggi si assiste al triste spettacolo di impianti di generazione ad alta efficienza, costruiti con le migliori e più recenti tecnologie, che vengono sottoutilizzati perché la rete non è in grado di trasmettere tutta l’energia che essi potrebbero produrre, mentre altri, meno efficienti e quindi più costosi, sono talvolta tenuti a produrre al massimo delle loro potenzialità per rispondere a una richiesta che la rete non è in grado di ripartire nel modo migliore e più conveniente per tutti, operatori e consumatori.

D. Quali sono i parametri per procedere lungo questa nuova fase energetica?
R. Il perimetro entro il quale fissare una strategia energetica è quello fissato dai cosiddetti obiettivi europei del 20-20-20: riduzione del 20 per cento delle emissioni di anidride carbonica, sviluppo delle fonti rinnovabili fino al 20 per cento dei consumi finali di energia, miglioramento dell’efficienza energetica del 20 per cento. L’Europa ci ha affidato l’ambizioso obiettivo di uno sviluppo delle fonti rinnovabili dall’attuale 7 per cento, calcolato sui consumi finali complessivi, al 17 per cento. Per ottenere un simile risultato occorrono strumenti efficaci, capaci di orientare i comportamenti delle persone e indirizzare i nuovi investimenti in direzione di un minor consumo di energia primaria a parità di crescita economica e di condizioni di benessere, capaci di incentivare il necessario sviluppo delle fonti rinnovabili e di restituire all’Italia un sistema di generazione elettronucleare di peso europeo.

D. Quali sono i tempi istituzionali per tutto questo?
R. Molti passi avanti sono stati compiuti grazie anche alla determinazione del Governo. L’Agenzia per la Sicurezza nucleare ha finalmente cominciato a svolgere il proprio lavoro. Il programma nucleare si sta avviando e auspichiamo che nuove imprese e operatori decidano di scendere in campo per raccogliere l’invito a riportare il Paese agli allori degli anni Sessanta, quando era tra quelli maggiormente impegnati in questo fronte. La valutazione dei costi e dei benefici del nucleare è visibilmente e totalmente positiva: il nucleare non produce anidride carbonica, e questo aiuta a combattere l’effetto serra, permette di ridurre la dipendenza dalle fonti fossili di energia e dai Paesi che le possiedono ma, soprattutto, costituisce una sfida industriale decisiva. Nella sola Cina è in programma la realizzazione di oltre 200 impianti nucleari; l’industria italiana, le tante aziende elettromeccaniche che hanno comunque mantenuto delle competenze apprezzate dal mercato, non possono restare fuori.    (ROMINA CIUFFA)

 

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Marzo 2011




GIORGIA MELONI: IL FUTURO È UN DIRITTO CHE I GIOVANI DEVONO POTER ESERCITARE OGGI

Il futuro non è più quello di una volta. Lo si legge, come un brocardo, su molti muri, scritto da giovani writers inseguiti da provvedimenti che impediscono loro di fare graffiti per le città. C’è una verità formale e sostanziale in ciò che scrivono. Formale: l’arte cambia e ad essa devono adeguarsi le vecchie generazioni, i giovani hanno bisogno di esprimersi nei modi a loro più congeniali e di avere le attenzioni che la classe dirigente dedica solo a se stessa. Sostanziale: il futuro di ieri è stato pensato solo come privilegio degli adulti di oggi. Ai giovani restano precarietà, immobilizzazione, riforme sbagliate, sfiducia nel sistema, fuga di cervelli, futuro incerto. Per questo il Ministero della Gioventù è stato affidato a una giovane guida, Giorgia Meloni, classe 1977, in grado di comprendere le esigenze delle nuove generazioni senza suggestioni provenienti dal passato, ma con il pragmatismo che è il futuro a richiedere perché i giovani di oggi possano crescere.

Domanda. «Diritto al futuro» è, per questo Ministero, un progetto concreto. Di cosa si tratta?
Risposta. Di diritto al futuro parliamo con riferimento a un pacchetto di provvedimenti per i quali il Ministero della Gioventù ha mobilitato complessivamente 300 milioni di euro. Si tratta di una serie di iniziative tese a combattere la condizione di precarietà con la quale i giovani si confrontano giornalmente, aventi un grande comune denominatore: investire nella persona, rifiutare l’assistenzialismo generalizzato e difendere il doppio principio dell’uguaglianza e del merito. Da una parte, intendiamo costruire una società in grado di dare a tutti le medesime condizioni di partenza, rimettendo in moto l’ascensore sociale che in Italia è bloccato da una serie di rendite, privilegi, barriere; dall’altra, vogliamo che questa uguaglianza diventi presupposto per la meritocrazia: una volta garantito lo start, chi corre più veloce arriverà più lontano e prima.

D. Quali sono i temi centrali del futuro?
R. Abbiamo affrontato, con lo stesso provvedimento, due grandi emergenze italiane: la disoccupazione giovanile e la denatalità. In Italia ci si sbraccia più sul diritto di abortire che su quello di mettere al mondo un bambino. Oggi una donna su quattro che partorisce non rientra al lavoro, la scelta della genitorialità è sempre meno popolare e i figli sono diventati un bene di lusso; per questo va premiato e incentivato il binomio responsabilità-merito, che è sotteso a una scelta tanto impegnativa. Abbiamo anche previsto un plafond di 50 milioni di euro che consente di dare a tutti gli under 35 con figli, precari o disoccupati, una dote di 5 mila euro da portare nell’azienda che li assume a tempo indeterminato.

D. Il problema della disoccupazione si aggrava. Qual’è la vostra posizione?
R. Ci siamo posti il problema del precariato e delle ragioni per cui un modello funzionante negli altri Paesi produce, nel nostro sistema, conseguenze invece inaccettabili. La difficoltà che i giovani hanno in un contesto flessibile non è data, a mio avviso, dalla loro indisponibilità ad accettare una vita lavorativa versatile, ma dall’inadeguatezza e dalle resistenze della società che li accoglie ad uniformarsi a questo cambiamento: oggi una posizione atipica rende il lavoratore «figlio di un Dio minore», poiché non garantisce le opportunità che derivano da un contratto a tempo indeterminato. Oltre al problema pensionistico, nell’immediato prevale l’incapacità del sistema di adeguarsi alle nuove forme laburistiche che, anche quando prevedano prospettive di stabilizzazione, non sono ritenute rilevanti ai fini dell’accesso al mercato del credito. Le banche non concedono mutui, la discriminazione parte da qui. Per questo abbiamo destinato 50 milioni di euro per il fondo di garanzia sull’acquisto della prima casa: lo Stato garantisce il mutuo al 70 per cento fino a 200 mila euro per giovani coppie, single con figli e giovani famiglie il cui reddito derivi per più del 50 per cento da lavoro atipico.

D. È innegabile, però, che i problemi derivati dall’incertezza investano tutti, non solo i giovani genitori, e che la genitorialità è ormai un’opzione e non più lo sviluppo naturale di un percorso medio. Ciò avviene non solo per il cambiamento dei valori in uso, ma anche e soprattutto per l’impossibilità di decidere di essere genitori senza avere un lavoro, una casa, un futuro; un circolo vizioso in cui, se i giovani non genitori non sono aiutati, difficilmente possono accollarsi la responsabilità di un figlio. Sono discriminati?
R. Questi sono problemi reali e riguardano tutti, non solo i nuclei familiari. Lo Stato però ha risorse limitate e lavora su priorità che lo portano ad investire sugli ammortizzatori sociali, lasciando prevalere il cosiddetto «favor familiae» e il problema della rigenerazione della società, ma senza per questo disconoscere i single, le coppie di fatto senza figli e le coppie omosessuali: non è una questione morale, ma esclusivamente economica.

D. Dopo gli studi, i giovani non trovano e a volte non cercano lavoro. In che modo il suo Ministero affronta il problema?
R. Ci siamo posti il problema di come aiutare a combattere il gap presente nel nostro sistema tra istruzione e mondo del lavoro, cominciando a incrementare le iniziative di job placement all’interno delle scuole e dell’università. Abbiamo portato avanti un progetto, il Global Village Campus, oggi rinominato Campus Mentis, suddividendo in cinque gruppi 600 tra i migliori laureati italiani, mettendoli per cinque settimane in contatto con i responsabili delle risorse umane del mondo imprenditoriale italiano e internazionale operativo in Italia. Tre gli obiettivi: dare un segnale ai ragazzi sull’investimento che lo Stato è in grado di compiere su di loro; mostrare al mondo imprenditoriale le capacità di questo straordinario materiale umano non sfruttato; fare formazione rispetto all’ingresso nel mondo del lavoro. Il progetto pilota ci ha dato ottimi risultati: entro l’anno dal suo avvio il 77 per cento dei giovani partecipanti ha ricevuto significative proposte di lavoro. A partire da quel successo, nella seconda edizione abbiamo investito ulteriori risorse e collaborato con l’Università La Sapienza di Roma coinvolgendo 1.800 ragazzi, ossia triplicando i numeri e creando tre campus, in Veneto, in Sicilia e a Roma, che nei prossimi tre anni diverranno 20 in tutto il territorio nazionale e coinvolgeranno 20 mila ragazzi. Se il dato del 77 per cento dovesse essere trasferito da 600 a 20 mila partecipanti, parleremmo di un’iniziativa strutturale significativa. Ciò dipenderà non solo da noi, ma dalla situazione politica che troveremo.

D. All’estero i giovani escono di casa molto presto e si pagano gli studi da sé. Cos’è che blocca l’Italia?
R. L’assenza di strumenti per i nostri giovani, quale quello del «prestito d’onore». Questo resta il modo più semplice per chiamarlo, ma dovremmo cancellare dalla nostra mente l’idea che tale locuzione evoca in Italia, diversa dal resto del mondo. Nelle grandi democrazie occidentali è un sistema rodato che consente ai giovani di mantenersi da sé attraverso un prestito che poi restituiranno quando saranno nella condizione di farlo. Barack Obama ha studiato all’università grazie all’esistenza di un mondo del credito che ha investito su di lui: il presidente americano ha più volte dichiarato di aver finito di restituire il prestito da poco. Oltre al fattore economico immediato, ce n’è uno diverso: frequentare l’università sentendo il peso personale dell’indebitamento pone in una condizione psicologica diversa, che è di maggiore responsabilità. È necessario creare un’alternativa al rifugio nella solidità della famiglia. Il nostro Ministero ha dedicato agli studenti 18 milioni di euro, per finanziare una somma fino a 25 mila euro in cinque anni, dando loro l’onere della restituzione solo dopo un certo numero di anni. Questo è un provvedimento che in realtà non vorrei rifinanziare: nel mondo anglosassone lo Stato non entra minimamente, è una cosa tra privati; noi siamo costretti ad intervenire poiché è assente un tale meccanismo virtuoso, ma con ciò speriamo di dimostrare al sistema del credito che conviene investire sui ragazzi, perché domani questo circolo possa andare avanti senza l’impegno di fondi pubblici.

D. Come favorire l’imprenditoria giovanile in questo clima di pessimismo crescente?
R. Tra le nostre misure, il Fondo Mecenati riguarda il sostegno al talento e si fonda sull’alleanza tra pubblico e privato nell’investimento sugli under 35. Ogni anno in Italia alcune grandi aziende, fondazioni, organizzazioni private investono fondi propri a favore di giovani meritevoli indicendo concorsi, mettendo in palio borse di studio, portando avanti una serie di iniziative per aiutarli ad aprire un’impresa. Abbiamo deciso di riconoscere il valore sociale di tali azioni per moltiplicare le risorse, cofinanziando al 40 per cento le iniziative dei privati che investono sugli under 35 in alcuni settori che secondo noi sono strategici.

D. In che modo sviluppare la ricerca?
R. Finanziando prioritariamente gli spin off universitari, ossia la trasformazione dei risultati della ricerca in attività produttive. In Italia non trasformiamo le ricerche in attività commerciali. Dal 2000 ad oggi sono stati depositati oltre 100 mila brevetti: di questi nemmeno 700 hanno avuto un seguito. Certo non tutto ciò che viene brevettato è significativo, ma tra le 100 mila idee presentate e le 700 sviluppate è molto probabile che alcune, opportunamente monetizzate, avrebbero potuto contribuire alla nostra economia.

D. Oltre a questo pacchetto, quali altri progetti stanno maturando?
R. Ai cinque provvedimenti di «Diritto al Futuro», si aggiungono altre questioni che il Ministero della Gioventù tiene in considerazione, tra cui il coinvolgimento degli enti locali. Stiamo portando avanti discorsi a cerchi concentrici con i Comuni, le Province e le Regioni, per centrare gli stessi obiettivi, includendovi il filone della valorizzazione della cultura d’impresa. Il problema è legato all’assenza di ascensore sociale: in Italia a dar vita a un’impresa sono sempre gli imprenditori esperti, gli altri hanno la percezione che gli ostacoli da rimuovere siano troppi. Mancano informazioni e formazione su opportunità, leggi, agevolazioni, contributi, aspetti legali. Il nostro sistema di istruzione è culturamente tarato sul lavoro subordinato, che insegna a cercare lavoro e sprona poco a divenire datori. Abbiamo tentato di fare formazione con una serie di iniziative: abbiamo emesso un bando del valore di oltre 4 milioni di euro, rivolto alle associazioni studentesche che presentino progetti in collaborazione con le Università, e alle organizzazioni giovanili degli imprenditori; attualmente sono aperti in 21 Università centri per la valorizzazione della cultura di impresa, nei quali alcuni esperti accompagnano, per i primi due anni di start up, tutti i ragazzi che intendono avviare una impresa.

D. Quali altre iniziative avete preso?
R. Abbiamo dato vita a un portale, www.giovaneimpresa.it, dedicato all’imprenditoria giovanile, che offre tutte le informazioni e la consulenza necessaria gratuitamente. Ad esso collaborano tutte le associazioni giovanili imprenditoriali che ci aiutano a fare consulenza on line. Abbiamo stilato una serie di alleanze tra categorie professionali che, attraverso il Ministero della Gioventù, si sono impegnate a rivolgere ai ragazzi consulenza anche online, gratuita o alla minima tariffa. E abbiamo in cantiere un’iniziativa più strutturale che riguarda la leva fiscale: una tassazione al 10 per cento per tutte le imprese giovanili di nuova costituzione.

D. Qual’è la sfida di questo Ministero?
R. Non di certo risolvere la questione giovanile con un Ministero senza portafoglio, ma divenire l’interlocutore del Consiglio dei ministri a 360 gradi, perché in tutto quello che il Governo fa c’è un elemento che coinvolge le giovani generazioni, ossia il futuro. La mia generazione ha ereditato l’assenza di sensibilità da parte delle generazioni precedenti nei confronti di quelle a venire. Abbiamo avuto anni di grande ricchezza economica, che le classi politiche hanno dilapidato per garantirsi consenso immediato, ed oggi paghiamo pensioni a chi ha smesso di lavorare a 40 anni. Voglio invertire questa tendenza e pormi il problema di quello che sto lasciando dopo di me: in questo le riforme della scuola e dell’Università costituiscono un segnale centrale.

D. Riforma della scuola e dell’Università: qual’è la sua posizione?
R. Il problema è nella difficoltà che si incontra ogni volta che cambia un Governo: si tende a modificare il sistema esistente migliorandolo anziché annullarlo, perché ciò costerebbe di più. Prima del sistema va riformata la cultura: tendiamo a parlare di scuole e università prevalentemente per i 5 mila che all’interno vi lavorano, senza porci il problema di quelli che vi studiano e preoccupandoci più di dare posto a 10 mila insegnanti che ad impegnare gli studenti per il futuro. Oggi ci sono 327 facoltà che non hanno più di 15 studenti e 37 corsi di laurea con uno studente. Questo Governo ha fatto scelte coraggiose. Al netto della questione tagli, che è stata recuperata trattandosi, a conti fatti, di un taglio del 3 per cento che, ponendo attenzione agli sprechi delle nostre università, potrebbe esser recuperato, oggi si stanno realizzando progetti che il movimento studentesco ha sognato per 20 anni. È l’esempio del giudizio sulla qualità dell’insegnamento, delegato agli studenti. Abbiamo dovuto varare una legge per combattere prassi intollerabili e inadeguate, addirittura per dire che «chi ha una cattedra deve andare ad insegnare». Nella legge di riforma dell’università è specificato che i docenti devono firmare il tesserino, dimostrare di essere stati per un certo numero di ore all’interno dell’Università e che quelle ore siano destinate agli studenti. Abbiamo fatto una legge per dire che non possono essere inseriti parenti nelle cattedre. Ne abbiamo varato un’altra per dare maggiore credibilità al tema della ricerca, richiedendo la dimostrazione in 6 anni che la ricerca per cui si occupa un posto universitario è utile, e solo in tal caso da ricercatori si può divenire docenti o associati. Non concepiamo l’idea di ricercatore a tempo indeterminato, cosa che non succede in nessuna altra parte del mondo. Uno dei problemi è l’uso della scuola come ammortizzatore sociale riducendo, anche tramite stipendi molto bassi, l’autorevolezza e la qualità dell’insegnamento; abbiamo trasformato i nostri docenti nei peggiori d’Europa e questo ha anche abbattuto la loro passione nel proprio mestiere. Abbiamo abolito una serie di sperimentazioni, dato vita a una semplificazione del sistema e rimesso in piedi tutta la grande questione degli istituti tecnici e professionali. Insegnavano una divisione tra «chi pensa» e «chi fa», ed ora è necessario rivalorizzare la creatività dei secondi, gli unici in grado, nelle specificità italiane, di non essere soggetti alla concorrenza cinese. Se riuscissimo ad avviare un’offensiva culturale per restituire valore a chi crea, avremmo posti di lavoro già disponibili per una serie di mestieri legati all’artigianato. È necessario tornare all’umiltà. Può capitare di dover fare un lavoro meno prestigioso di quello per cui si è preparati, ma è solo un passaggio di cui il Paese ha bisogno per andare avanti con l’economia, che rispecchia la cultura della gavetta iniziale.

D. Gli italiani restano ancora a casa?
R. Sono molte più le donne, rispetto agli uomini, ad uscire dalla casa familiare prima dei 34 anni. Ciò non è nemmeno legato alle opportunità, perché le donne storicamente ne hanno meno degli uomini, bensì si ricollega alla maggiore autodeterminazione femminile che non rende drammatico l’impatto con l’indipendenza.

D. I giovani avranno la pensione?
R. La nostra generazione avrà le pensioni, ma non quelle che conoscevamo: andremo in pensione non prima dei 65 anni e la nostra sarà presumibilmente più bassa di quella che avremmo avuto con il sistema retributivo. Pochi di noi arriveranno a prendere l’80 per cento della retribuzione come prevedeva il sistema retributivo. Oggi le pensioni sono assolutamente inadeguate, vanno fatte riforme strutturali e combattute una serie di discriminazioni tra contratti di lavoro subordinato e nuove forme di flessibilità.

D. L’obiettivo primario del Ministero?
R. Lavorare sulle competenze e rendere la nuova generazione più valida di quella precedente.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Febbraio 2011




RENATO UGO: AIRI, LA RICERCA INDUSTRIALE PARLA AL FUTURO

Al 1713, quando John Lombe fondò uno stabilimento dotato di una macchina per lavorare la seta impiegandovi ben 300 operai, risale l’inizio della decadenza della protoindustria. La Francia dal 1738 ampliò il sistema stradale fino a contare, nel 1780, oltre 25 mila chilometri di strade. L’Inghilterra apriva canali per la navigazione: il primo fu terminato nel 1761, e 40 anni dopo l’intera rete misurava circa mille chilometri. Questa è industria; l’innovazione ne è il prodotto. E oggi è anche l’adattamento dell’industria alle esigenze ambientali a portare per il futuro un’opportunità, prima ancora che un pericolo. Infatti il sistema industriale affronterà in maniera sempre più pressante problemi di rispetto ambientale, introducendo tecnologie che osservino la sostenibilità nei progetti di ricerca e sviluppo. Per questo più che mai la ricerca industriale ha bisogno di voce: l’Airi, Associazione italiana per la ricerca industriale, rappresenta più del 50 per cento delle strutture e risorse umane operanti in Italia nell’ambito della Ricerca & Sviluppo industriale in Italia, ha sede a Roma e, presieduta da Renato Ugo, riunisce più di 110 soci, tutti in qualche maniera discendenti di John Lombe.

Domanda. Qual è l’obiettivo dell’Airi?
Risposta. Nata 37 anni fa per promuovere lo sviluppo della ricerca e dell’innovazione industriale e stimolare la collaborazione tra settore privato e pubblico, oggi l’ associazione rappresenta più del 50 per cento delle attività italiane di ricerca e sviluppo industriale. Il suo scopo è evidenziare il ruolo che riveste la ricerca industriale come fattore di sviluppo economico, competitività e crescita del Paese. Sono più di 110 i soci, tra cui importanti nomi dell’industria italiana, oltre che di università e enti pubblici di ricerca, ma anche piccole e medie imprese, associazioni industriali, parchi scientifici e istituti finanziari impegnati nel settore della ricerca e del suo sostegno.

D. Com’è costituita la compagine associativa dell’Airi?
R. L’ Airi si pone come primo interlocutore e opinion leader per tutti i decisori coinvolti nel sostegno della ricerca e rappresenta un raccordo tra diversi attori operanti nella R & S; tra i nostri soci vi sono anche enti pubblici come l’Enea e il Cnr e associazioni industriali come Farmindustria, Federchimica, Confindustria, che, dal punto di vista istituzionale, contribuiscono a sostenere e sviluppare le attività di ricerca in consistenti settori industriali. Non siamo portatori dei vari problemi dell’industria, ma promotori dei valori della ricerca industriale.

D. Com’è vista la ricerca in Italia?
R. È considerata principalmente la ricerca universitaria, e non sono spesso prese in considerazione le imprese e gli enti pubblici. Però il Cnr, l’Enea, l’Istituto Superiore di Sanità e l’Istituto Nazionale per l’Agricoltura svolgono attività di ricerca per un importo annuo di circa 2,5 miliardi di euro e la ricerca industriale per 9,5 miliardi di euro, rispetto a una ricerca universitaria sui 6 miliardi annui. Si tratta di un vasto settore della ricerca svolta in Italia e di un numero elevato di ricercatori cui viene rivolta poca attenzione. Ci proponiamo di portare la ricerca industriale all’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica, perché dal suo successo dipendono lo sviluppo e la competitività tecnologica del Paese, e in particolare delle imprese e dei servizi avanzati.

D. In che modo il settore della ricerca industriale affronta la crisi?
R. Questo settore va, se non protetto, per lo meno sostenuto in momenti di crisi quali gli attuali. La ricerca industriale si sta evolvendo: cambiano il quadro delle aziende e quello competitivo diventa globale. Ciò implica un riadattamento al nuovo scenario. Recentemente abbiamo svolto un convegno evidenziando come in Italia aumenti sensibilmente l’outsourcing nella R & S mentre il Paese continua a non attrarre investimenti stranieri. Le industrie tendono sempre di più a delegare all’esterno alcune attività di ricerca per varie ragioni. Nei settori più avanzati e che richiedono un’innovazione più radicale, preferiscono affidare le attività di lungo periodo a università, enti pubblici o privati, mentre all’interno sono mantenute e rafforzate le funzioni di sviluppo tecnologico. L’uso di competenze esterne presuppone un’attività di scouting finalizzata a trovare le strutture più adeguate al raggiungimento degli obiettivi tecnologici e dell’azienda.

D. In che rapporti è il mondo della ricerca con i Paesi in via di sviluppo?
R. Una tendenza non ancora sviluppata in Italia è quella del trasferimento delle attività di ricerca in Paesi a basso costo del lavoro, ma che hanno un buon bagaglio tecnico-scientifico, quali la Cina e l’India, come avviene nei Paesi anglosassoni e in Germania; ma in Italia potrebbe depauperare la struttura della ricerca industriale facendo perdere centri di ricerca e competenze di rilievo. Vi potrà essere un rilevante rischio se verranno a mancare queste competenze. Formare un ricercatore industriale richiede almeno dieci anni e, una volta perdute figure competenti e capaci, sarà difficile ricostruirle. La chiusura di un centro di ricerca di 500 persone è gravosa per il Paese come quella di 10 mila persone di una struttura industriale.

D. Ha parlato, nelle sue audizioni alla Camera, di uno scenario in cui medie e grandi imprese, che in Italia compiono i maggiori investimenti nella ricerca industriale e mantengono masse per operare nella competizione internazionale, convivono con le piccole e medie del Made in Italy, che seguono una diversa logica di ricerca e sviluppo. In che modo queste possono crescere tecnologicamente?
R. Adottare una politica uguale per tutti non ha senso, perché le piccole imprese non svolgono attività di ricerca come le medie e le grandi, mentre per queste ultime i finanziamenti, a partire dall’indizione dei bandi, sono lunghi e farraginosi e non vanno bene né per la tempistica né sotto il profilo finanziario. Le grandi imprese richiedono politiche utili a una pianificazione strategica che consenta di sostenere progetti a lungo o medio termine, anche con un supporto adeguato dello Stato o dell’Europa; le piccole e medie hanno invece bisogno principalmente di una detassazione degli utili che permetta loro di ricevere, nel breve termine, un sollievo fiscale per disporre delle risorse necessarie per apportare miglioramenti al prodotto o al processo. Questa differenza in Italia non è ancora presa in considerazione. Riteniamo che un rilancio dell’erogazione tramite le forme previste nella legge n. 297 del 1999 e nella legge n. 46 del 1982 e tramite un credito d’imposta certificato da severi controlli, possa essere il pilastro di una valida politica di sostegno della ricerca industriale a tutti i livelli e del relativo sviluppo tecnologico. Inoltre per le scelte strategiche del Paese, per la politica della ricerca occorre definire in maniera il più puntuale possibile un metodo di base per la redazione del Programma Nazionale di Ricerca, che ha una cadenza triennale per ragioni di continuità delle attività di ricerca. Fino ad oggi molti dei Programmi preparati dai vari Governi non hanno trovato sufficiente riscontro né tanto meno erano basati su validi metodi di base.

D. In che modo intervengono le Regioni in questo settore?
R. L’idea da seguire è questa: le scelte nel campo della ricerca dovrebbero essere compito dell’Amministrazione centrale, mentre il sostegno dello sviluppo tecnologico e in particolare dell’innovazione, potrebbe essere delegato, anche parzialmente, alle Regioni. Ciò oggi non avviene; si è man mano creata una forte sovrapposizione tra iniziative di ricerca, normalmente di maggior dimensione, delle Amministrazioni centrali e quelle delle Regioni. In questo momento alcune di queste ultime non hanno la necessaria disponibilità finanziaria per incidere sulle attività di ricerca e sviluppo, particolarmente nel Nord. A favore del Sud sono disponibili i vari fondi europei, nazionali e regionali, al punto che le Regioni meridionali talvolta non riescono a spenderli. Il Ministero dell’Università e della Ricerca ha emesso bandi a favore delle aree della convergenza Campania-Sicilia-Calabria-Puglia per un valore di un miliardo e mezzo di euro, mentre il sostegno di attività svolte nel Nord non è contemplato in una parte significativa di questi bandi. Ma la maggior parte delle attività di ricerca e sviluppo tecnologico a livello industriale sono localizzate nel Nord.

D. Qual’è la situazione delle risorse?
R. Rispetto ai Paesi più competitivi del Nord Europa, abbiamo in media il 50 per cento di disponibilità in meno. La spesa per R & S è in Italia tra le più basse dei Paesi industrializzati, solo l’1,2 per cento rispetto al quasi 2 per cento e anche più di Germania e Francia. È essenziale che quanto è oggi a nostra disposizione sia speso bene, nei tempi giusti e senza dispersioni, in modo che porti a un efficiente impatto sulle strutture pubbliche e private del Paese. Per questo l’Airi si occupa di facilitare occasioni di incontro e scambio di esperienze e informazioni sui più attuali temi di politica di sostegno tecnologico e di gestione della R & S industriale anche con gruppi di lavoro ad hoc, che rappresentano un forum in grado di formulare documenti, indagini e proposte.

D. In quale modo la riforma dell’insegnamento universitario ha inciso sul settore?
R. Un nostro comitato sta studiando il problema delle lauree brevi, che per il sostegno alla ricerca e allo sviluppo tecnologico non sono adatte: bisogna arrivare per lo meno ai 5 anni di formazione per operare nella ricerca industriale. Si sta, quindi pensando a un corso di integrazione al triennio con un programma di formazione specialistica all’interno dell’azienda. Il dottorato in ricerca, visto in maniera accademica, è spesso poco funzionale per l’industria. Occorrono strumenti efficienti di formazione ad hoc, che può rendere più efficace il ruolo dei laureati nella ricerca industriale.

D. In che modo l’Airi è attivo nella formazione e nell’aggiornamento?
R. Organizza annualmente convegni, seminari e forum su temi di attualità della ricerca industriale. Oltre a un aggiornamento periodico sulle principali novità in ambito di R & S nel mondo, la nostra associazione raccoglie e pubblica i dati statistici nel settore della ricerca in Italia e nel mondo e pubblica ogni due o tre anni periodicamente «Tecnologie prioritarie per l’industria», in cui sono illustrate oltre 100 tecnologie, di interesse per l’industria italiana. Nel 2003 ha fondato «Nanotec IT» per predisporre un osservatorio permanente delle nanotecnologie e facilitare i contatti e le collaborazioni tra imprese italiane e ricerca pubblica, anche per poter partecipare insieme a progetti di R & S nazionali e europei. Spingiamo affinché il Paese si renda conto che con queste tecnologie in tempi brevi potrebbe recuperare competitività in molti settori, tra cui quelli del «Made in Italy».

D. Quali sono, per l’Airi, i collegamenti con il contesto internazionale?
R. L’industria italiana e il sistema della ricerca industriale operano in un quadro di riferimento internazionale; per questo l’Airi ha sviluppato una fitta e qualificata rete di rapporti internazionali. È membro dell’Earto, che raccoglie organizzazioni, enti e centri di ricerca che, in tutta Europa, promuovono o svolgono attività di ricerca cooperativa o su contratto a favore delle aziende e dell’Apre, l’Agenzia per la promozione della ricerca europea collegata con il Ministero. Siamo inoltre in collegamento con analoghe associazioni di ricerca industriale in vari Paesi e curiamo rapporti diretti con gli addetti scientifici italiani all’estero e stranieri in Italia.

D. Torneranno le eccellenze in Italia?
R. La fuga dei cervelli è sempre esistita ma adesso è un fenomeno rilevante per l’aumento dei laureati nelle facoltà scientifiche e per la prassi di recarsi all’estero per completare la formazione. Oggi vi sono grandi difficoltà per trovare in Italia, negli enti pubblici ma anche nelle aziende, posizioni adeguate ai nostri ricercatori per farli rientrare, ma anche infrastrutture e un contributo economico pari alla competenza raggiunta. Per chi esce la possibilità di un ritorno è quasi nulla. La proposta di far ritornare i cervelli offrendo uno sconto fiscale del 30 per cento sull’Irpef per tre anni è ridicola; occorrono un posto sicuro, uno stipendio adeguato, la qualità delle strutture e il livello scientifico a cui sono abituati.

D. Che avviene all’estero?
R. In Europa e America molti italiani ricoprono posizioni rilevanti come professori di ruolo e direttori di grandi dipartimenti o centri di ricerca specializzati, inesistenti in Italia. Il nostro Paese non ha più le condizioni – nelle università, negli enti pubblici di ricerca e nelle industrie – per mettere in evidenza i talenti e premiare in maniera adeguata le eccellenze nella ricerca. Negli anni 50 due Premi Nobel vennero a lavorare all’ISS perché esistevano in Italia strutture di eccellenza. È ora di ricreare strutture di questo tipo. Malgrado tutto abbiamo ottimi ricercatori. Sono state compiute analisi della loro produttività, del rapporto tra il numero delle pubblicazioni e quello dei ricercatori presenti e siamo risultati tra i primi nel mondo. Se tanti cervelli rimangono all’estero, è perché sono valutati in maniera positiva, ma sono stati preparati nelle università italiane.

D. Quali sono le prime istanze promosse dall’Airi davanti alle sedi competenti?
R. Puntano a una semplificazione degli strumenti pubblici a sostegno di ricerca, sviluppo tecnologico e innovazione, e alla definizione di un quadro certo d’interventi. Il panorama nazionale della ricerca industriale e dello sviluppo tecnologico soffre di un sistema universitario e di enti pubblici di ricerca non sufficientemente premiante per i ricercatori oltreché di un debole sostegno pubblico alla ricerca industriale e di interventi sovrapposti e poco coordinati tra livello nazionale e regionale. Si aggiungono una debolezza strutturale dovuta a forte dipendenza energetica dall’estero, costi del lavoro elevati, infrastrutture di ricerca inadeguate e invecchiate, scarsa attività di capital venture. Chiediamo semplificazioni, per esempio tramite il credito fiscale, maggiore trasparenza per gli strumenti di sostegno, il raggiungimento di un quadro adeguato, una politica che abbia un punto certo e autorevole di riferimento senza troppe iniziative sparse nei vari Ministeri, un rapporto efficace tra ricerca pubblica e privata, specifici incentivi e un’adeguata legislazione.

D. In quali settori è il futuro?
R. Sono 105 le tecnologie del prossimo futuro che abbiamo raccolto nel rapporto, «Tecnologie prioritarie per l’industria», con la collaborazione di più di 100 ricercatori e manager della ricerca industriale, coadiuvati da ricercatori di enti pubblici. Sono espressi i principali obiettivi verso cui si muove la ricerca dell’industria italiana nel breve e medio periodo. Per ogni settore sono delineate le prospettive a medio e lungo termine che configurano le basi scientifiche e tecniche dell’innovazione e lo sviluppo di nuovi modelli produttivi e di nuovi prodotti. Tra le 105 tecnologie individuate sono presenti quelle informatiche e quelle relative a microelettronica, energia, chimica, farmaceutica e biotecnologie, ambiente, trasporti, aeronautica, spazio, materiali.

D. Lei è piuttosto ottimista?
R. Se ci concentrassimo per circa 5 anni nelle aree industriali in cui siamo più forti, per esempio nel vasto settore del Made in Italy, potremmo essere ancora un Paese competitivo. Lo sforzo della ricerca industriale, che richiede mediamente 3-5 anni per il successo sul mercato, presenta un elevato rischio imprenditoriale che potrà essere sostenuto anche con un impegno pubblico a livello regionale, nazionale e comunitario, perché gli obiettivi sono tali che richiedono una partecipazione collettiva. Considerando le dimensioni dei problemi di competitività da affrontare e l’urgenza di realizzare soluzioni tecnologiche da portare rapidamente nel mercato, la ricerca industriale necessita di risorse aggiuntive tali da raggiungere la massa critica, oltre che di una programmazione nazionale della politica della ricerca e dello sviluppo tecnologico continuativa sia come sostegno finanziario sia come obiettivi.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Febbraio 2011




GERARDO LONGOBARDI: ECCO LE NOZZE TRA COMMERCIALISTI ED ESPERTI CONTABILI

Dal primo gennaio 2008 c’è un’alleanza, quella tra i dottori commercialisti e i ragionieri commercialisti, che in altri tempi non si sarebbe attesa. Questa unione ha creato una nuova forza, l’Albo unico che, per scelta, non è stato seguito dalla fusione delle rispettive Casse di previdenza, evenienza anzi considerata la principale minaccia derivante dall’Albo stesso. Istituito con il decreto legislativo n. 139 del 2005, l’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili ha acquisito un assetto giuridico riflettente l’evoluzione della professione economico-giuridica-contabile, di antica tradizione ma pronta ad aggiornare le proprie competenze in ragione delle esigenze del contesto sociale ed economico. Per questo nell’Ordine sono confluiti gli iscritti dei preesistenti Albi tenuti dall’Ordine dei dottori commercialisti e dal Collegio dei ragionieri e periti commerciali. Nei primi due mandati successivi all’unificazione degli Albi le presidenze spettano ai dottori commercialisti e le vicepresidenze ai ragionieri commercialisti. Nell’Ordine di Roma ora la carica di presidente è ricoperta da Gerardo Longobardi, la vicepresidenza da Luigi Mandolesi. Del nuovo periodo e dei cambiamenti all’interno di quest’Ordine parla il presidente Longobardi.

Domanda. Com’è, oggi, l’Ordine?    
Risposta. Comprende le circoscrizioni dei Tribunali di Roma e di Velletri ed ha il più alto numero di iscritti in Italia, circa 10 mila, cui debbono aggiungersi gli oltre 2 mila praticanti, con tutte le prerogative, le difficoltà e le opportunità che ciò comporta. Il mio mandato scadrà il 31 dicembre 2012: cinque anni che servono per gettare solide fondamenta per costruire l’Albo unico che dal primo gennaio 2008, data in cui ho assunto l’incarico di presidente, unisce i dottori commercialisti e i ragionieri commercialisti.

D. L’istituzione dell’Albo unico è stata utile per far crescere le due categorie e per farsi ascoltare nelle sedi opportune? Quali i principali cambiamenti?
R. Unire le nostre strutture è stata un’esperienza complessa, ma che abbiamo avviato con molti e utili incontri preparatori. Abbiamo esigenze molto sentite sia dai nostri iscritti sia dall’esterno. L’obiettivo del Consiglio è stato quello di avvicinare le istituzioni all’Ordine. Attraverso l’Equitalia Gerit, ad esempio, i nostri colleghi possono non solo ottenere informazioni sulle cartelle esattoriali, ma anche provvedere al loro pagamento mediante assegni, carte di credito, bancomat; l’Agenzia delle Entrate ha messo nella nostra sede uno sportello dedicato ai professionisti e ai loro clienti, ossia alla maggior parte delle imprese operanti nell’area romana, come ha fatto anche l’Inps.

D. In quali rapporti l’Ordine è con il Comune di Roma?
R. Abbiamo ottimi rapporti con il Campidoglio, grazie anche alla lunga amicizia che lega la nostra professione all’attuale assessore al Bilancio del Comune di Roma, l’on. Maurizio Leo. I commercialisti sono al servizio di un Paese che ha bisogno di cambiare pelle e può farlo solo con una spinta da parte di chi è all’interno del sistema economico e riesce a dialogare con le istituzioni. Sul federalismo fiscale, di cui tutti parlano, abbiamo voluto essere anche propositivi istituendo una Commissione che tratta con il Comune di Roma e ha elaborato un documento, lo Statuto del contribuente locale, da diffondersi nei prossimi mesi. Tale Statuto potrà essere fatto valere anche dai cittadini-contribuenti romani, ed è il nostro fiore all’occhiello perché verrà alla luce grazie al contributo della Commissione paritetica costituita dai rappresentanti della nostra Commissione per il federalismo fiscale e dai rappresentanti del Comune di Roma.

D. E in tema di giustizia?
R. Abbiamo instaurato ottimi rapporti anche con il Tribunale di Roma. I tempi per le esecuzioni immobiliari si sono accorciati nella nostra zona grazie all’intervento dei commercialisti nel ruolo di custodi, per cui sono state accelerate pratiche prima lentissime e ciò è stato riconosciuto recentemente anche dai giudici della IV Sezione del Tribunale di Roma. Abbiamo inoltre sviluppato un protocollo d’intesa con la Sezione fallimentare per accelerare la chiusura dei fallimenti, specie quelli aperti da più lungo tempo.

D. La formazione all’interno della professione è seguita anche da una fondazione: di che cosa si tratta?
R. La Fondazione Telos, presieduta dal collega Giovanni Castellani, è una delle due anime culturali dell’Ordine. Nata con il contributo del Collegio dei ragionieri e dell’Ordine dei dottori commercialisti di Roma prima dell’unificazione, essa svolge attività dirette ad integrare la nostra formazione anche con pubblicazioni distribuite gratuitamente ai nostri iscritti; offre corsi, ad esempio il «Business in English» in inglese sull’economia, a costo bassissimo, presso la sede dell’Ordine e in aule limitrofe che danno anche la possibilità a 150 partecipanti di assistere a convegni e ad altre attività. Cura inoltre la pubblicazione della nostra rivista semestrale Telos, che inviamo a tutti gli iscritti e all’esterno. La Fondazione, da noi finanziata, svolge queste attività ad alto livello, dalla ricerca alla pubblicazione di testi. L’ultimo verte sull’abuso del diritto, argomento sul quale la Corte di Cassazione si è pronunciata con tre sentenze del dicembre 2008.

D. In che consiste l’abuso del diritto?
R. La circostanza che un contribuente ottenga dei vantaggi fiscali senza valide ragioni economiche con operazioni quali per esempio fusioni o scissioni. Una lettura restrittiva delle pronunce della Cassazione porta a non investire in Italia e mette in difficoltà gli operatori economici nel momento in cui avviano un’operazione economica rilevante. Nel nostro ultimo testo sono contenute critiche verso questa giurisprudenza, avallata anche dall’Agenzia delle Entrate. In proposito abbiamo anche elaborato una proposta di legge, e abbiamo intenzione di collaborare con i quattro Ordini più numerosi d’Italia, quelli di Milano, Napoli e Torino, e con il nostro Consiglio Nazionale per contribuire a risolvere una situazione che crea gravi difficoltà a tutti gli operatori economici.

D. Cosa è il CPRC, acronimo di Centro prevenzione e risoluzione conflitti?
R. È una costola dell’Ordine, istituito presso la nostra Fondazione Centro Studi Telos. Il Centro si occupa di mediazione, finalizzata alla conciliazione, con l’obiettivo di contribuire a risolvere l’intasamento delle aule dei Tribunali causato dai milioni di controversie in sospeso. Lo scopo è stato quello di creare una corsia preferenziale per talune di esse. I conciliatori riusciranno a sfoltire le pratiche nelle materie previste una volta che la conciliazione diventerà obbligatoria per legge, nel prossimo mese di marzo. Questa novità legislativa ha causato molto fermento in altre categorie professionali, che hanno visto nella conciliazione un restringimento del proprio ambito di lavoro. Noi crediamo che sia necessario, invece, ragionare più da cittadini e meno da professionisti, perché l’ingolfamento delle aule giudiziarie e la lunghezza dei processi riduce la certezza del diritto. Nei prossimi cinque anni la mediazione potrà determinare un alleggerimento della macchina della giustizia e noi ci proponiamo come soggetti mediatori attraverso il nostro Centro, sorto prima ancora dell’esistenza della legge, quando fummo accusati di essere dei visionari. Fino ad oggi abbiamo formato oltre 200 conciliatori e siamo pronti per gli impegni futuri.

D. In che modo fate formazione?
R. La nostra categoria è stata la prima ad introdurre in Italia la formazione professionale continua. I nostri iscritti devono non solo dimostrare di essere validi sul campo ma dare testimonianza della propria preparazione acquisendo 90 crediti nel triennio formativo attraverso la partecipazione a convegni, seminari, master o con la pubblicazione di articoli di carattere professionale. Ciò significa che, oltre alla normale attività, i colleghi devono dedicare alla formazione, in media, almeno 30 ore l’anno per l’aggiornamento. Dobbiamo impegnare una parte del nostro tempo nella formazione e per questo ho immaginato un Ordine dotato di un solido impianto culturale, quello delle Commissioni culturali e della Fondazione. Inoltre prosegue l’attività della scuola di formazione per i futuri commercialisti, la Aldo Sanchini, dal nome di un presidente dell’Ordine scomparso qualche anno fa. Presieduta dal collega Ludovico Zocca, gestisce corsi di durata biennale, con un anno dedicato alle materie giuridiche, l’altro a quelle aziendali. Le lezioni si svolgono nelle aule dell’Università Sapienza di Roma; abbiamo ottimi rapporti anche con l’Università di Tor Vergata, con la quale il nostro Ordine partecipa in modo paritetico al Consorzio Uniprof, che sviluppa attività di ricerca e di organizzazione di eventi.

D. Internet può aiutare la formazione e abbassare i costi. Lo usate?
R. Il progetto di formazione a distanza tramite internet, voluto inizialmente dal compianto presidente dell’Ordine di Milano Luigi Martino, si basa sul fatto che, per essere continua, indispensabile, utile ma anche meno gravosa, la formazione professionale deve essere erogata anche a domicilio, a costo zero, con rilascio di crediti formativi e con il riconoscimento garantito dell’identità dell’utente. Due anni fa abbiamo presentato il progetto, già operativo, nell’aula Campidoglio del Comune di Roma; vi partecipano gli Ordini di Milano, Napoli e Roma di avvocati e commercialisti, ossia circa 70 mila professionisti. Solo a Roma sono 30 mila gli avvocati e i commercialisti.

D. Ha parlato di due anime culturali all’interno dell’Ordine. Oltre alla Fondazione, qual’è la seconda?
R. L’altro braccio culturale è costituito dalle Commissioni. All’interno dell’Ordine ne abbiamo 37, competenti per aree, alcune istituzionali (Albo, disciplina, parcelle, praticanti), altre squisitamente culturali, dedicate alle aree fiscale, aziendale, societaria, giudiziale. Insieme alla Fondazione, tutte garantiscono lo svolgimento della formazione, avendo raggiunto nel 2010 una media di 1,7 convegni al giorno. Inoltre, ai 350 convegni gratuiti l’anno organizzati dall’Ordine, dalla Fondazione Telos e dalle associazioni di categoria, se ne aggiungono un centinaio a pagamento organizzati dalla Fondazione o da terzi. Questa attività, di cui siamo orgogliosi, ci ha permesso di assicurare a tutti gli iscritti una formazione gratuita di alto livello, anche valutando i risultati ottenuti dai docenti. Questa esperienza credo sia difficilmente ripetibile in futuro, quantomeno a costo zero: la nostra è attività di volontariato rivolto ai professionisti e indirettamente alla loro clientela.

D. Avete trovato resistenze nel procedere alla creazione di un Albo unico?
R. Qualsiasi cambiamento porta reazioni e critiche, ma l’unificazione ci ha offerto l’opportunità di rappresentare le nostre categorie all’esterno in modo unitario. I problemi di carattere tecnico esulano dal nostro Albo e riguardano principalmente la gestione delle Casse di previdenza dei dottori commercialisti e dei ragionieri, le cui sorti abbiamo ritenuto di affidare ai nostri rappresentanti istituzionali.

D. Vi ha aiutato il numero degli iscritti?
R. Mancava un Ordine di grandi dimensioni che ha in sé molte risorse e può farsi conoscere a livelli superiori. Abbiamo investito molto sulla comunicazione; il sito dell’Ordine registra oltre 2 mila contatti al giorno, lo stesso vale per i siti del Centro prevenzione e risoluzione conflitti e della Fondazione Telos. Abbiamo un direttore generale, 20 collaboratori tra dipendenti e consulenti, un ufficio stampa, inviamo un bollettino settimanale a tutti gli iscritti e a chi ne fa richiesta, curiamo una rassegna completa della giurisprudenza della Sezione tributaria della Corte di Cassazione, e tutte le sentenze da essa rese, di mese in mese vengono commentate e inviate ad iscritti e a chi le chiede.

D. In che rapporto siete con gli iscritti?
R. Bisogna andare loro incontro in un momento di crisi economica; di fatto assumiamo il rischio d’impresa dei nostri clienti, visto che questi preferiscono pagare prima i loro fornitori poi i loro consulenti. Siamo impegnati a cercare opportunità professionali nuove. La nostra attività principale è la consulenza fiscale: circa il 75 per cento di essa è «dedicata alle tasse». Occorrono altre possibilità per sviluppare la nostra professionalità, non solo occupandoci di tasse ma, ad esempio, attraverso la conciliazione, la consulenza e l’assistenza finanziaria alla clientela. In questo periodo stiamo anche stilando intese con le banche più importanti.

D. Quale il futuro per i giovani professionisti di oggi?
R. I giovani iscritti al nostro Albo sono tanti e, per avvantaggiarli, ai nuovi chiediamo un contributo minore nei primi 5 anni. Gli introiti che percepiamo sono destinati in larga parte al nostro Consiglio Nazionale; possiamo contare su un’entrata di circa 2 milioni 300 mila euro. I giovani si trovano in situazioni difficili anche per l’assenza di sbocchi professionali, e non intendiamo gravarli di una quota eccessiva; siamo altresì attenti a creare le strutture di aiuto nei settori dell’informazione e della formazione professionale perché possano poi scegliere le strade confacenti alla loro preparazione. Abbiamo una bacheca dove i giovani possono offrire ai più anziani la loro collaborazione.
D. Si parla di giovani professionisti, ma in realtà gli ostacoli non consentono loro di avviare la professione prima di una certa età. Tutto ciò non li penalizza?
R. Per diventare commercialisti ed essere iscritti all’Albo oggi sono necessari una laurea triennale, due successivi anni per conseguire la laurea magistrale, tre anni di praticantato e il superamento dell’esame di Stato. Si può dire che la professione si comincia con i capelli bianchi, di certo non prima dei 30 anni di età. Se si compie il praticantato in uno studio, è necessario avere prospettive che compensino il disagio subito fino a quel momento. È obbligo dell’Ordine dare la possibilità ai giovani di compiere scelte meditate, per questo l’attività del Consiglio dell’Ordine di Roma sarà dedicata soprattutto ad essi e alle opportunità per la professione.

D. Cosa conta, per lei, più di tutto in questa professione?
R. La deontologia professionale è un nostro biglietto da visita: lealtà e correttezza nei rapporti tra gli iscritti e con la clientela. La considero l’equivalente dell’educazione del cittadino. All’esterno, invece, sarebbe opportuno che, soprattutto in materia fiscale, si ponesse una maggiore attenzione nella produzione legislativa perché, se essa consentisse una contribuzione fiscale corretta, aiuterebbe l’evoluzione del Paese. Noi commercialisti siamo dalla parte dei contribuenti e non degli evasori: sulla distanza la correttezza e la professionalità pagano.             (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Novembre 2011




DIANA TEJERA, FIL DI FERRO

DIANA TEJERA. FIL DI FERRO di Romina Ciuffa. Trovo che sia un razzo in partenza per un pianeta di sola psiche, dove si fermano solo coloro che maneggiano anima. I suoi testi riflettono uno sforzo di materialità, per concretizzare l’emozione, ma i suoi occhi sono ad amo e scavalcano il nunc. Anni fa fu Tiziano Ferro ad intervistarla, quand’era speaker di una radio di locale, e a chiederle un autografo; nascono con lui «E fuori è buio» e «Scivoli di nuovo», quest’ultima scritta per un’amica, su basi armoniche di Diana. Ma lei è molto altro: il primo gruppo, le Pink; i Plastico, a Sanremo con “Fruscio”; l’Andalucia, da cui proviene; Trastevere, dove vive; Rio de Janeiro, che l’ha accolta con le braccia aperte come una statua in cima al Corcovado. La caccia. L’inconscio. Il filo costante al quale appendere pensieri da una finestra all’altra. Figlia di due psicologi, per questo tesa all’analisi e condannata a una costante sperimentazione della profondità; una dea della caccia, impavida nello scrutare dentro sé come ad indagare una selva in cui dimorano gli animali selvatici e pericolosi che descrive ed affronta, dando a ciascuno dignità. Oggi esce “La mia versione”, album nel quale son contenuti, senza pudore, tutti i panni da lavare a casa e il fil di Ferro cui sono appesi.

LA TUA VERSIONE

  • La tua o quella di Tiziano Ferro? La mia e la sua, perché amo le diversità.
  • Fuori è ancora buio? Sì, stanno tutti a casa.
  • La parola più vuota. Vuoto.
  • Come inizia un saggio sul costume e sul bontòn? Con un sorriso, un invito a entrare, una tavola apparecchiata e 2 candele.
  • Tra due versioni, esiste una verità? No, una sola verità non esiste.
  • La più sofisticata nudità è nuda o vestita? È seminuda… in biancheria intima, comunque educata.

SCIVOLI DI NUOVO

  • Le parole che non hai pronunciato, dinne 3. Io parlo troppo, ma: 1. No 2. Aiuto 3. Basta.
  • Quanto contano gli “altri”? Tantissimo.
  • Nel diritto penale l’omissione è equiparata all’azione. Vale anche nella vita? No, nella vita a volte aiuta (verità utile).
  • L’importanza dell’errore. Fondamentale per conoscere ed evolvere.
  • Che forma di governo ha un mondo di intenti? Anarchia.
  • Si vive solo facendo? Si vive anche sognando. Ma in questo mondo frenetico, grave di scopi, si rischia di sembrare incapaci e disadattati se non si ottengono risultati.

MA UNA VITA NO

  • Quanto romantica è una storia sbagliata? Non credo nelle storie sbagliate: anche quelle più distruttive hanno dentro qualcosa che ha bisogno di essere visto-affrontato.
  • Come oltrepassi una linea che divide “te da me”? Non lo so fare e, nonostante abbia sempre questa grande tentazione, forse è giusto non oltrepassarla. Mi piacerebbe rispettarla senza sentirla una distanza.
  • Rinasci: dove? In Brasile.
  • Il tuo fiore è… Profumato: il gelsomino.
  • Amore-ombra: in una giornata molto calda accetti il compromesso? Non più… Preferirei tuffarmi in acque fresche e trasparenti.
  • Il vecchio film che preferisci. Ultimo tango a Parigi
  • Il tuo eroe. Maria Schneider
  • Definisci “futilità”. Ciò che non produce.
  • Il massimo dei giorni a disposizione per soffrire. Per amore massimo 3 mesi, per il raffreddore una settimana, per il mal di gola 4 giorni.
  • Di cosa è fatta una vita? Percezione, curiosità, sensi, incontri, sorprese, spazi illimitati, sentimenti, passioni, abitudini, novità.

DEGNI DI ESISTERE

  • Il disgusto esiste? Esiste, si raggiunge e vale la pena raggiungerlo per potersene liberare, per combattere ciò che ci offende e non ci appartiene.
  • Una mente infelice e irrisolta può essere oggetto di un amore puro? Non credo. Ma l’amore puro per me è ancora un mistero.
  • I disturbi della personalità spesso non sono riconosciuti da chi ne soffre. Fuggi o resti? Resto fin quando non provo disgusto ma, ahimè, sono molto resistente e cerco di comprendere profondamente l’altra persona… se riesco senza oltrepassare i miei limiti.
  • L’accusa peggiore mai ricevuta. Egoista.
  • Il confine tra sogno e incubo lo si comprende da svegli. Un tuo sogno, un tuo incubo, un tuo risveglio. 1. Prendere la rincorsa, lentamente sollevarmi in volo e planare con il mio corpo leggero sopra il verde delle colline. 2. (ricorrente) l’aereo che precipita. 3. Raggio di sole che illumina il cuscino e un miagolio rauco.
  • La bugia più grande. Che esistono certezze.
  • Quanto odio c’è nel perdono? Nel vero perdono non c’è odio.

BLACK OUT (con Barbara Eramo)

  • Come ti piace esser legata? Con un doppio nodo.
  • Quanta trasgressione c’è in te? Tanta… ma mi camuffo da brava ragazza.
  • Hai una corda e delle manette, cosa ne fai. Lego mani e piedi e poi uso l’immaginazione.
  • Inventa un alibi per occultare un segreto. Uscendo dal dentista ho preso l’ascensore quando è andata via la luce e son rimasta chiusa lì dentro 2 ore… non c’era nessuno… poi… che complicazione, fa acqua da tutte le parti!
  • Dov’eri durante il blackout di Roma 2003? Non ricordo. Diciamo “black out”…
  • Torna la luce: come ti ritrovo? Confusa e scapigliata.
  • La divisa ha un fascino? Sì, io amo i piloti.
  • La sindrome di Stoccolma implica un’identificazione con l’aggressore. Qual è il tuo meccanismo di difesa predominante in una relazione? Forse la proiezione.
  • Hai mai fatto la parte della sequestratrice? No… ma mi sta piacendo l’idea.

SCOLLATI LE CIGLIA

  • Hai fretta in amore? Sempre.
  • Il proibito cos’è? Ciò che ostacola.
  • Truccata o struccata? Struccata.
  • Preferisci l’imprevisto o la conoscenza? L’imprevisto nella conoscenza.

SOGNO IMPERFETTO (con Alessandro Orlando Graziano)

  • Che forma ha il labirinto? Quadrata.
  • Ascolti l’inconscio nella notte? Sempre.
  • L’imperfezione di un sogno è la perfezione delle proprie paure? No, è la perfezione dell’imperfetto.
  • Un’altra ombra, un altro rapporto in difetto, un altro notturno di perplessità. Perché? Perché i rapporti non sono semplici e io ho un bisogno tremendo di capire…
  • Lo specchio specchia Diana? Quale? A volte quella che aspetto, altre no.

SENSO PRIMARIO

  • Non dormi nemmeno qui, anche se una volta c’è della seta al tuo risveglio. C’è una canzone in cui dormi e fai pure un bel sogno? Arriverà prestissimo.
  • Qual’è della tua vita il senso primario? I rapporti interpersonali e la musica.
  • Di te stessa che giudizio hai? Severo: tutta colpa del narcisismo.
  • 3 cose in cui credere. Corpo, parole, cambiamenti.

MERCURIO

  • Ancora una persona abile. Resti di nuovo? Amo le sfide.
  • Una tua (salda) teoria, inattaccabile. Quella che mi fa sentire che ne vale la pena: la vita è una.
  • La divinità, il pianeta o il termometro? Il termometro.
  • Sei veloce? Velocissima.
  • Le tue ali dove sono attaccate? Ai piedi.
  • Attrattiva dell’agonia. È un’agonia la discontinuità ma il momento del piacere è così intenso da far dimenticare tutto il resto.

L’ARTISTA

  • Cos’è un artista? Colui che possiede la bellezza.
  • L’egocentrismo aiuta? Certo.
  • L’arte è… la vita come dovrebbe essere
  • Il fenomeno da baraccone e l’artista sono distinguibili oggi? Sì, ma i media tendono a confondere.

SOSPENSIONI

  • Ancora sogni! Si può sognare a comando? No. I sogni sono bellissimi proprio perché impertinenti, sfacciati, puri, non hanno sovrastrutture e non si comandano.
  • La tua fantasia più smarrita… Temo di averla voluta dimenticare.
  • Rapporti sempre difficili per te? Sì, speriamo sempre meno… anche se non credo “nell’amore tranquillo”.
  • Dove sei sospesa ora? Tra le note di una nuova canzone… su un filo di parole imprecise. Cerco di fare l’equilibrista.




QUARTETTO D’ELICOTTERI

di ROMINA CIUFFA (pilota di elicottero ed aereo). Pubblicato su AVIAZIONE SPORTIVA, aprile 2009. Questo è un volo e noi stiamo tutti volando. Ed è un sogno e noi stiamo tutti dormendo: lo ha fatto un visionario, il tedesco Karlheinz Stockhausen, eccentrico, narcisista, pur sempre Stockhausen, padre dell’elettronica moderna, uno dei più grandi compositori del XX secolo. «Questo brano è dedicato a tutti gli astronauti del mondo», asserì messianico quando lo consegnò al violinista Irvine Arditti, che gli aveva chiesto un quartetto d’archi, un genere che lui non avrebbe mai scritto. Poi sognò violini e rotori, un ritmo serrato, le pale di un elicottero al pari di violini. E sia: un quartetto d’elicotteri.

Scrive Stockhausen: «Ebbi un sogno: ascoltavo e vedevo l’immagine di quattro esecutori che suonavano in quattro elicotteri in volo. Nello stesso tempo vedevo un pubblico numeroso in una sala di proiezione e altre persone in piedi, fuori dalla sala, in una grande piazza all’aperto. (…) Per gran parte del tempo i quartettisti suonavano tremolii che si mescolavano benissimo con i timbri e i ritmi delle eliche e dei motori degli elicotteri, utilizzati come strumenti musicali. (…) Quando mi risvegliai ebbi viva la sensazione che mi fosse stato comunicato qualcosa dal cosmo di cui non dovevo svelare nulla». Nasce così uno dei maggiori e più complessi lavori musicali mai realizzati, l’Helicopter String Quartet, e diviene la terza scena del Mercoledì, parte della monumentale opera lirica Licht, esagerata, tra le più voluminose mai scritte nella storia della musica e anche esemplare interesse di Stockhausen per la cosmologia, le formule matematiche, le proporzioni geometriche e le allegorie. Nelle sue intenzioni, Mittwoch rappresenta il rapporto tra conflitto e riconciliazione, nel Quartet è il percorso dalla terra al cielo, un viaggio dal terrestre verso l’utopia. I tre caratteri principali del ciclo (Nascita, Conoscenza e Morte) scelgono il teatro del cielo per mettere in scena la metamorfosi che dallo stadio terrestre della Guerra porta all’utopia celeste della Solidarietà.

«I musicisti all’interno dei quattro elicotteri – precisa Stockhausen – devono seguire il ritmo dei motori e delle pale: sono dunque i piloti ad influenzare il tempo dell’esecuzione. Di tanto in tanto i quattro solisti si ritrovano ad eseguire lo stesso ritmo anche se sono isolati e si trovano a qualche chilometro di distanza l’uno dall’altro». In questo modo gli elicotteri divengono strumenti musicali e le pale corde accordate. Il cielo, uno studio di registrazione. In prima mondiale il 26 giugno 1995 quando, nel corso dell’Holland Festival, volarono sulla città di Amsterdam i quattro elicotteri stockhauseniani, arancioni; oggi, per la terza esecuzione mondiale, sorvolano Roma e decollano dall’Auditorium nell’ambito del Festival delle Scienze i violinisti del Quartetto Arditti (due violini, una viola e un violoncello), audaci interpreti di un sogno. Visionari quanto il loro creatore. Il cielo è piovoso al pari dell’inconscio stockhauseniano.

Lui aveva previsto tre microfoni: uno per lo strumento, uno per la voce, il terzo all’esterno, accanto alle pale, ad afferrare il suono del motore, dell’aria, del volo. Gli altoparlanti della Sala Sinopoli restituiscono un rombo, mentre sullo schermo all’interno dell’Auditorium si disegna l’immagine dell’elicottero che si stacca da terra. Quindi, altri tre elicotteri si uniscono e il quartetto degli angeli meccanici traccia un grande cerchio nei cieli di Roma per far “diventare musica un battito d’ali”. Lo schermo si divide in quattro, uno per elicottero, uno per musicista. L’evento è presentato a terra dallo scienziato Piergiorgio Odifreddi che parla di sogni, cieli, angeli e dei calcoli matematici usati per far scorrere il suono nello spazio. Uno dei quattro elicotteristi impegnati è Gianni Bugno, due volte campione mondiale di ciclismo, oggi appassionato di volo: è pilota di elisoccorso ed è stato pilota dell’elicottero di ripresa del Giro d’Italia 2008. L’esibizione è di 18 minuti e 36 secondi. Le voci sono indicate negli spartiti in quattro diversi colori, come le camicie dei quattro artisti; la partitura è complessa, affatto orecchiabile – stride – e gli strumenti non hanno un procedimento melodico definito. Un delirio.

Si diventa Stockhausen tutte le volte che si realizza l’irrealizzabile, che si dà spago a un sogno. Quando si hanno deliri di onnipotenza («Sono stato istruito su Sirio e ci ritornerò anche se vivo ancora a Kürten»). Quando ci si stacca dalla pista e si decolla, fino a quando non si tocca terra ancora. Questo quartetto d’elicotteri dà atto dell’inafferrabilità di un suono sordo, di una sviolinata senza armonia, dell’assordante pesantezza dell’essere, passeggeri a bordo dell’elicottero di un genio; imita con il suono degli archi e delle pale il linguaggio del cosmo; si addentra nell’immaginifico. Sognare di volare si lega al simbolismo della salita, della discesa e della caduta; Freud vedeva nel volo onirico l’espressione di un desiderio fisico non soddisfatto nella realtà. Stockhausen lo ha avverato, in qualche modo. Che ciò sia di spunto anche per il più grande dei sonnambuli.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su AVIAZIONE SPORTIVA (diretto da Rodolfo Biancorosso) – aprile 2009

 




ARTURO GATTI VS THOMAS DAMGAARD, ATLANTIC CITY 2008

IL PUGNO DEL TUONO NON PERDONA (foto e testi di ROMINA CIUFFA, PANORAMA, ottobre 2008, anche al link http://archivio.panorama.it/archivio/Il-pugno-del-Tuono-non-perdona)

Thomas Damgaard, King of Denmark, è arrivato ad Atlantic City per incontrare l’italocanadese Arturo “Thunder” Gatti , per la conquista dello scettro vacante Iba dei pesi medi leggeri. All’undicesimo round tutto deciso da una mano che sembrava fuori  combattimento

È arrivato dalla Danimarca, Copenaghen, solo per battere l’imbattibile. Si è mosso “Lionheart” Thomas Damgaard, King of Denmark (37-1-0, 27 ko), ed è venuto a trovare l’italocanadese Arturo “Thunder” Gatti (40-7-0, 31 ko) ad Atlantic City, New Jersey, per la conquista dello scettro vacante Iba (International Boxing Association) dei pesi medi leggeri. L’atmosfera è quella di una metropoli americana dove Donald Trump impera sorridente anche sulle bottigliette d’acqua e dove si gioca, si gioca, si gioca, fino a perdere tutto: dollari ai dadi, dollari alle roulette, dollari sul ring, anche. Che piovono a bizzeffe. Per un incontro così in palio ce ne sono tanti, e Arturo Gatti ha tutta l’aria di non scherzare.

GUARDIA ORTODOSSA. Non scherza quando imposta la guardia ortodossa, né quando pianta il piede destro davanti e dà una serie di pillole amare al danese mancino. Non che quest’ultimo si faccia parlare dietro. Primo round: i due si studiano. Sono felini, un gatto e un leone, e si guardano, si annusano, passano tre lunghissimi minuti di mosche e zanzare sulla giungla dei combattenti, dimentichi delle migliaia di persone intorno, solo liane di gomma blu. Prende il suo ritmo Arturo, subito, ma Thomas fa pressione, lo circonda, uno, due, tre colpi, quattro, tutti schivati da Gatti il mago. Sparito. Era lì fino a un momento fa, mentre il danese lanciava il suo colpo, ora è sparito. Il prestigiatore è pronto.

EQUO SCAMBIO. Terzo e quarto round: equo scambio di bravura, mentre Thomas il grosso spinge e Arturo la scheggia perde il controllo e il fiato. Aspetterà sino al sesto round per riprendere il controllo, e intanto nel colpire lo sfidante con un diretto destro perde la mano. La scuote come per dire “Ahi”. Ahi, ma si va avanti con una mano sola. Cambia guardia in continuazione, come in uno specchio, l’imprevedibile Gatti mentre Thomas Cuordileone, coraggioso, non perde la pazienza e la concentrazione. Al sesto round Arturo riacquista fiducia e il suo allenatore, Buddy McGirt, funge da mano destra.

COMBATTERE CON UNA MANO SOLA. Non importa combattere con una mano sola, e comincia ad agitare la dolente come Braccio di Ferro, con un movimento circolatorio quasi avesse appena mangiato spinaci. Bruto mena e Olivia è in attesa di vedere chi la indosserà stanotte (scuote ancora: “Ahi”). Il danese è frustrato dai balletti che solo Arturo sa fare: e infatti un leone studia e aggredisce quando è il momento, un gatto sfreccia e schiva. Soffia. Schiva ancora. Fuori le unghie. Colpisce. Decimo round, non è più tempo di ballare e Thomas si fa più aggressivo, fa pressione sulla preda ma si muove su un’unica dimensione.

TRILOGIA. Thunder Gatti è versatile, multidimensionale, può tutto. E non stupisce, allora, che è rimasta alla storia la trilogia Gatti-Ward come la seconda delle più grandi battaglie vissute da due pugili sul ring, preceduta solo da quella Ali-Frazier. Undicesimo round: è un attimo, e precisamente il minuto 2:54, in cui l’arbitro Lindsay Paige blocca la riunione dopo che il Tuono lancia contro il grosso avversario un gancio sinistro, quindi una lunga, esagerata combinazione con la stessa mano destra che aveva perso. La mano “ahi”. Con quella si guadagna un ko tecnico e la vittoria, porta a casa Olivia-IBA e i dollari, propone la sfida all’argentino Carlos “Tata” Baldomir (nuovo campione del Madison Square Garden che il 27 gennaio scorso ha sconvolto il mondo battendo Zab “Super” Judah); poi porta a casa anche due occhi che a stento apre, un abbraccio al suo avversario, sangue e, ancora una volta, il cuore non di un leone ma di un uomo modesto e sano. Più la mano “Ahi”.    (ROMINA CIUFFA)

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NEW YORK: ARRIVANO I FREAKS!

New York, febbraio 2006. Signori e signore, direttamente da Coney Island, New York, i Freaks! I mostri, quelli strani! Insectivora. Lei mangia insetti. Prende una manciata di vermi, li mette in una bustina di plastica, poi li divora. Ancora, scarafaggi. Ottimi. Completamente tatuata dalla testa ai piedi, sul polso spicca un ragno rosso. Quindi prende da una piccola gabbia un topolino, piccolo, bianco, uno di quelli che un bambino a volte fa ruotare ininterrottamente sulla sua ruota per un’intera vita (del topo). Il topetto le corre sul braccio, è bianchissimo, la coda rosa come la pancia di un bimbo. Lei per la coda lo prende e, come una Visitor della serie americana più famosa degli anni 80, piega il collo all’indietro, le si può vedere solo il mento ora, infila il topo dentro la bocca, riabbassa la testa e la coda è ancora lì fuori, che scodinzola un po’ mentre un po’ rallenta. Riapre la bocca, lo prende in mano, lo bacia, lo accarezza. Lei, che è una femmina, si chiama Matilde e si fa un altro giro sul braccio destro di Insectivora. Poi rientra nella gabbietta.  In un attimo Miss Hollyday si contorce all’indietro, con il busto arriva fino a terra e scruta, poi facendo un giro su se stessa lo porta sino ai reni e la testa ora è proprio a quell’altezza, prosegue e la pone in mezzo alle gambe.

Una passeggiata così e si sdraia dentro una scatola, i coltelli vengono piantati dappertutto, poi si rialza et voilà. Passeggia Snake Woman, e come Insectivora con la sua Matilde, ecco arrivare uno splendido boa bianco con striature arancioni e la lingua biforcuta. Qualche metro di serpente che la avvolge interamente, la contempla, la bacia tirando fuori la linguetta velocemente che con altrettanta velocità ripone in bocca, delicatamente la massaggia con il suo lungo e largo corpo. Un esemplare incantevole di animale domestico. La padroncina poi si siede su una sedia elettrica, che l’Uomo Tatuato le accende. Ora è in grado di accendere una lampadina con la lingua, che tira fuori come il suo serpente, velocemente, e fa una fiamma.  L’Uomo Tatuato dice che era talmente povero che ha cominciato a eseguire i lavori più strani, quindi si è fatto tatuare giorno per giorno tutto il corpo e sul viso e sulla testa rasata ha raffigurato tutto il sistema stellare. Nel bel mezzo della fronte ha un pianeta. Poi stelle, costellazioni. Chiede se qualcuno conosce un uomo che ha una maglietta come la sua, con la propria faccia disegnata sopra, e sostiene che i tatuaggi li ha proprio, ma proprio dappertutto. E che ha imparato talmente bene a sopportare il dolore, che si sdraia su un tappeto di aghi arrugginiti e un altro lo mette sul pancione, quindi un uomo di 100 chili e una ragazza di 70 gli montano sopra. Lui lo chiama il «panino umano».

L’altro amico mangia bicchieri di vetro, lamette, tovaglioli, accende sigarette e le ingoia. Un altro ancora si infila un cacciavite e un coltello nel naso mentre Miss Hollyday, la contorsionista, ne ingoia uno da selvaggina e a momenti se lo litigano, poi lo tira fuori dal manico. Insectivora, intanto, sale delle scale fatte di spade affilate che in un attimo tagliano carote. Lei, invece, dice che si è allenata sulla sabbia di Coney Island. Famosa per la sua sporcizia e per essere il ricettacolo di tutte le bottiglie di birra e i vetri delle spiagge newyorkesi.  La ruota delle giostre gira ancora a Coney Island, anche in inverno, mentre a Manhattan, Times Square, si apre il sipario. Il Miliardario! Un applauso. Limousine. Cipriani. Champagne. Première. Frack. Bruscolini. Gli ruba la scena il paralegale: occhiaie, nevrosi, non sa ancora se iscriversi a legge. Sta compilando la scheda del «billable», di ciò che va messo in conto al cliente, includendovi la macchina usata per portare a spasso la nuova ragazza. Sfruttato, non è nessuno. Gli tolgono giorni di ferie – e di vita – come fossero bruscolini, lo fanno lavorare 20 ore al giorno.  Siori e siore, ecco a voi la Personal Trainer! Quella che non deve chiedere, mai. Quella che guarda il cliente correre per un ora al prezzo di 120 dollari più la mancia. Quella che insegna un’ora di qualunque cosa in ogni palestra della City solo per avere tutte le membership (membership uguale potere) e incontrare l’Avvocato che l’inviterà a cena stasera e ai Caraibi il fine settimana. E crede di potere. Tutto. Che si sveglia alla cinque perché è alle sei che l’Avvocato va ad allenarsi, prima del meeting delle sette.

Ma la vera attrazione della serata, ecco qui, immancabile, imperdibile, unico, il broker! No, no, non quello di Wall Street, non titoli mobiliari ma immobili. Lui, l’agente, il padrone della città. Colui che può tutto. Che riesce a negare la tangibilità della cosiddetta «bolla» dell’inflazione. Tutto il mondo ne parla, lui no. Lui, invece, sostiene che «è il momento giusto per comprare a Manhattan». Perché? «Perché te lo dico io». Più preciso? Al dettaglio, testuale: «Perché comprare a New York è sempre un affare». Con enfasi sul «sempre» e sulla «e» lunga, che poi è la «a» di «always». Muove i fili e decide chi deve vivere dove.  Quindi, ladies and gentlemen, l’attrazione, quella che tutti stavano aspettando: l’attrice. Lei sì che ci sa fare. Ha un sito, mica bruscolini. Nel quale spiega cos’ha fatto (ma cos’ha fatto?), dove ha studiato (sì, ma cosa?), e una carreggiata di foto. La sera s’infila nei jet-set. È brava, altro che coltelli, altro che serpenti. Lei s’infila sul serio. E s’iscrive a un corso di regia. Coerente, no? Un attimo di suspence, perché ora sta per arrivare niente poco di meno che l’Amministratore del palazzo. Che con il broker se la intende. Che cambia appartamento nel palazzo a proprio piacimento, che riscuote i soldi e prende la «stecca», che fa rispettare il regolamento. Che si apre il ristorante al piano terra dello stabile.

Senza parlare di quando si mette pure a fare il PR e l’intero palazzo lo usa per fare feste a pagamento di migliaia di persone. Applausi, prego. «Give him love», ancora applausi. Sta per arrivare (applausi) la coppia più bella del mondo (e ci dispiace per gli altri): direttamente dal palcoscenico di Milano, con scalo a Parigi, ecco a voi il Fashion Designer e la Fashion PR, o meglio i «Sono nella moda». Cosa, precisamente? «Nella moda. Organizzo». Cioè, disegni? Come Ridge Forrester? Ma no, solo Forrest Gump. Lui non ha mai preso una matita in mano. E lei conosce tutti e vive nell’Upper East Side di Manhattan, proprio come quelle di Sex and the City, la serie più acclamata degli ultimi quattro anni. Samantha, però, vive nel Meatpacking District, Downtown, e anche quello fa molto tendenza: è infatti lì che si ritrovano l’Avvocato, la Personal Trainer, il Broker.  Non perché ci sia Samantha: Samantha, personaggio della serie, non c’entra, è solo lo specchio di quello che accade a New York. Ma è vero che nella prima pagina dei giornali c’è la foto di Angelina Jolie e di Brad Pitt, la nuova coppia hollywoodiana conosciutasi sul set di «Mr and Mrs Smith», e tutti sono preoccupatissimi per lo stato d’animo di Jennifer Aniston, poverina, lasciata così da Mr Smith e non solo: costretta anche a leggere, tutti i giorni, insieme al caffè, la crasi «Brangelina», grande creazione del Giornalista americano del Gossip (rullo di tamburi: il Giornalista! Quello che scrive in prima persona e nella recensione espressamente dichiara che quel film non è il suo genere), mentre prima Braniston o Jenniferad non l’aveva mai detto nessuno (probabilmente perché non suonava bene, non di certo per le labbra della Jolie).

Poi, nelle pagine successive, sfogliando per caso, en passant, l’omicidio intenzionale (ma, come per magia, è già diventato di secondo grado) della piccola sudamericana Nixmary Brown, 7 anni, trapiantata a Brooklyn, gonfiata di botte dalla madre e poi stuprata, torturata su una sedia di legno e uccisa dal patrigno. Ma via, di corsa ad altro. Signori e signore, ecco a voi il sindaco Michael Bloomberg! Con lo sketch più provato, quello che riesce sempre: «Bisogna fare qualcosa». Il bisogna-fare-qualcosa gli sorge spontaneo in seguito alle accuse rivolte agli ufficiali di zona che hanno ben più volte ascoltato le denuncie dei vicini di casa della famiglia senza fare nulla. Omissione. Bisogna fare qualcosa. Azione. Scavare la fossa alla bambina, questo sì. Dopo una camera ardente aperta due giorni che ha visto file di chilometri e nonne che pregavano e uomini in completo che gettavano fiori e signore che lanciavano baci al piccolo cadavere, e dopo una messa gremita di gente che ha preso il giorno di ferie per salutare la salma, bisogna-fare-qualcosa.

Ma questo è tra la seconda e la decima pagina, dipende. Prima Brangelina e le strazianti parole dell’agente della Aniston in risposta a una stampa troppo attiva che ha pubblicato la notizia della nuova fiamma di Brad Pitt senza che la consorte Jennifer (assicura la portavoce) ancora ne fosse a conoscenza e dopo che il furbetto aveva negato alcun approccio sul set con la Tomb Raider. Commovente, davvero. E, a proposito d’attori, stasera ce n’è uno vero con noi: ho l’onore di presentarvi il Governatore della California, Arnold Schwarzenneger! Proprio lui, siori, quello che ha negato la quarta clemenza per condanne a morte, e l’assassino Clarence Ray Allen, vecchio, cieco, è stato ucciso il 17 gennaio. L’Orso che corre, così era stato chiamato, l’ha scontata, il giorno dopo il suo settantacinquesimo compleanno. Terminator fa un inchino.  Bisogna-fare-qualcosa, bisogna-fare-qualcosa, suona il ritonello da un’armonica scordata. Jennifer Aniston va aiutata, e (spettatori, lorsignori, «the last but not the least», il Presidente degli Stati Uniti d’America!) New Orleans ha già abbastanza soldi dai fondi europei. Il palco ora è sporco, lo spettacolo sta per finire e come scenografia resta la sola sedia di Nixmary. Si chiude il sipario. Insectivora, insieme al topo Matilde, non ha più voglia di mangiare; Miss Hollyday, l’Uomo Tatuato, il Mangiatore di Vetro e quello di Coltelli si alzano. Nessun applauso questa volta.  Lo spettacolo dei Freaks non è piaciuto. Snake Woman si arresta, stenta, tentenna, non si alza ancora dalla sua sedia elettrica e il suo serpente arancione, che la guarda e aspetta un suo cenno per muoversi, capisce immediatamente che la sua padrona quella sedia non la vuole lasciare perché è più sicura della sedia di Nixmary. Arriva il Panino Umano, la solleva e la porta via ancora seduta. Tornano a Coney Island. Non valeva la pena arrivare fino alla città per vedere i Freaks, i mostri.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Febbraio 2006




JEAN-MARC MORMECK VS O’NEILL “SUPERNOVA” BELL (MADISON SQUARE GARDEN, NYC Jan 07/2006)

Romina Ciuffa, corrispondente da New York per Pound4Pound, Los Angeles
on
http://www.pound4pound.com/FightReport/2006/FrenchR.htm
JEAN-MARC MORMECK VS O’NEILL “SUPERNOVA” BELL (Madison Square Garden, New York, January 7th, 2006)

Charming Victory With A French R: Jean-Marc Gilbert Mormeck
Story & Photos By Romina Ciuffa

People are still confused: is he French or Caribbean? Guadalupe, 1,845 miles from New York, 4,360 miles from Paris, 2,138 miles from Montreal and 310 miles from San Juan. It is an archipelago in the Caribbean Sea comprising several distinct islands. Guadeloupe proper is made up of two islands, Basse-Terre and Grande-Terre, separated by a seawater channel, the Riviere Salee. The island was first inhabited by the Arawak Indians who called it Karukera, which means Island of Beautiful Waters. Columbus discovered the island in 1493 during his second voyage and Christened it for Santa Maria de Guadalupe de Extremadura in the name of the King of Spain. A permanent European settlement was not established until 1635 when the French laid claim to the island. Guadeloupe was officially annexed by the King of France in 1674. The British, however, fought the French and occupied Guadeloupe from 1759-1763. After centuries of fighting between these two nations, Guadeloupe was restored to France in 1815 by the Treaty of Paris which designated the island French territory, in exchange for all French rights to Canada. Slavery was permanently abolished from the island in 1848.

On June 3rd, 1972, in Point-a-Pitre the Caribbean Jean-Marc Gilbert Mormeck was born the only child to Fulbert Mormeck and Sonia Harris. When he was 6 years old, the family moved to Bobigny, an European town and commune of France in the suburbs of Paris, chief town of an arrondissement of the Seine-Saint-Denis département.
With a not common charm, Jean-Marc holds the World Boxing Association and World Boxing Council belts. This cruiserweight champion (31-2, 21 KO) is the first of 745 boxers in his division’s records of the world rank. He looks deeply and smiles with no arrogance. He is ready to conquer the International Boxing Federation’s belt held by the Jamaican O’Neill “Supernova” Bell.

“I think that O’Neil Bell is a great champion because he has his IBF title: this will be a tough match because he is not going to want to let his belt go away, but he has to get ready for this because I am going to take it”, he says, knowing that the real fight of the night could be the one between him and the Jamaican: people bet that the other main fight of the night, welterweight WBC-WBA-IBF champion Zab “Super” Judah vs. the mandatory opponent Carlos “Tata” Baldomir, is a mere formality, not more than a step for Judah to get to Floyd “Pretty Boy” Mayweather.

Charming Jean-Marc doesn’t have much trouble maintaining his championship weight of just under the cruiserweight limit on 200 pounds. “I enjoy eating”, he says, “but I also enjoy training and being the unified WBA and WBC cruiserweight champion, so I don’t see weight as any problem. They always said that titles are harder to keep than to get, so I keep that in mind”. The cruiserweight forgetten division is a stepping stone for big guys moving up to heavyweight, isn’t it? “It is kind of a dream to go up to heavyweight”, answers the champion. “I will be moving up to heavyweight, but I have no schedule. If I would have to choose someone to fight, it would be WBO heavyweight champion Lamon Brewster because he is really strong”.

In a brief 17-bout amateur career, Jean-Marc won all but two of his matches, eight by knockout; then, he moved to the professional ranks in 1995. By 1997, he had four wins and two losses that came in back-to-back appearances in May and June of that year. He hasn’t lost a match since. “I knew at that time of those losses that I had to work harder to achieve my dreams”, he recalls. “If I got discouraged, I would never be anything in boxing and I always wanted to be a world champion. That was the time for me to re-dedicate myself to the sport”.

Mormeck is currently riding a 28-fight winning streak with 19 of those victories coming by way of knockout. Among those victories was the French light heavyweight championship, which he won on November 10th, 1998, winning a decision over Alain Simon. He made one defense of that crown before winning the WBA International light heavyweight championship in Venezuela by stopping Livin Castillo in the 3rd round on December 16th, 2000.

The 33-year-old platinum blonde bearded won the WBA belt in February 23rd, 2002 in the Palais des Sports of Marseille, fighting in front of the referee Stanley Christodoulou against the American Virgil Hill (49-5-0, 54 KOs) and TKOing him when Hill failed to answer the bell for Round 9. He comments: “I was most impressed with my fight with Virgil Hill because he had great experience. Regarding the two losses, I learned a lot of lessons. When I get in the ring now, I want to win, win fast, and win with a lot of points. I do not want to take any risks”.

On August 10th, 2002, he took the title home to France and successfully defended against Dale Brown and, on March 1st, 2003 in Las Vegas, Mormeck stopped Alexandre Gurov (TKO) to successfully defend his title for the second time.

There he got his WBC crown in April 22nd, 2005, from Wayne “Big Truck” Braithwaite (21-2-0, 17 KOs) in front of the Centrum Center crowd of Worcester, MA, referee Dick Flaherty, with a unanimous decision (judge Peter Trematerra 116-110; judge Chuck Hassett 114-112; judge Glenn Feldman 115-111). Jean-Marc’s fists flew and he dominated and dismanted the undefeated record of the WBC champion in a twelve round all out brawl. With the two finally meeting after the fight moved back just about six months because of the foot injury Mormeck sustained and with the two hard-hitting hungry fighters in the ring, in the championship rounds the French charmed guy established his jabs beating Wayne to the punch and even with the fight out of reach in Round 12 the opponent crowned around his losing effort for the win.

“I always dreamed of being a world champion”, he said after the fight, “but I never even fathomed that I could win multiple world titles. I am achieving more in boxing than I had been able to dream of, which is a delight for me”.

He is the first unified cruiserweight champion since Evander Holyfield, the Alabama guy who dominated the division for years, winning his first world title in 1986 against the WBA’s world cruiserweight champion Dwight Qwai and, on October 25, 1990, becoming the heavyweight champion of the world when he dropped IBF, WBC and WBA champion James “Buster” Douglas in three rounds. Holyfield was the first cruiserweight champion to win the heavyweight title, retaining his first title defense against George Foreman (65 KOs in 69 victories). A first fight with Mike Tyson was scheduled for November 8, 1991, but on October 18, the bout was cancelled when Tyson injured his ribs. Holyfield reclaimed the title from Bowe even after a parachuter – now known as “The Fan Man” – landed in the ring behind Bowe in the seventh round, causing a 21-minute delay in the bout. This victory enabled Holyfield to become the fourth fighter in history to regain the heavyweight title of the world. He became the third fighter – joining the ranks of Muhammad Ali and Floyd Patterson – to regain the title in a rematch, lost  in 1994, against Michael Moorer in a narrow 3-2 decision. Directly after the fight, Holyfield was rushed to a hospital where it was determined that he was going into heart failure.

Holyfield suffered the first knockout of his career in a non-title bout against Riddick Bowe. In November 1996, he finally met Mike Tyson in the ring, knocking him out in the eleventh round. In a 1997 rematch, Tyson bit him on one of his ears and lost a point and, after biting Holyfield on the other ear, he was disqualified. By 1999, WBC World Champion Lennox Lewis was ready to take on Holyfield. The match was declared a draw after twelve rounds. A rematch eight months later went to Lewis, with Holyfield losing by a unanimous decision. When Lewis was stripped of the WBA belt in 2000 for failing to defend his WBA title against top-rated contender John Ruiz, the WBA declared the title vacant and ordered Ruiz and Holyfield to meet for the world title belt. In August of the same year, Holyfield won on a 12 round unanimous decision and became the first boxer in history to be the world heavyweight champion four times. Holyfield gave him two rematches, won by Ruiz who retained the title.

“I have great respect for Holyfield’s career, for the warrior, the man, for everything he has done. It would be a great honor and something magic to do what Holyfield did”, states Jean-Marc.

O’Neill Bell comments: “My pro debut was against Holyfield’s nephew, so I have always been the underdog. It is just like another day to me. It really doesn’t discourage me. It actually gives me something to fight for even more to disprove my critics”.

The French Charm, now, is the one. He has strong arguments against Supernova: first of all, a common opponent, the Canadian banger Robert Dale “Cowboy” Brown (35-4-01, 22 KOs). August 10th, 2002, Palace des Sports, Marseille: Mormeck TKO’d Brown in Round 8. Aug. 10, 2002. May 20th, 2005, Seminole Hard Rock Casino, Hollywood, FL: Bell won a controversial 12-round decision.

A common opponent doesn’t necessarily hold a prediction, although it reveals important facets of both men’s game.

With Bell, Brown failed in his third attempt to win a cruiserweight world title. Hard punching “Give’em Hell” Bell captured the vacant IBF cruiserweight belt by scoring a 12-round unanimous decision over the durable but outgunned Mr. Brown. Brown came up short in his previous tries to win cruiser crown against Vassiliy Jirov and Jean-Marc Mormeck. Bell landed the harder and cleaner shots while Brown struggled to sustain his attack although he periodically jolted the Jamaican with several stunning left hooks to the jaw. Judge Richard Green tallied 117-111, while Robert Hoyle scored it 116-112 and Michael Pernick had it 115-113, all for the new champion Bell.

Mormeck entered the Cowboy’s ring wearing the Indian headdress given to him by Hill after their second fight. Brown boxed effectively in the early rounds, Mormeck pressed forward and steadily wore down his opponent with body punches. He staggered Brown and cut him under the left eye in the seventh round, then rocked him with a series of punches in the eighth and the referee stopped the fight at 2:00. After seven rounds, the French boxer led 69-64 and 69-65 twice.

There have been some changes in Mormeck’s corner and camp since the Braithwaite fight. Lucien Dauphin, who trained him for that fight, and advisor Natalie Christol no longer work with him.

“I have a new trainer, Nicolas Riffard. I think he is more appropriate for the fight with Bell. I have known him for a long time, and trained with him a few years ago”, says the boxer, been training at the Maurice Baquet Gym in Pantin, France. He was scheduled to come to the United States at the end of November 2005 and train in Ohio at Don King’s camp. “My trainer has watched tapes of Bell. I saw three rounds. Bell is good, but I am better. I am very confident of victory”. Jean-Marc was always a good athlete and played futbol (soccer) as every European guy (so, by this, can anybody believe that in Europe soccer is not a “pussy-sport”?). He participated in Thai-style boxing and he first became interested in boxing by watching the fights on television. “I love watching boxing, especially Muhammad Ali, Marvin Hagler, Mike Tyson and tapes of Joe Louis. I always dreamed of fighting in America and Don King being my promoter as I had watched him and his fights on television since I was a youngster. This has been a dream come true for me: it made me more famous by simply signing with Don King than winning fights. That says a lot about what Don King means not just in America but in France and around the world”.

It is been said by The Boxing Times: “Mormeck is one of those guys who will take two and three shots to land one hard blow. What he lacks in boxing technique, the Frenchman makes up for with overall strength and durability. Mormeck likes to put his head on your chest and blast away with both hands. He is a fighter who gets stronger and tougher the longer the bout goes, and he is a hard charging finisher. He is a crowd pleaser who likes to cut off the ring and force his opponent to trade leather. What he lacks in lateral movement he makes up with power in both hands but unfortunately often those punches come at just one shot at a time. Look for hard right hand uppercuts in close quarters to do damage. The only two losses on Mormeck’s record came very early in his career in 4 and 6-rounders. He is on a 26-fight win streak and very confident when he squares off against Bell”. But he is also “a one-dimensional fighter that struggles against athletes that box, jab and move. He needs to cut off the ring and get inside to be effective, if that doesn’t happened he is at a real disadvantage. With the exception of his title fights, a number of his opponents were rather lackluster and sported less than impressive records”.

How does he comment about his style? “I do not like blood. I just love to win. As far as my advantages, it is not a question of size or speed; it is just a question of will. Bell did not want this fight. I have always wanted this fight and now I have got it and this is my advantage”.

His models: “I liked Muhammad Ali with George Foreman because although Foreman had all his natural strength, Ali used his experience and his head to overcome the strength. I also liked Hagler and Hearns because even when Hagler was having difficulty, he was determined to win. Then there was Felix Trinidad with Vargas, because Tito had such a tremendous punch and desire. Then there was Mike Tyson with Bruno because he was ferocious. Then Roy Jones, who beat James Toney by being so smart”.

The French champion does not have a nickname. Bell said: “I heard one of the selections that stuck out the most was Mighty. But in turn, I remember the cartoon Mighty Mouse: I would think Mighty Mouse would be a better title for him after this fight”.

Well”, states the Charming Boxer, “I really do not care about those his nicknames. I am just waiting for the fight. That is all. Americans have always asked me why I don’t have a fighter nickname, so I have decided they will choose for me”. With several submissions from his American fans, Jean-Marc has chosen “The Marksman”, “Mighty”, The Wrecker”, “Black Thunder” and “Hit the Deck” as his favorites and he will find out his nickname when Jimmy Lennon Jr., Showtime’s in-ring announcer, will introduce him in the fight.

Wouldn’t it be better a French or a Caribbean nickname for this French charming guy? Actually, he is mighty, he is a marksman, a wrecker, a black thunder and, surely, he hits the deck. He’s all of these nicknames. But he’s a charming wrecker. And he really does not care. Besides, the most charming man of boxing has two businesses: one is JMM Management, which manages his and few other artists’ careers; the other is a sportswear company, Mormeck Sport, which manufactures and sells clothes. This platinum blonde bearded, born in the country with the hottest and clearest see in the world and moved to the sexy France, is more than a champion, when he lucidly looks at you, wrecking and compound eyes, and says “victory” with his French R. (ROMINA CIUFFA)