DROGHIAMOCI SULLE ALI DELLA LEGALIZZAZIONE

DROGHIAMOCI SULLE ALI DELLA LEG-ALI-ZZAZIONE di Romina Ciuffa. Pervasi dal braccio di ferro tra Hillary Clinton e Donald Trump, grande mela in bocca a colpi di Adamo ed Eva (l’amore tra i due è simile: la tentazione di conquistare l’America è più grande di quella del serpente divino) perdiamo di vista altre questioni che sono all’esame degli americani. Prima fra tutti la legalizzazione della marijuana: gli stellati blu e rossi sono infatti chiamati oggi a decidere se fumare liberamente spinelli ad uso ricreativo. Vexata quaestio, che da sempre vede in opposizione da un lato le esigenze dell’inviolabilità dei diritti e delle libertà, secondo cui non c’è nessuno che, in uno Stato democratico (anche ove conservatore, che comunque è solo una tonalità della democrazia), possa vietare a un cittadino (abitante di una città, e solo per questo oggetto di e soggetto a regole) di compiere su se stesso le azioni che ritenga funzionali, anche quelle disfunzionali. Un esempio lampante, quello dell’aborto: il miliardario americano proporrà alla Corte Suprema un giudice conservatore che si “destreggerà” l’argomento in senso restrittivo, l’ex first lady – in quanto donna e in quanto democratica – tutelerà il diritto all’aborto oltre a “sinistreggiarsi” nelle questioni umane, gay friendly, femminili quando non femmniste. Dall’altro lato, innegabile, la consapevolezza che, allo scoccare della liberalizzazione della marijuana, quest’ultima consentirà un incasso governativo non indifferente con un ROI (ritorno dell’investimento) che è il caso di definire stupefacente. Certo togliendo (ma davvero?) il mercato dalle mani dei trafficanti (chi fuma legga: l’erba sarà più buona), ma mettendolo nelle mani dei politici (associati dall’uomo di strada e pro forma a droghe pesanti, soprattutto al consumo di cocaina). Un po’ come il nostro monopolio delle sigarette: meglio comprarle al tabacchi che per strada da un africano sotto gli occhi della polizia.

I diritti li abbiamo. Non mi spaventano. Ricordo ogni mattina, appena mi alzo e subito dopo le preghiere, l’articolo 2 della Costituzione italiana che già nel 1947, primo dopoguerra, riconosceva e garantiva (attraverso la Repubblica) i diritti inviolabili dell’uomo. Ma anche l’articolo 32, che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività (e garantisce cure gratuite agli indigenti). In materia di legalizzazione della marijuana, queste due norme vanno lette in combinato disposto, come fossero una sola. E deve farsi un rinvio formale al concetto di salute, mutevole nel tempo: cos’è oggi la salute? La marijuana fa bene?

Sì, la marijuana fa bene. A scopi curativi. Nulla quaestio.

Procediamo: la marijuana fa bene, a scopo ricreativo? Da una risposta approssimativa e rapida, da tavolata, diremmo di sì: fa ridere, fa socializzare, fa addormentare. Aggiungo però: fa stordire, fa guidare male, ricrea una situazione comparabile allo stato d’ubriachezza. Causa sedazione, stato stuporoso, sonno. Prima eccezione: ma l’alcol è legale. Perché allora non una droga leggera? Entrambi – alcol e stupefacenti, più in generale sostanze con effetti psicoattivi – sono inseriti nel DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, sistema nosografico per i disturbi mentali e psicopatologici più utilizzati da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo, nella pratica clinica e nella ricerca. Ogni disturbo è suddiviso in varie classi, e ciascuno di essi ha una dedica: “Disturbi correlati ad alcol o altre sostanze”, ossia è possibile che un disturbo mentale, anche grave, possa essere causato dall’uso o abuso di sostanze farmacologicamente attive, in cui è presente un agente chimico che produce effetti sull’organismo alterando le normali funzioni biologiche, psicologiche e mentali, modificando il tono dell’umore, i processi cognitivi di vigilanza, attenzione, memoria, la percezione sensoriale, e non da ultimi i comportamenti, spesso provocando temporanee o irreversibili modificazioni delle funzioni cerebrali. 
Tornando a noi. Fa bene la marijuana usata non a scopo terapeutico e perché l’alcol è legale? Non c’è un motivo ben preciso, oltre a ricordare il superato proibizionismo americano. Indubbiamente, bere un bicchiere di vino non induce a berne un secondo; fare un tiro da uno spinello impone con effetti immediati all’organismo di farne un secondo e proseguire. La dipendenza è immediata, anche se transitoria. Se ad essere colpito è l’abuso, non già l’uso, allora si può con certezza dire che è più semplice per un giovane responsabile non abusare di alcool che non abusare di cannabis o marijuana, che sono come le ciliegie: una tira l’altra. 
Ma tornando ai diritti inviolabili ed al collegamento con il diritto alla salute, potremmo comunque rivendicare allo Stato molta della nostra salute che non ci viene garantita (un esempio fra tutti: la mala sanità italiana), ed è altresì assurdo che lo Stato non paghi alle donne gli assorbenti mensili. Ma la questione non viene passata al vaglio, in quanto è più importante soffermarci, a tavola, a disquisire sulla necessità che vi sia una legalizzazione delle droghe cosiddette leggere. USA: sono 4 gli Stati che acconsentono all’uso quasi libero della marijuana, Colorado, Alaska, Washington ed Oregon; sono chiamati invece a votare, nella giornata di oggi, Arizona, California, Nevada, Maine e Massachusetts. Si tratta di referendum per l’uso delle droghe leggere a scopo ricreativo, prescindendo dagli Stati che già lo hanno ammesso a scopo medico.

A New York, oggi basta fare una telefonata ad un amico di fiducia, che darà per scontata la nostra richiesta. Ad un orario ben precisato giungerà il delivery: un ragazzetto ben vestito, non troppo, ma che possa sembrare un professionista, uno stagista, non uno spacciatore dei nostri. Giungerà forse in skate, comunque con uno zainetto. Citofonerà in casa ed entrerà. Si parlerà del più e del meno per un po’, come buoni amici. Lo si inviterà a sedere sul divano. Non uscirà dalla casa per un po’, per non destare sospetti, e per un momento avrete il vostro migliore amico ospite, a lui offrirete un succo di frutta o dei pasticcini. Così lui aprirà la sua valigetta, contenuta nello zainetto, e vi brilleranno gli occhi: sarà amplissima la scelta. Una serie di tubetti ben confezionati, con nome e foto che contraddistinguono le spezie. Il frontman vi indicherà gli effetti di ciascuna di esse: lei fa più ridere, lei è più forte, lei è più calmante e così via. Un avviso: la cannabis si trova raramente e costa molto. Ma si può richiedere e comprare con facilità. Così lui, il vostro migliore amico dallo zainetto verde, vi farà provare la vostra scelta e, soprattutto, la proverà con voi. Come la guardia del corpo di un boss mafioso che prova il suo piatto prima, per verificare che non sia avvelenato. Potete provarne varie. Quindi, sceglierete la vostra, la pagherete, e dopo altre chiacchiere il vostro migliore amico andrà via. Alla prossima. Non ci sono africani per strada, il rischio penale è troppo alto. Non di certo quello che c’è in Italia, dove i nostri spacciatori sono lasciati a spacciare davanti alla polizia che retate non fa. D’altronde, negli States essere ubriachi alla guida di un’autovettura costituisce reato penale.

Io non mi preoccupo della concettualizzazione dello spaccio legale. Io mi preoccupo delle persone. Conosco la società in cui mi trovo e so che è una società in cui non si hanno limiti, né li hanno i politici, né li hanno i cittadini. Mi spiego meglio: so che se le droghe “leggere” fossero legalizzate, liberalizzate, non sarebbe quel mondo ideale alla “vogliamoci bene”, un nuovo ’68, un Che Guevara piegato alla causa, centri sociali finalmente puliti, case popolari e lotti di Garbatella impiegati per davvero dalle nonne che li hanno avuti per diritti quesito. So anche che si instaurerebbe un regime fastidioso, quello della politica, che spenderebbe i suoi bla bla bla per impossessarsi delle migliori partite di marijuana, o appaltarle ai nipoti con gara pubblica. Quale droga vogliamo fumare? Come vogliamo intossicarci?

In Italia non è possibile dimenticare la psicologia dell’utenza: se ci danno una mano, ci prendiamo un braccio. Se ci danno una canna, torniamo a casa con il lanternino. Non siamo ad Amsterdam, non siamo olandesi che lavorano, hanno uno stipendio concreto, un apparato governativo funzionante, regole e limiti. Qui non ci siamo messi la cintura fino a poco tempo fa, mentre in tutta Europa era obbligatoria, ed ancora giriamo con dei gingilli in macchina da inserire al suo posto per non farla suonare. Noi andiamo ad Amsterdam a farcele, le canne. Ma qui il costo delle sigarette è aumentato, la gente fuma tabacco per risparmiare e compra cartine e filtri dal bengalese che gira per i locali e per le strade. Inoltre non esistono più pacchetti di sigarette da 10, “per tutelare i più giovani che, avendo meno disponibilità finanziaria, avranno così più difficoltà a comprarle”: no, perché vendere pacchetti da 20 sigarette conviene di più, dà un incasso maggiore e obbliga a non scegliere. Così, improvvisamente, mi viene in mente Rio de Janeiro, dove almeno il brasiliano di strada e le edicole stesse mi vendono una sigaretta o due, se voglio, e sono io a scegliere il numero del mio consumo. Ovviamente ad un costo maggiore, ma di mia opzione.

Non mi fido dell’Italia. Le droghe non sono a scopo “ricreativo”: la ricreazione si fa con un film, con gli amici, con un libro, suonando, scrivendo, vivendo, emozionandosi. Non tarpandosi le ali, che con la leg”ali”zzazione sono solo il centro di una parola che i nostri nonni non avevano nemmeno in mente, presi com’erano a superare guerre, a coltivare terre, ad educare i figli, a guardarsi negli occhi, ad affrontare i problemi.  (Romina Ciuffa)




ME NE VADO ERGO SUM

ME NE VADO ERGO SUM di Romina Ciuffa. Io me ne vado. Ergo sum. State facendo di tutto per cacciarci. Ci avete cresciuto con le lire, non con i flauti. Nella mitologia greca il dio Hermes uccise una tartaruga all’interno di una grotta, e nel suo carapace tese sette corde di budello di pecora costruendo la prima lira, che regalò ad Apollo al quale aveva rubato i nervi dei buoi per fabbricarla. Il dio del Sole, al suo suono, si commosse a tal punto da offrirgli un anello d’oro (primo sinallagma); regalò poi la lira ad Orfeo, cantore che piegò, suonandola, gli animali e tutta la natura. Tanto fece associare la lira alle virtù apollinee di moderazione ed equilibrio, in contrapposizione al flauto dioniseo che si associava ad estasi e celebrazione.

Così ci avete cresciuto con moderazione ed equilibrio, lira e Apollo, un dopoguerra che avete temuto e che vi ha fatto moderare ed equilibrare. Durò poco: una volta sbloccati dalle vostre prima razionali, poi irrazionali paure (simili a quelle derivanti dal disturbo post traumatico da stress, che segue una guerra o un evento di portata negativa), siete passati al flauto dioniseo: l’euro. Estasi e celebrazione. Dopo averci fatto fare l’Erasmus, avete invidiato i giovani che potevano trascorrere mesi di studio all’estero con le borse di studio delle università, e siete voluti entrare in Europa anche voi. Ci avete coinvolto in questa impresa e vi siete dati a Dioniso, il dio notturno, quello delle marachelle e delle baccanti. Avete così festeggiato con veline e olgettine, avete scambiato la lira per il flauto, vi siete sentiti europei mentre i vostri figli si interrogavano sul proprio futuro.

Avete bevuto vino made in Italy, spacciandolo per commercio ed export, avete liberato i sensi, vi siete atteggiati a grandi, una confraternita legata a Bruxelles, intanto l’Europa cresceva e Londra pensava. Avete giocato a fare gli ambidestri, usare entrambe le mani, prima la destra, poi la sinistra, poi la destra, poi la sinistra, accaparrandovi maggioranza e opposizione e mischiandovi. È un’ambidestra che vi parla: a volte sbaglio mano e cado dalla bicicletta, perché non ricordo qual’è quella giusta da usare in quella circostanza, scrivo con entrambe, arrotolo gli spaghetti con entrambe ma mangio il sushi solo con la sinistra. Ci sono cose che si possono fare solo se si è in grado, e voi, i politici, gli imprenditori, le lobbies, non siete ambidestri. Si è mancini o destrorsi quando si governa una nazione, si prendono delle posizioni e non ci si può permettere di cadere dalla bicicletta del Paese.

Con l’euro abbiamo visto restringersi i nostri contanti come fossero stati sbadatamente lasciati nei pantaloni in lavatrice. Abbiamo assistito, impotenti, alla rovina delle pensioni dei nostri nonni, dei nostri genitori, ed abbiamo perso ogni speranza di riceverne nel futuro. L’Italia continua a ripetersi che la crisi sta finendo, ed è proprio come quando una storia d’amore finisce e del dolore ci si ripete come ossessi: «Passerà». Ma si sa che l’unico modo per cui cessi è il chiodo schiaccia chiodo. Questo chiodo, inoltre, dovrà tenere un quadro di qualità, non un disegnino. La crisi non finirà senza un grande disegno, un Van Gogh, se europeo, un Caravaggio, per il made in Italy, con un chiodo che regga.

Io me ne vado, qui lo dico e qui lo nego. Nessuna intenzione di suonare questo flauto traverso, che di traverso va. Il flauto è uno strumento che nasce dalla bruttezza del dio Pan, invaghitosi della fanciulla Siringa la quale, inorridita dal di lui aspetto caprino, chiese a suo padre – la divinità fluviale Ladone – di trasformarla in modo che Pan non potesse riconoscerla. Così divenne una canna della palude, ma il suo innamorato, presente alla trasformazione, non la lasciò andar via e, sofferente, sospirò. Riporta Ovidio, nelle sue «Metamorfosi»: «(…) come Pan, quando credeva d’aver ghermito ormai Siringa, stringesse, in luogo del suo corpo, un ciuffo di canne palustri e si sciogliesse in sospiri: allora il vento, vibrando nelle canne, produsse un suono delicato, simile a un lamento e il dio incantato dalla dolcezza tutta nuova di quella musica». Così continuerò a parlarti, disse il dio. Un lamento. E noi, come la ninfa Siringa, costretti in una palude, trasformati nelle canne dell’euro dove soffiano i venti avversi dei governanti, che si fingono pieni d’amore per noi.

Ho nostalgia della lira, ammiro gli inglesi che si sono resi conto che più che una comunità quella europea è una comune fatta di «freakettoni» che non fanno altro che campare sulle spalle altrui. La fuga dei cervelli è una pena meritata. Nessuno ci ha dato il buon esempio. Appartengo a quella generazione di quarantenni che hanno vissuto senza telefonini ed internet per i primi venti anni di vita, che hanno sperato, che hanno visto Roma sotto la neve del 1985, e che improvvisamente si sono ritrovati a leggere i «tweet» del presidente del Consiglio, a vedere le foto del sindaco Raggi su Instagram, ad ascoltare Bruno Vespa e Gigi Marzullo tutte le notti come un supplizio, ritrovandoseli nella bolletta della luce.

Mi vergogno degli adulti di oggi, flautisti d’eccezione, che sperperano il mio patrimonio artistico, culturale, economico, intellettuale, danneggiandomi. Che per primi «postano» su Facebook, avallando il consumismo zuckerberkiano (ma, sottolineo, Mark Elliot Zuckerberg è del 1984, con la fortuna di essere nato in America e non a Little Italy). Me ne vado dall’Italia innanzitutto col cuore, che è già via. La cardiologia fa passi da gigante, ma non miracoli. L’Italia non si ama più, si suda. Io vado via, con la coda tra le gambe, per salvaguardarle dalle buche che non sono mai coperte. Me ne vado con il cervello, perché è già altrove che mi trovo. Non ascolto i comizi, non credo alle manovre mediatiche, non mi interesso di politica. Personalmente, suono il pianoforte: abituata a tasti bianchi e tasti neri, conosco le difficoltà e so affrontarle come si affrontano i diesis e i bemolle anche delle scale più complesse.

Io me ne vado, se non fate qualcosa per cambiare il mondo che governate e che vi tenete, se non la smettete di spartirvi il bottino, se non finanziate la ricerca, se non date, invece di creare, posti di lavoro: i vostri. Se non leggete i nostri curricula, se non proponete contratti su rimborso spese, al nero, stagionali. Io me ne vado a Londra a fare la cameriera e studiare il siciliano o il napoletano, sono certa di avere, a quarant’anni, più possibilità di essere notata lì che non prezzata qui. Avevo, per un attimo solo lo ammetto, avuto fiducia in un presidente che mi è coetaneo, era l’unica scusa che mi davo per accettare il suo «colpo di Stato», prendersi il potere senza elezioni e gestire un gioco referendario, al momento, che mi rende pentita dei miei studi di Giurisprudenza, quando mi insegnarono l’Assemblea costituente e mi indicarono da chi fosse composta. Non avrei mai immaginato che l’Italia potesse cadere così in basso. Ve la meritate, la fuga dei cervelli. Perché oggi «me ne vado, ergo sum» è l’unico brocardo.  (ROMINA CIUFFA)




REPORTAGE AMATRICE. NUOVE SCOSSE: NAMAZU IL PESCEGATTO È SVEGLIO OPPURE I NOSTRI ARCHITETTI E POLITICI DORMONO?

REPORTAGE AMATRICE. Nuove scosse stanno animando la nostra terra. Il 30 ottobre ha portato via quanto più potesse portare, e siamo in preda ad ulteriori assestamenti tellurici. Uno fra tanti: Castelluccio di Norcia, gioiello del «piccolo Tibet» italiano, non c’è più. Così molto del nostro patrimonio culturale, e psicologico. Epicentro più umbro-marchigiano, verso l’Adriatico. Elementare teorema aritmetico, studiato alle elementari: cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non muta. Ecco qui, di nuovo tempesta mediatica e un terremoto che si è sentito caldamente ovunque, c’è chi lo ha avvertito anche in Austria.

Per i giapponesi avvezzi, è colpa del grande pescegatto Namazu, che vive nel fango, sotto il territorio di Shinosa e Hidachi: è lui che, muovendo la coda, scuote il nostro mondo. Porta lunghi baffi e ha una lunga coda. Il suo corpo giace sotto l’intero arcipelago giapponese. Si dice che il dio Kadori tenga fermo Namazu con una zucca. Si dice anche che il dio del tuono, Kashima, con una grossa pietra riesca ad immobilizzarlo schiacciandolo a terra, e si verifichino terremoti quando il dio è stanco. Dal terremoto di Edo (Tokio) del 1855, anche conosciuto come «Grande Terremoto di Ansei», Namazu è visto come un giustiziere che punisce l’avidità umana costringendo alla ridistribuzione della ricchezza. Quanta ricchezza sta ridistribuendo Namazu in Italia?

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E non sarebbe male, a ben vedere, una effettiva ridistribuzione. Sebbene questa debba avvenire sul piano politico e socioeconomico, e non dovremmo attendere gli incubi di un pescegatto incontrollabile. Bisognerebbe scegliere luoghi specifici, perché tale redistribuzione sia equa. Invece, al momento, in Italia sembrerebbe che né sul piano politico, né sul piano mitologico, si riesca ad ottenere un equilibrio. Le scosse ottobrine e quelle successive (il rischio è alto e prevedibile) non hanno avuto a livello di morti l’impatto forte del primo terremoto, quello che ha avuto, in agosto, epicentro ad Amatrice, ma Roma, l’Italia, sono sotto schiaffo come non lo erano dal 1980. Ci sentiamo come quelle popolazioni dell’Asia, sempre sotto l’occhio del ciclone, di uno Tsunami dal bel nome di donna. Abbiamo subito assistito al classico pellegrinaggio del presidente del Consiglio Renzi a Camerino, quale emozione per quei piccoli marchigiani che mai avrebbero avuto altrimenti l’onore di avere, davanti alla casa distrutta, lui in persona, il capo, quello che siede alla destra di Obama e che fa pappa e ciccia con tutti i governanti mondiali. Li ho sentiti dire, in accento forte: «Però ci aiuti sul serio eh», «Fate in fretta». Mi viene in mente la riforma della Costituzione che un sì nel prossimo referendum varerebbe, il cui slogan primario è: «Vuoi che le cose cambino? Vuoi che i politici guadagnino di meno?», e mi domando perché presentarsi nei Comuni colpiti senza una busta per gli sfollati, come quelle delle nonne a Natale, senza aspettare il referendum. Le promesse del Governo sono tante, alte come gli stipendi dei loro rappresentanti.

Siamo decisamente nella presa di un enorme pescegatto. Contro la natura non possiamo nulla, né contro la politica. Il dio Kashima è stanchissimo, piegato, deve riposare. Anche noi. Namazu è, comunque, «yonaoshi daimyojin», la divinità della riparazione del mondo, avente il compito di riportare il mondo verso una maggiore stabilità. Un patto di stabilità insomma. I cataclismi fanno riflettere. Uccidono. Scuotono. E più cataclismi rendono saggi, temperati, riportano una greca «sophrosyne», la salvezza dell’anima. Ci ricordano chi siamo, da dove veniamo. Ma prima di giungere alla trascendentalità delle conseguenze, si passa per stadi psicologici non semplici. Ansia, paura, terrore, disturbi psichiatrici fino al DPTS, il disturbo post traumatico da stress, che può condurre a flashback, «numbing» (intorpidimento), evitamento,  incubi, «hyperarousal» (iperattivazione psicofisiologica), quando non ad abusi di alcool, droga, farmaci, psicofarmaci. Non a caso, per Eschilo la saggezza della sophrosyne si conquista attraverso la sofferenza («pàthei màthos», impara soffrendo).

Vogliamo credere in un dio superiore che ridistribuisce ricchezze? O vogliamo cominciare a capire che è come nei casi di incidenti aerei: l’errore è sempre del pilota? L’aereo è fatto per volare, se precipita il problema è umano. Un po’ come quei piccioni che rimangono schiacciati dalle auto in centro. Mutata mutandis: in un Paese ad alto rischio sismico, non ha senso continuare ad applaudire la Nuvola di Massimiliano Fuksas o l’Auditorium di Renzo Piano. Gli architetti servono ad altro. È esattamente come dare il Nobel a Bob Dylan o Dario Fo: perdere il senso della realtà. Un Nobel, allora, anche al pescegatto.  (Romina Ciuffa)

Anche su Specchio Economico – Novembre 2016

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REPORTAGE AMATRICE. TUTTI I SUOI OROLOGI SONO FERMI ALLE 3:36

REPORTAGE AMATRICE. Da Amatrice è possibile vedere quattro regioni: il Lazio (di appartenenza), l’Abruzzo, le Marche e l’Umbria. Dalle quattro regioni non è più possibile vedere Amatrice. Il sisma del 24 agosto ha fermato tutti gli orologi amatriciani alle ore 3:36 della notte. Ciascuno di noi ricorderà sempre cosa stava facendo a quell’ora di notte, quando quella scossa di terremoto, non l’unica (finora ne sono quasi 2 mila), ha portato via 292 morti e ha raso al suolo, con essi, il tessuto economico, sociale e psicologico del luogo. Non solo Amatrice: Accumoli e Arquata sono le aree più colpite. Ma sono 69 le frazioni di Amatrice coinvolte. La scossa principale si è sentita anche a Roma e in tutto il territorio limitrofo. Era dal 6 aprile 2009 alle ore 3:32 della mattina che l’Italia non sperimentava la «litost» di un evento simile (parola ceca intraducibile che realizza lo stato di tormento creato dall’improvvisa realizzazione della propria miseria), e nemmeno a farlo apposta la terra ha scelto un orario simile per colpire le due aree e per bloccare gli orologi per sempre.

C’è chi dice che senza orologio non c’è futuro: eppure, ad Amatrice, è proprio l’orologio della piazza principale che ora, dopo il crollo degli edifici adiacenti, è tornato visibile, prima coperto dal bar di Alessandro, con cui parlo in occasione della mia visita ad Amatrice. Siamo seduti alla mensa con tutti i cittadini, che non possono più, per il momento, impiegare il metano e non hanno acqua calda. Si lavano «a pezzi». L’elettricità c’è. Si mangia tutti insieme in questo tendone sociale. Il pranzo è buono, ci sono, a scelta, due primi, due secondi, il dolce, le bevande, ed anche cibo per celiaci. Ci sono anche varie televisioni dalle quali è trasmessa musica. Ogni settimana a rotazione si installa sul posto la Protezione civile di una Regione differente, a me tocca la Toscana. Sono ospite per un caffè con macchinetta elettrica a casa di Rinaldo e Amalia, quasi in centro eppure non scalfita dal terremoto: dalle grandi vetrate si possono vedere le montagne innevate in una giornata fredda in cui ad Amatrice le minime registrano un grado. Rinaldo, barbiere, taglia i capelli ad un cliente nel suo camper, adibito a negozio.

La mensa nella tendopoli di Amatrice

Ora le tendopoli sono state smantellate, tranne quella di Campo Saletta, a 15 chilometri da Amatrice, e sono partite le picchettature per le abitazioni a tempo che, mi dice il sindaco Sergio Pirozzi, saranno consegnate entro Pasqua, non oltre. Rinaldo e Amalia hanno perso gran parte della famiglia, ma non la loro figlia, quindi sorridono. La andiamo a prendere a scuola, quella scuola che è stata donata dal Trentino grazie alla veloce mossa del sindaco che, subito dopo il terremoto, ha parlato con la Protezione civile della Regione e si è immediatamente accordato per la creazione del cosiddetto «Campo Trentino», una scuola colorata e sicura che ha consentito ai bambini di cominciare regolarmente le lezioni. Il liceo, invece, al momento è ospitato dal Palazzetto dello sport, ma presto sarà spostato nei nuovi moduli che sono in costruzione all’interno dello stesso Campo Trentino, dove presto giungerà anche Save the Children con altri progetti di emergenza relativi ad un parco ricreativo che include anche campi di tennis e di calcio.

I residenti si recano dallo psicologo quasi tutti i giorni, a ritmi cadenzati, e i bambini hanno anche interventi terapeutici di gruppo. L’approccio impiegato è l’Emdr, acronimo per Eye Movement Desensitization and Reprocessing, ossia la desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari, utile a risolvere i problemi connessi al disturbo post traumatico da stress focalizzandosi esclusivamente sul ricordo dell’esperienza traumatica: si tratta di un protocollo che si sviluppa in varie fasi di ricordo e rievocazione delle esperienze negative, nel tentativo di far abituare (desensibilizzare) il paziente ai ricordi traumatici, distraendolo (rielaborazione adattiva del ricordo) con movimenti ritmici degli occhi oppure con tamburellamento delle dita o stimolazione sonora.

È una giornata comunque positiva: il Governo ha emesso, l’11 ottobre, un decreto contenente interventi a favore delle popolazioni colpite dal sisma. Beneficiari dei contributi saranno tutti i cittadini delle regioni Lazio, Abruzzo, Marche e Umbria, che hanno subito un danno documentato ad abitazioni ed attività produttive a causa del sisma. Per una ricostruzione e un rilancio dell’economia efficaci, sono state scelte delle aree all’interno delle quali si sono concentrati gli sforzi per la ricostruzione, coprendo per le aree interne al sisma al 100 per cento i danni ad abitazioni principali (prima casa), attività produttive, finanche abitazioni non principali (seconda casa), mentre per tutti i danni puntuali fuori dalle aree definite il 100 per cento per le abitazioni principali e per le abitazioni non principali (in questo caso nei centri storici e nei borghi caratteristici), e per le attività produttive il 50 per cento per le abitazioni non principali al di fuori dai centri storici e dai borghi caratteristici.

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La “zona rossa”, ossia la zona che non c’è più

La trasparenza è stata messa al primo posto: la Banca pagherà con risorse dello Stato direttamente i professionisti e le imprese che hanno eseguito i lavori di ricostruzione senza bisogno di nessun anticipo da parte del cittadino. Le imprese devono essere iscritte nelle cosiddette «white list» e devono essere in regola con tutti gli adempimenti di legge. Il beneficiario presenterà domanda e documentazione all’Ufficio speciale per la ricostruzione, che verificherà tutti i requisiti e la congruità del progetto e del contributo che verrà concesso con decreto del vicecommissario. Saranno predisposti controlli e verifiche sull’andamento dei lavori. Per favorire il rapido rientro nelle abitazioni e la ripresa delle attività produttive negli edifici con danni lievi è prevista una procedura semplificata. L’unico adempimento a carico del cittadino beneficiario consiste nella scelta della banca di riferimento. Saranno integralmente coperti i costi per la riparazione di tutti gli edifici e le opere pubbliche, i beni culturali e gli edifici di culto, ed attivato un sistema rafforzato di controllo dell’Anac, l’Autorità anticorruzione, sulle procedure di gara.

Sono previste misure di sostegno per tutte le attività economiche nell’area colpita dal sisma per le quali sarà predisposto, con il meccanismo delle aree interne, un programma di rilancio e sviluppo. Sono altresì previste misure di sostegno al reddito dei lavoratori che hanno momentaneamente perso il lavoro a causa del sisma. Per la popolazione e le imprese delle aree colpite è previsto il differimento e la rateizzazione degli adempimenti fiscali e contributivi. La governance della ricostruzione è costituita dal commissario straordinario (Vasco Errani), quattro vicecommissari straordinari (presidenti delle Regioni), quattro comitati istituzionali composti dai presidenti delle Regioni, dai presidenti delle Province e dai sindaci interessati. In ogni Regione è costituito un Ufficio speciale per la ricostruzione composto da ciascuna Regione e dai Comuni interessati. L’Ufficio speciale per la ricostruzione si occupa del rilascio dei contributi, dell’istruttoria della pratica, dei titoli abitativi edilizi e della gestione delle opere pubbliche relative alla Regione di competenza.

Intanto il Consiglio comunale ha approvato il regolamento per l’erogazione di contributi straordinari per i lavoratori: mille euro per i titolari di attività, 800 per i lavoratori dipendenti e 500 per i liberi professionisti, che saranno erogati con un assegno mensile fino a un massimo di sei mesi e solo a coloro che non hanno altre fonti di reddito.

Alla zona rossa, il centro di Amatrice, completamente raso suolo, si accede solo con il casco ed un’autorizzazione. Un corpo è stato inviato in Romania per errore: si pensava appartenesse all’inquilino del piano di sopra. Ma ora è tornato a casa, una casa che non ha più.    (ROMINA CIUFFA)




REPORTAGE AMATRICE: FLY ROMA, QUEI VOLI SOLID-ALI

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Originale contributo quello del Fly Roma, campo di volo a est di Roma tra i più noti nel centro Italia. Il suo presidente Italo Marini ha promosso un’iniziativa di solidarietà per Amatrice indicendo due giorni di volo per tutti. I piloti iscritti all’Associazione, e molti altri giunti da fuori per dare aiuto fattivo, sono montati sui propri aerei ed elicotteri per far volare i visitatori dell’aviosuperficie, che sono giunti numerosi ed hanno apprezzato enormemente l’iniziativa. In questo modo è stata data la possibilità a tutti di provare il volo, in aeroplano e in elicottero, a prezzi bassissimi; le spese del carburante e della manutenzione dei velivoli sono state tutte a carico dei piloti, che dunque hanno contribuito non solo operativamente bensì anche economicamente, e in questo modo sono stati raccolti i fondi destinati alle popolazioni colpite.

Le due originali giornate hanno previsto anche la presenza di cavalli trainati da carrozze, grazie al contributo di Pasquale Macchione e dei suoi collaboratori, che hanno reso la giornata ancora più originale e speciale. Altri fondi sono stati raccolti attraverso un bar ed un ristorante, creati per l’occasione, in modo da coinvolgere anche convivialmente gli ospiti dell’aviosuperficie. Italo Marini ha dichiarato: «Sono molto soddisfatto  del risultato, ma potremmo tutti i giorni fare di più. Volando, siamo sempre attaccati al cielo e ci piace pensare di avvicinarci a nostro modo alle tante vittime del sisma, toccando il cielo mentre la terra trema. Ma quando atterriamo, dobbiamo esser vicini a coloro che sono salvi». (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Novembre 2016

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REPORTAGE AMATRICE. MARCO PEZZOPANE: ECCO COME I GIOVANI IMPRENDITORI ITALIANI AIUTANO AMATRICE

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Papa Giovanni XXIII aveva detto: «Molti oggi parlano dei giovani; ma non molti, ci pare, parlano ai giovani». Eppure hanno molto da dire, e da fare. Possono fare tanto di più, peraltro, animati da un senso della vita più vincente, costruito sulle credenze e sui valori, ma soprattutto sull’età che dà loro la forza di lottare di più. Così, ad Amatrice, molti sono stati i giovani che si sono impegnati a risolvere problemi, di ogni tipo e natura. Ne scegliamo uno che ne rappresenta molti, Marco Pezzopane, presidente del Gruppo dei Giovani Imprenditori di Rieti, che dal giorno del sisma lavora per alleviare le sofferenze pratiche delle popolazioni del luogo, di sua competenza territoriale. Aquilano, ha già provato sulla sua pelle cosa sia un terremoto a casa propria. La raccolta fondi dei Giovani Imprenditori di tutta Italia è avvenuta ed avviene giornalmente attraverso eventi e gruppi su WhatsApp, nelle forme più moderne, ma anche con la presenza costante sul posto. Questi under 40 hanno contribuito a far giocare i bambini della scuola amatriciana e sono intervenuti pragmaticamente su ogni esigenza fatta loro presente, per il tramite di Pezzopane, dal Centro operativo comunale di Amatrice.

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Domanda. Innanzitutto, cos’è il Gruppo Giovani Imprenditori?
Risposta. Il Gruppo riunisce tutti coloro che hanno un’età inferiore ai 40 anni ed hanno un’azienda propria o sono figli di imprenditori e figure analoghe. Le nostre attività sono tendenzialmente legate al mondo della scuola e delle start up che hanno avuto uno sviluppo dovuto principalmente a fenomeni di «social networking», e che si coadiuvano e creano eventi per cercare di favorire l’incontro con le aziende ed il mondo produttivo in generale.

D. In che modo affrontate i problemi della scuola?
R. Storicamente il Gruppo Giovani, al fine di favorire un giusto rapporto tra gli studenti e il mondo del lavoro, va presso le scuole e cerca di diffondere quella che è la cultura d’impresa, ossia le necessità che le imprese hanno quando cercano personale. La scuola per oggetto sociale non riesce a dare quel tipo di informazioni, quindi molto spesso quando ci troviamo a fare dei colloqui troviamo persone impreparate che non sanno relazionarsi con chi vuole loro offrire un lavoro, così ampliamo la conoscenza scolastica su come promuovere se stessi affinché l’addetto alle risorse umane nell’ambito di un colloquio lavorativo possa prendere in considerazione la professionalità di chi si propone. E sebbene la professionalità per un giovane che è entrato da poco nel mondo del lavoro non è in effetti presente, ci sono delle caratteristiche che si possono mettere in evidenza.

Schermata 2016-10-31 a 19.19.28D. Da quanto tempo esiste il Gruppo dei Giovani Imprenditori?
R. Da quarant’anni. Il Gruppo fa sempre capo a Confindustria a livello nazionale, e tutte le Confindustrie a livello territoriale hanno le proprie sedi. Il primo presidente nazionale del Gruppo dei Giovani Imprenditori è stato Luigi Abete, nel 1976.

D. Come si svolgono le attività a livello nazionale?
R. Teniamo grandi eventi, come quello di Santa Margherita Ligure e il congresso di Capri, due momenti molto importanti nei quali noi giovani imprenditori portiamo istanze che a volte sono di rottura, a volte sono propositive, cioè chiediamo alla parte istituzionale che cosa vorremmo che il Governo facesse per favorire l’imprenditoria giovanile e, in generale, la crescita del Paese. A livello territoriale cerchiamo di replicare quello stesso modello organizzando eventi che possano stimolare le istituzioni regionali e locali affinché si compia la promozione dell’imprenditori giovanile, tanto è vero che molti risultati li abbiamo ottenuti proprio essendo di supporto all’attività istituzionale dei Governi che quotidianamente ci accompagnano nella nostra vita. Operiamo come Unindustria, che è stata la prima Confindustria a livello locale su base regionale: inizialmente per ogni provincia c’era una Confindustria, mentre ora, con la sparizione delle province e la modifica del titolo V della Costituzione, i nostri senior hanno avuto l’intuizione di ammettere che relazionarsi con l’istituzione locale non aveva più senso perché tantissime funzioni solo sono in capo alla Regione, ed ha creato un’unica Confindustria locale, però su base regionale, spostando sulle Regioni il livello di rappresentanza. Così ad oggi il presidente di Unindustria, attualmente Filippo Tortoriello, porta le istanze di tutti i territori del Lazio direttamente al presidente della Regione, Nicola Zingaretti, cosa che prima era più difficile perché non era tra i due ruoli riconosciuto lo stesso grado istituzionale trovandosi su due piani diversi, uno regionale ed uno locale. È stata una grande rivoluzione che si riflette anche sul nostro statuto; anche le altre Confindustrie locali si stanno aggregando per innalzare il livello delle relazioni tra Regioni e la Confindustria a livello regionale.

D. All’ultimo vostro recente congresso tenutosi a Capri avete parlato di Amatrice. In che termini?
R. Ne abbiamo parlato formalmente e abbiamo portato avanti la nostra raccolta fondi. Subito dopo il terremoto, con il presidente regionale Fausto Bianchi abbiamo deciso che la nostra associazione benefica «Impresa da bambini» diventasse l’organo interregionale, ovvero nazionale, di raccolta fondi per tutti i giovani imprenditori d’Italia. L’associazione è nata per fare opere di beneficienza all’interno della Regione Lazio. Grazie a questa iniziativa in tutti gli eventi locali, regionali e nazionali del Gruppo siamo in grado di portare avanti la nostra raccolta fondi, e in una lettera il presidente nazionale dei Giovani Imprenditori di Confindustria Marco Gay dichiara che parte di questi fondi andranno ai bambini delle popolazioni terremotate. Stiamo valutando alcuni progetti che ci sono stati proposti. Una volta terminata la raccolta fondi vedremo a quanto ammonterà il nostro budget e ne disporremmo parte a favore di Amatrice, Accumoli e Arquata. A dicembre terremo l’evento «Interregionale del Centro», una «macroconfindustria» che riunisce le 4 regioni centrali Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo, e parleremo di alcuni temi anche relativi al sisma, oltre ad effettuare ancora una volta una raccolta fondi da destinare a «Impresa da bambini».

Schermata 2016-10-31 a 19.20.19D. Quali progetti specifici avete adottato per Amatrice?
R. Il progetto che è nato subito dopo il terremoto è «Adotta una scuola», attraverso il quale ci impegniamo per apportare benefici all’attività scolastica rivolta specificamente ai bambini. Le cose da fare qui sul territorio sono tante, è chiaro che noi ci dedicheremo ad un piccolo aspetto, il mondo della scuola, ma daremo anche visibilità all’esterno; il 13 settembre in occasione dell’apertura dell’anno scolastico ad Amatrice è venuto il presidente Marco Gay, ed ha incontrato il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, il commissario straordinario Vasco Errani, il sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi, ed è stato un momento di condivisione e di sostegno verso queste popolazioni. In particolare il Gruppo del Lazio ha fatto una buona raccolta e da subito si è attivato il nostro supporto avendo io un contatto con il Coc: il Centro operativo comunale mi indicava le necessità più urgenti e noi provvedevamo, ad esempio nel fornire gasolio, acqua potabile, cartoleria di vario genere per le scuole, frigoriferi e congelatori. Nel giro di 48 ore consegnavamo il tutto. Siamo stati i primi a portare, come Gruppo Giovani di Confindustria, delle cose qui ad Amatrice, e il presidente nazionale è stato il primo a venire qui nei territori a prendere coscienza della portata del sisma.

D. Come avete provveduto alla consegna del materiale alla scuola?
R. C’è stata un’assoluta vicinanza da parte di tutti, ho ricevuto supporto e disponibilità, è stato un movimento spontaneo venuto dal cuore verso le popolazioni colpite, e quando abbiamo consegnato i giocattoli ai bambini è stata un cosa stupenda e commovente. Il mio lavoro è stato quello di organizzare e di seguire l’evolversi delle situazioni, quindi coordinare al più possibile le richieste che venivano dal Coc e poi, con l’apertura dell’anno scolastico, procedere alla raccolta dei giochi e fare sì che tutto potesse funzionare. Trascorrevo ad Amatrice quattro giorni a settimana per vedere come procedevano i lavori a scuola.

D. Avete coinvolto il sindaco?
R. Sergio Pirozzi sarà ospite a Capri in videoconferenza, perché l’idea è quella di mantenere l’attenzione alta su queste zone, anche perché la fase post terremoto non è finita, anzi, è appena iniziata.

D. Quanti giovani siete?
R. Sul Lazio siamo circa 220 iscritti, ma siamo tutti coinvolti, non solo noi del Lazio.

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D. Lei, aquilano, ha vissuto due terremoti. Ha notato delle differenze particolari?
R. Differenze non ce ne sono, noto solo una grandissima forza di volontà e un carattere forte delle popolazioni, anche se la ricostruzione sarà un processo che li accompagnerà per molto tempo.

D. Per quanto riguarda la prevenzione cosa ha da dire?
R. Sulla prevenzione io auspico che parta il progetto di Casa Italia, che è stato ipotizzato e che è necessario. Se per le macchine ogni quattro anni è obbligatoria la revisione, perché non dovrebbe esserlo anche per la casa? Questo è il dilemma che si è posto il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente, in realtà è una cosa di buon senso perché bisogna creare la cultura della sicurezza, bisogna avere la coscienza che la casa in cui viviamo è a tutti gli effetti sicura.

D. Sono i giovani che devono maggiormente inserirsi in questo processo di evoluzione culturale.
R. Se noi siamo ancora di più parte diligente in questo percorso, sicuramente la generazione che verrà dopo noi ne avrà giovamento.

D. Ma non si capisce perché questo non è stato ancora fatto.
R. Guardiamo avanti. Io non guardo nello specchietto retrovisore. Non è stato fatto? Va bene, ma guardiamo avanti. Non significa che da oggi non si possa fare.

D. Le istituzioni hanno reagito bene dal suo punto di vista?
R. Sì, ritengo ci sia stata una buona risposta e si sente che c’è una grande sensibilità, e questo aiuta.

(di ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Novembre 2016

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REPORTAGE AMATRICE. SINDACO SERGIO PIROZZI: NON PARLIAMO DI IERI NÉ DI OGGI, PARLIAMO DI DOMANI

Schermata 2016-11-02 a 13.58.34Sergio Pirozzi, sindaco di Amatrice, allenatore di calcio, parla non di «terremotati» ma di «sfrattati a tempo», perché guarda al futuro e sa che questa è solo una situazione transitoria. Al suo secondo mandato. I morti non torneranno in vita, ma Amatrice risorgerà. Lo incontriamo al Coc, il Centro operativo comunale di Amatrice, dove si è insediato, oltre il sindaco, il gruppo emergenza, cuore pulsante del coordinamento del lavoro di tutti i soccorritori e degli addetti alla gestione post sisma in loco.

Domanda. Sono appena stati stanziati 35 milioni di euro per l’emergenza e già altri 220 milioni per la ricostruzione. Pensa di aver ottenuto il giusto?
Risposta. Il decreto è stato importante perché ha tenuto conto di un fattore economico del territorio. Mi riferisco al mondo delle seconde case che ad Amatrice era predominante poiché su 6.200 abitazioni ben 5 mila erano seconde case, per cui tutto quello che era il mondo economico si reggeva su chi veniva qui nei periodi estivi e in quelli invernali. Feci presente subito che era imprescindibile, nella fase di attuazione del decreto, che si tenesse conto di questa realtà, per cui aver strappato la contribuzione al 100 per cento sia per le prime che per le seconde case è un punto di partenza. Dissi che, se non si fosse intervenuti in tal senso, sarebbe stato utile ricevere il TFR in modo da andare via tutti.

D. Quanto serve?
R. Quattro miliardi e mezzo, tre miliardi e mezzo per i privati e un miliardo per gli edifici pubblici; gli aiuti che arrivano a noi sono per il sostegno alla gente.

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D. È stato anche un grande danno all’economia. Com’è tutelata?
R. Nel decreto per la prima volta si sono considerate le strutture temporanee, parlo del mondo dell’imprenditoria e del commercio che non c’è più avendo noi perso il 92 per cento delle attività, le quali erano tutte all’interno del centro storico. Con questo decreto sarà lo Stato a farsene carico. Noi siamo partiti immediatamente con la scuola, mentre la consegna delle case a tempo dovrà avvenire a Pasqua, ma dobbiamo riattivare tutto il tessuto economico. L’intervento deliberato dal Governo è stata una vittoria: non è mai stato un assalto alla diligenza, bensì un fatto che partiva da un’esigenza di chi vive la realtà e sa quali sono le problematiche e come devono essere affrontate. È chiaro che senza questo decreto oggi saremmo via tutti.

D. Invece così è più probabile che rimaniate tutti, e che tornino coloro che si sono spostati in altri Comuni.
R. Rimangono i residenti, tornerà il mondo delle seconde case, che veniva qui ad Amatrice perché c’erano servizi, commercio, artigianato e molto altro.

D. Era una cittadina molto attiva?
R. Sì, contava più di 1.200 posti letto tra alberghi, bed and breakfast, agriturismi, era un mondo in crescita, da poco era ripartito anche il caseificio che era stato chiuso 5 anni fa. Adesso la sfida sarà ricostruire bene. Se non ci fossero state queste misure, che io avevo caldeggiato dall’inizio, sarebbe stata la morte di Amatrice.

D. È stato facile ottenerle?
R. Erano logiche. Bisogna avere la capacità di chiedere il giusto, questo era un elemento indispensabile grazie al quale abbiamo ottenuto quanto spettava. Ci siamo visti parecchie volte con il commissario straordinario per la ricostruzione Vasco Errani per trattare questi argomenti.

Schermata 2016-11-02 a 13.57.54D. In questo momento come funziona Amatrice?
R. Al momento non c’è più niente, la gente lavora alla ricostruzione. Ho portato al Consiglio comunale un regolamento per dare un contributo a chi ha perso tutto, e parlo del mondo che non ha tutele come quello delle partite Iva e dei commercianti, regolamento che prevede per tali categorie un contributo fino a Pasqua, quando saranno consegnate le case temporanee.

D. Ci sono ancora degli sciami sismici?
R. Sì, ma siamo abituati.

D. Se siete abituati, perché non c’era prevenzione?
R. Su questo argomento di stupidaggini ne ho sentite tante. Qua sono crollati gli edifici pubblici, ma anche tantissimi privati. È stato un terremoto la cui portata è stata la più elevata degli ultimi 400 anni: a noi il terremoto de L’Aquila, che abbiamo sentito, non aveva fatto niente. È facile parlare di prevenzione, ma la verità è che qui c’è stato un evento catastrofico che ha fatto 236 morti, e nella cosiddetta «zona rossa» non è rimasto più niente.

D. Lei ha perso la casa?
R. No, ha riportato solo alcuni danni. Io abito in periferia, ma comunque in una zona attaccata al centro. Ho perso però tanti amici, non ho l’acqua calda, non ho il metano, ma questo non è un problema individuale, è un problema di tutti, e in questa fase bisogna convivere con tutte le problematiche.

D. Nessuno nasce sindaco di una città terremotata.
R. Io preferisco dire «sfrattato a tempo», perché se sei terremotato lo sei per tutta la vita. Noi vogliamo cambiare e riportare in vita Amatrice.

D. Quali sono le prospettive?
R. Qui c’è da ricostruire tutto, ma dopo la morte c’è sempre una vita e questa potrebbe essere anche l’occasione per una rinascita, per una presa di coscienza collettiva, per rendere più bella Amatrice di com’era. Ci vorrà tempo, ci vorrà pazienza, ci vorrà amore, ci vorrà la capacità di non mettere il problema personale davanti al problema collettivo. Dobbiamo fare come i nostri padri, che sono stati artefici della rinascita dell’Italia dopo la guerra mondiale: se ci sono riusciti loro, perché non dovremmo riuscirci noi?

D. Sulla tempistica per la consegna dei moduli abitativi lei ha dato il termine di Pasqua: sarà rispettato?
R. Sì, anche perché a Pasqua c’è il giorno della resurrezione, e non c’è modo migliore per rispettarlo. Ci saranno moduli abitativi di emergenza fatti bene, ma per la vera ricostruzione ci vorrà tempo.

Amatrice scatti Romina Ciuffa

D. La struttura del Coc, il Centro operativo comunale, costituisce al momento il punto di riferimento della popolazione. È stata messa in piedi per l’occasione?
R. La struttura già c’era ed ospitava la sede del Liceo scientifico, adesso è invece stata adibita alle esigenze dell’emergenza. Abbiamo solo questo, ma stanno consegnando altri moduli e ne faremo un ufficio ad hoc in cui io possa lavorare meglio.

D. Cosa sta imparando da Amatrice?
R. In questa fase la grande lezione per tutti è questa: noi giornalmente andiamo a duemila e non diamo il giusto valore a tante cose. Dopo questa esperienza riusciremo ad apprezzare tante piccole cose come ad esempio la doccia, l’acqua, un paio di scarpe, io mi sono sognato per quindici giorni la Coca Cola. In un mondo dove tutto si consuma ad una velocità eccessiva e non si dà valore a niente, forse questo è stato un grande insegnamento per me e mi auguro che sarà per i miei figli e per le giovani generazioni, perché in un attimo puoi perdere tutto quello che hai creato in una vita. La sera da solo, quando vado a letto, mi salgono i ricordi. Questo era un Comune con 100 mega in fibra, wi-fi gratuito, la raccolta differenziata era al 63 per cento, eravamo uno dei borghi più belli d’Italia. Se si è sindaco di una piccola comunità poi, si conoscono tutti, e coloro che sono morti per me non erano numeri, erano il fornaio, il macellaio, l’amico d’infanzia, il barbiere. Io non so se questa esperienza mi renderà migliore, ma sicuramente è un grosso bagaglio.

D. Tutti i contributi delle raccolte fondi arrivano davvero?
R. Noi abbiamo un conto corrente dedicato per l’emergenza terremoto, altri versamenti vanno direttamente sul fondo della Protezione Civile che è stata molto presente. Sono successe cose straordinarie, una fra tante: un ristoratore di New York, emigrato italiano, ha fatto una serata a base di pasta all’amatriciana, che è il nostro piatto, ed è venuto personalmente a consegnarmi un assegno di 3 mila dollari americani.

D. Chi ha perso tutto dove si trova adesso?
R. Tanti qui sono andati nelle seconde case che erano agibili, ma c’è un profondo senso di appartenenza al territorio.

D. I media come si comportano?
R. Ho letto poco perché qui non ci arrivano i giornali, anche perché le edicole non ci sono più. Io per primo ho perso la mia edicola-cartoleria. Ma è meglio non leggere, perché se leggi ti viene il sangue cattivo e invece devi essere concentrato non sul passato e sul presente, ma direttamente sul futuro. Ho avuto la fortuna di non leggere i giornali.

D. Il Trentino ha fatto la scuola. Come mai arriva da lì questo progetto?
R. Perché mi sono sbrigato. Ad Arquata stanno ancora in tenda. Ho fatto subito la presa di possesso dell’area e ho detto che bisognava partire dalla scuola. La Regione in quei primi giorni era ad Amatrice con la sua Protezione civile, e mi sono subito accordato con loro. In questi casi non si può perdere un attimo di tempo, bisogna fare, bisogna muoversi. (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Novembre 2016

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REPORTAGE AMATRICE. MAX DE TOMASSI: SE DOMO NON VA AL BRASILE È MARISA MONTE CHE VA A DOMO

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L’intervista di Romina Ciuffa a Max De Tomassi giornalista, esperto di Brasile e uno degli 8 residenti di Domo, dove ha portato in vacanza Marisa Monte pochi giorni prima del sisma.

Sono 69 le frazioni di Amatrice, la più distante è Domo, a 14 chilometri e 24 minuti secondo Google Map. Sita a 870 metri sul livello del mare, ha, d’inverno, 8 residenti. Tra questi il giornalista Rai Max De Tomassi, conduttore radiofonico della trasmissione «Brasil» e profondo conoscitore della cultura verdeoro. La sua casa è caduta, come le altre, il pagliaio, avente un tetto di legno, si è mantenuto. Si trovava all’interno dell’abitazione, alle 3:36 del 24 agosto, sua figlia Benedetta, che trovandosi in salone non è rimasta colpita dalle macerie che sono crollate nella sua camera da letto.

Domo ha una storia sismica interessante: infatti, nel 1639 era già stata completamente rasa a terra da un terremoto, e ricostruita. Ma più in là, dove ora si trova. Max De Tomassi mi descrive la situazione del suo «vilarejo», in portoghese brasiliano letteralmente «villaggio», e titolo di uno dei più noti brani della grandissima cantante Marisa Monte che proprio a Domo aveva trascorso, pochi giorni prima del sisma, le vacanze.

Domanda. Si è fatto molto parlare di Amatrice ma pochi si sono soffermati sulle frazioni che sono, comunque, rimaste colpite dal terremoto.
Risposta. È bene sottolineare l’importanza delle frazioni. Amatrice è un Comune di Rieti, recentemente il decreto ha dato determinate garanzie ai possessori di seconde case. A Domo, come nelle altre frazioni, molti posseggono una seconda casa, si tratta di una delle economie più importanti di Amatrice che riempie di persone tutto il territorio comunale per le vacanze estive ed invernali. Va enfatizzata l’importanza delle frazioni e quindi anche di un posto piccolo come Domo. Non ci sono frazioni particolarmente grandi, si possono trovare una quarantina di persone.

D. Lei è uno degli 8 residenti.
R. Sì, siamo 8, ma di frazioni come Domo ce ne sono tante. Domo è un posto unico, e qui subentra il campanilismo che è in ognuno di noi: quindi per me Domo è il posto più bello del mondo perché ci sono cresciuto, perché lì ho imparato ad andare in bicicletta, perché cacciavo le lucertole, raccoglievo i funghi con le castagne, facevo una vita libera. Domo è la libertà per tutti noi che ci siamo cresciuti e che ci siamo fatti grandi da quelle parti, Domo è il posto in cui i genitori aprono la porta di casa e dicono ai figli: «Torna a pranzo», e i figli rientrano soli perché non ci sono rischi di automobili o di altro tipo. È il posto ideale per meditare, per ritrovarsi, per fare le cose più semplici della vita, che sono anche le più belle: stare davanti al camino, fare passeggiate nel bosco, cercare le sorgenti di acqua purissima, pescare le trote con le mani, parlare con i pastori, mangiare formaggi appena fatti, in una dimensione d’uomo bucolica.

D. Domo è stata colpita dal sisma?
R. È stata colpita da un punto di vista architettonico. La maggior parte delle case sono inagibili, ma non ci sono stati morti.

D. Vi accorperanno nei moduli abitativi con altre frazioni?
R. Al Coc mi hanno detto che daranno moduli abitativi a chi ne farà richiesta e ne avrà il diritto, e li accorperanno in luoghi dove sarà più semplice fare opere di urbanizzazione.

Schermata 2016-11-02 a 13.18.18D. Una delle più grandi cantanti brasiliane, Marisa Monte, è venuta in vacanza a Domo pochi giorni prima.
R. A giugno mi trovavo in Brasile da lei, pranzavamo come sempre a casa sua, e mi ha manifestato il suo desiderio di fare un viaggio in Italia. Le ho proposto di venirmi a trovare in montagna, a Domo, per poi andare insieme al mare, in barca, per farle conoscere il Mediterraneo. Così è arrivata con suo marito e i suoi figli facendo una prima tappa a Venezia, città d’arte, passando per la montagna e quindi arrivando tutti insieme in Sardegna.

D. Ha avuto la fortuna di vedere luoghi che ora non esistono più.
R. Esatto, siamo stati anche a visitare Amatrice. Racconto un aneddoto: da poco mi ero tagliato i capelli dal mio barbiere di sempre, Pietro Serafini, di 84 anni, e incontrandolo lo salutai presentandolo. Così pensarono che sarebbe stata una esperienza farsi fare i capelli «all’italiana», e chiedemmo a Pietro se avesse due posti liberi per loro nel suo negozio. Lui li accolse con gioia e tagliò loro i capelli. Pietro, un simbolo di Amatrice, è morto sotto le macerie. Mi tagliava i capelli fin da quando avevo un anno, era lui ad avermi fatto il primo taglio.

D. La sua casa ha subito danni?
R. È inagibile, va abbattuta e ricostruita da zero.

D. Domo nel 1639 ha subito un altro terremoto, quindi era già stata ricostruita da capo.
R. Sì, ma era stata ricostruita in un’altra area: l’area del terremoto del 1639 adesso è solo un prato 400 metri più in là.

D. Sembrerebbe un triste destino.
R. È un’area sismica: non si può cambiare il destino spostandosi di 400 metri.

D. Ma oggi Domo non è completamente distrutta, si potrà ricostruire sopra lo stesso borgo.
R. Sì, inoltre le tecniche sono diverse, anche perché probabilmente la ricostruzione su case del 1600 sarebbe stata molto più complicata di oggi. Oggi si distrugge e si rifà.

D. Aggiungendo che ora c’è più cultura del terremoto, si potranno fare costruzioni antisismiche, anche se commettiamo spesso gli stessi errori.
R. Sì, ma consideriamo anche l’ignoranza dell’essere umano che dopo il primo terremoto ha costruito palazzi pensando che contro un tale cataclisma bastassero delle pareti profonde 60 centimetri. Con gli anni la legge è cambiata, ma le pareti e le mura sono rimaste le stesse di un tempo, nonostante la legge antisismica imponesse il tetto in cemento: eppure è stato proprio questo tipo di tetto che ha fatto crollare le case. Paradossalmente il mio pagliaio, avente un tetto di legno, non ha subito danni.

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D. Marisa Monte ha scritto una delle canzoni di maggior successo, «Vilarejo».
R. «Vilarejo» significa «villaggio», e già nel mio emotivo identificavo questo «vilarejo» di cui parlava il suo testo nella mia Domo. Quest’estate, quando eravamo a casa mia, sentivo Marisa parlare al telefono con la moglie di Caetano Veloso e le diceva proprio questo: che ci trovavamo in un vero e proprio «vilarejo», dove ci si conosce tutti, si mangia insieme, si vive in collettività.

Anche su Specchio Economico – Novembre 2016

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EVANDRO DOS REIS: UN MICHAEL JACKSON DI “VERDEORO” COLATO

di ROMINA CIUFFAEvandro Dos Reis, chi non lo conosce? Tutti sanno che è stato, a Roma, uno dei fondatori del movimento brasiliano di questo millennio, importando dal Brasile la roda de samba che, con un altro folto gruppo di brasiliani, ha animato le notti prima della Fonderia, poi di molti altri luoghi e locali romani, come si fosse a Ramos, zona Nord di Rio de Janeiro, dove è attivo dal 20 gennaio del 1961 uno dei blocchi carnevaleschi più noti, quello dei Cacique de Ramos. Così Evandro, trasferitosi a Roma pieno di valigie musicali, ci ha trasportato da Roma a Ramos attraverso dei grandi capotribù, i Cacique de Roma. Da allora l’attività di questo paulista non è mai terminata in Italia, che grazie a lui ha conosciuto meglio non solo il Samba, nelle note della sua chitarra e del suo cavaco, ma anche il genere del Forrò, che Evandro predilige (oggi questa predilezione si è formalizzata nel gruppo neonato a San Paolo, i Matuto Baião) non mancando la tradizione della MPB, della quale Evandro Dos Reis ci rende partecipi da sempre. Tornato stabilmente in Brasile, trascorre vari mesi l’anno a Roma, facendo parte integrante e fondamentale dell’Orchestra di Piazza Vittorio, di recente essendo stato anche tra i protagonisti incontestabili del Roma Forrò Festival, figlio anche di quella generazione che al Beba do Samba di San Lorenzo ha avuto l’occasione di conoscere cosa voglia davvero dire “verde-oro”. Chi non conosce Evandro Dos Reis? Nessuno. Ma chi lo conosce bene, davvero? Pochi. Per questo, lo intervisto per dar conto di una realtà capiente che ci ha liberati dalle dissonanze, e sapere di Evandro cose in più: dov’è nato, cosa lo ha portato in Italia, etc.? E poi, chi è che sa che lui cominciò come i Jackson Five, nella band dei cugini, Tudo em Familia? Un brasiliano Michael Jackson, per noi “verdeoro colato”.

Evandro, puoi raccontare discorsivamente ed emotivamente la tua biografia? Sono nato a Osasco, in Brasile, in una famiglia di musicisti, mia mamma e le mie zie cantano benissimo, suo padre (mio nonno) e suo fratello suonano e costruiscono fisarmoniche, sono cresciuto ascoltando loro cantare nelle feste di famiglia, ma anche a pranzo o durante le faccende quotidiane. Quando ho fatto 6 anni mio cugino mi ha regalato uma chitarra classica e mio padre mi ha messo in uma scuola di musica dove ho studiato per 4 anni. A 10 anni sono entrato in Conservatorio, dove ho studiato per 7 anni; e nel mentre ho fondato la mia prima band Tudo em Familia assieme ai miei cugini, abbiamo fatto um sacco di concerti in giro per São Paulo e inciso un vinile in un festival di samba dove la prima canzone che io ho composto é arrivata quarta. A 17 anni mi sono iscritto alla Universidade Livre de Musica dove ho studiato per 4 anni e, appena finito, ho iniziato a lavorare in una nave da crociera. Lì ho conosciuto quella che poi sarebbe diventata mia moglie, e così sono finito in Italia.

In Italia quale è stata la tua esperienza? La prima persona con la quale ho lavorato in Italia è stato Giacomo Bondi, con lui ho collaborato come strumentista e come autore, e nel 2004 abbiamo inciso um cd, “Evandro Reis”, con delle mie canzoni arrangiate da lui. Tramite questo lavoro siamo stati invitati dal conduttore radiofonico di Rai Uno Max de Tomassi per fare un’intervista nella sua trasmissione Brasil: Max è stato ed è tutt’ora una persona con cui collaboro e chiacchiero volentieri di musica. Tramite lui ho lavorato prima con Franco Cava, suonando nella sua band in Italia, e poi com Jovanotti nella band che ha suonato al Live8.

In che modo sei entrato a far parte dell’Orchestra di Piazza Vittorio?  È una storia interessante: tre anni prima ero stato invitato da Mario Tronco a suonare con l’Orchestra di Piazza Vittorio (OPV) che in quel periodo aveva appena fatto il primo concerto, La cosa non si era conclusa e le nostre strade si erano divise, fino a quando due miei amici in vacanza dalla nave persero il treno che da Genova li avrebbe portati a Roma e, rimasti un giorno in più a Genova, la sera andarono a vedere l’OPV e a fine concerto, chiacchierando con il Maestro Tronco, hanno contestato il fatto che in un’Orchestra del genere non vi fosse un brasiliano. Mario parlò di me e loro, increduli, gli confidarono che il giorno seguente sarebbero stati ospiti a casa mia, così Mario gdiede loro il suo numero di telefono dicendo di chiamarlo. L’ho fatto e ci siamo dati appuntamento per settembre quando l’Orchestra avrebbe iniziato a registrare il suo secondo album “Sona”, senza sapere nel mentre che io suonavo nella band di Jovanotti e Jovanotti aveva invitato l’Orchestra a fare una partecipazione ad una canzone, così ci siamo rivisti proprio in occasione del Live8 e da lì è iniziata l’avventura più bella della mia vita: ho suonato con l’OPV per 8 anni e con essa ho realizzato tutti i sogni che un bambino che impara a suonare uno strumento musicale ha, ho inciso dischi incredibili, ho suonato nei più importanti palchi e del mondo, ho lavorato con produttori mondialmente conosciuti. L’Orchestra mi ha dato la possibilità di capire e conoscere musiche, culture, credenze e ideologie che porterò con me per sempre, ogni musicista che suona in quel gruppo potrebbe scrivere libri e libri di storie e conoscenze e convivere con questo: l’esperienza non ha prezzo! Il mio lavoro con l’Orchestra ha avuto un’interruzione nel 2012, la crisi aveva portato dei cambiamenti in Italia ed io nel mentre sentivo un’enorme curiosità di capire chi ero al di fuori del contesto di gruppo, L’Orchestra è comoda perchè ti fa sentire importante, ma volevo capire cosa avrei potuto combinare da solo, o semplicemente in un contesto diverso, così sono partito per una vacanza alla fine del 2012 ed ho deciso di restare in Brasile.

In sintesi: la mia storia con l’Orchestra di Piazza Vittorio comincia nel 2002 anche se il mio ingresso è stato nel 2005 dopo l’incontro sul palco del Live8 dove suonavo con Jovanotti e lui ha invitato l’Orchestra a partecipare alla presentazione, ho iniziato durante le registrazioni del disco Sona, poi nel 2006 e 2007 abbiamo girato il mondo con il disco ed il documentario, nel 2008 e 2009 abbiamo fatto il primo spettacolo teatrale, il Flauto Magico, dove io facevo uno dei 3 fanciulli, con il quale spettacolo abbiamo girato tanto; nel 2012 abbiamo fatto il disco Isola di Legno, con canzoni autorali  disco  che coincide con il mio ritorno al Brasile, fino al 2015 quando sono stato chiamato dal Maestro Mario a Roma per fare il Don Josè alla Carmen secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio.

Quali sono state le tue prime esperienze musicali? E come si è susseguita la tua carriera musicale fino ad oggi? Con i i miei cugini nel gruppo “Tudo em Familia” ho iniziato a suonare nei primi palchi “veri”, ho scritto le mie prime canzoni, ho inciso una canzone in un disco per la prima volta! La mia carriera musicale è stata piena di colpi di scena e molto intensa fino a qui, ho iniziato molto presto e tutto quello che io sono intelettualmente e ideologicamente parlando lodevo alla musica.

Chi sono stati i tuoi principali ispiratori? Musicisti o falegnami, genitori o insegnanti, bulli o matematici… che nomi? Da sempre sono ispirato dalle cose che mi circondano, sono sempre stato molto curioso ed ho sempre il perché dei bambini piccoli, la strada brasiliana, credo, sia stata la prima ispirazione, quando ero ragazzino si cresceva molto in fretta in Brasile, stavamo sempre per strada a giocare prima, amare e lavorare dopo, tutto molto velocemente. Ho da sempre preso ispirazione dalle cose che mi capitavano o incuriosivano, le mie storie d’amore (banale ma vero) sono state le prime ad uscire dalla mia mente per finire sulla carta, ma ho avuto anche muse ispiratrici della cui figura mi innamoravo, ma che non necessariamente divenivano storie d’amore, “Tatuagem” infatti, la prima canzone del disco della Matuto Baião l’ho scritta per una ragazza che ho visto ad un matrimonio, lei aveva un bellissimo tatuaggio sulla schiena. Poi ho scritto altre per lei che non ho ancora inciso e non siamo mai stati insieme… Scrivo spesso cose sul calcio, il calcio è troppo bello e non c’è bisogno di aggiungere altro.

Cosa ti ispira in questo momento? In questo perìodo sono molto ispirato dalla filosofia, il concetto delle cose: partendo dai greci fino al nostro periodo, leggo libri e libri, finisco uno che menziona un’altro e così via… Mario Sergio Cortella mi ispira molto, ma anche Clovis de Barros, tramite loro ho conosciuto Umberto Eco, ma anche Kant ed altri, a volte penso che impazzirò! Non ha fine questa cosa! Comunque l’ispirazione può partire nei modi più assurdi, ieri ero nella metropolitana e leggevo un post di un’amica, Carmel Dutra, che tornando da un viaggio spiegava la parola africana ubuntu che esprime una filosofia ed un antico concetto di etica: “Sono ciò che sono perché siamo tutti noi”. Alla fine lei ha scritto “porque sou o que sou pelo que nós somos”, sono ciò che sono per quello che siamo noi. Io ho commentato: “Ne uscirà fuori una bellìssima canzone”, e lei ha confermato: “Sarebbe bellissimo”. L’ispirazione tramite ciò che mi circonda!

La Banda Matuto Baião, appena nata, è il tuo passo musicale più recente, ed è un passo di Forrò. Puoi raccontare in che modo si è formata e cosa vi anima? La band è formata da 3 persone io, Tiago Nepomuceno e João Lopes, ci siamo conosciuti tramite Priscila D’Oro, assistente di direzione forrozeira e mia amiga del cuore che ho conosciuto a Roma. Quando siamo tornati in Brasile frequentavamo i forró di São Paulo e lei me li ha presentati, siamo diventati amici e condividevamo l’idea che la scena del “forró pé de serra” in Brasile non era molto creativa, ci sono molti musicisti e band valide ma molte cose sono semplicemente copie del lavoro fatto da Luiz Gonzaga. Noi volevamo fare un lavoro autorale, qualcosa che in grande o in piccolo contribuisse alla causa.

Sono brani autoriali: di cosa parlano? Chi li scrive? I brani li scriviamo io e Tiago Nepomuceno e i temi sono vari, ma in comune hanno la semplicità della vita quotidiana, cose semplici come il fatto di chi lavora tutta la settimana aspettando di andare al Forró nel fine settimana a ballare con una certa persona (“Passo a passo“), oppure di una persona che vive in campagna e riesce a vincere anche in un contesto urbano (“Resposta a saudade”), ecco, questioni di vita semplici, e a volte anche complicate. Obiettivamente, questo “penta”album ha una qualità molto elevata.

Il Forrò è sempre stato appannaggio di alcuni grandi (è proprio del Brasile “ripetere” brani altrui, differentemente dalle modalità italiane). Cosa ti/vi ha dato questo coraggio? Ho fatto sentire ad alcuni amici che hanno band o lavorano con il Forró i nostri brani quando ancora erano demo e la loro reazione era sempre meravigliata: “Tutti brani vostri? Non ci sono cover?”. Questo perché nel ambito del Forró esiste da sempre la filosofia di ri-registrare brani, a volte, con un arrangiamento molto simile alla versione originale. Noi pensiamo invece che è fondamentale avere un’identità di gruppo, nel disco è stata una scelta pensata anche per la quantità di musica che io e Tiago scriviamo, abbiamo molto materiale, ma anche nei nostri concerti a São Paulo le cover che facciamo sono pensate, sono meno conosciute e sono riarrangiate per avere la nostra impronta.

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Una sfida ad ampio margine, un “salto nel vuoto?”, o meglio: un Forrò acrobatico: sarà un successo in Brasile? C’è la possibilità che “vosso Forrò” possa essere ballato nel Pelourinho o alla Feira de São Cristòvão, o inserito nella programmazione accanto a “Esperando na Janela”? O più probabile nei club vip di San Paolo? Noi facciamo del nostro meglio per aprire un nostro spazio, più spazio riusciamo ad avere meglio è, in realtà il forro “pé de serra”, quello di Luis Gonzaga ha un pubblico specifico e fa più sucesso al sud del Brasile che al nord dove è nato. Quindi conquistare questo pubblico è il primo obiettivo.

Sappiamo che il Forrò è nordestino. Voi nascete più a sud (per non dire troppo più a est… fino a Roma). Com’è il panorama forrozeiro di San Paolo? São Paulo senza dubbio è il posto dove si balla più Forró “pé de serra” di tutto il Brasile, la stramaggioranza delle band di Forró sono di São Paulo, c’è Forrò dappertutto ma a San Paolo la cosa è veramente grande.

Che differenza c’è tra il Forrò paulista/paulistano e quello nordestino? Il Forró è venuto dal Nordest del Brasile ma è stato diffuso per il resto del Brasile tramite Rio de Janeiro negli anni 40 e ha avuto il primo momento di moda in tutto il Brasile negli anni 50, fino agli anni 70 ha sempre avuto una grande buona fetta di mercato, negli anni 70 e 80 è caduto a causa della crescita della bossa nova e della Jovem Guarda, in questo perìodo gli artisti si spostavano tra Rio e São Paulo dove molti nordestini venivano a tentare fortuna, ed andavano al Nordest nel periodo delle feste “juninas” (nel mese di giugno). Nei primi anni 90 è apparso al Nordest un nuovo tipo di Forró, non più con il trio sanfona (fisarmonica), zabumba e triangulo, ma con intere band, con batteria, basso, chitarra, ed una proposta molto più commerciale e molto meno autentica. Da allora al Nordest si suona più questo tipo di Forró mentre al Sudest è rimasta l’anima del Forrò tradizionale. Per carità, si suona il Forró tradizionale in tutto il Brasile e anche quello moderno si suona dapertutto ma sicuramente l’anima del Forró moderno è al nordest mentre il tradizionale è rimasto al sudest.

Puoi dirci cosa distingue questo “vosso” Forrò dal Forrò “deles”? Credo che il “nosso forrò” sia esattamente questo, un richiamo al Forrò che ho imparato dai miei genitori nordestini, un richiamo al Forró che é quello tradizionale, un omaggio ai compositori ed artisti che portano avanti una musica che è autentica brasiliana.

Perché “Matuto Baião”? Puoi spiegare al pubblico italiano il retroscena culturale, mentale, psicologico, ed anche nudo e crudo di questo nome? “Matuto” da noi è un persona che “non vive la vita di città”, una parola che molte volte è usata per un contadino o una persona che ignora certe cose come la tecnologia, al Nordest però si usa dire “matuto” a una persona intelligente “che pensa”, che “matuta”, riflette sulle cose. Io amo questa parola ed è stato il primo nome che Tiago ci ha suggerito. Mi fa pensare che il Baião, che è un ritmo, si sia personificato, o che il Baião è furbo, mi piace peensare a che faccia avrebbe avuto il “Matuto Baião”.

Cos’è il Baião? Baião è un ritmo brasiliano regionale, ballato al Nordest nelle feste popolari, registrato in vinile per la prima volta negli anni 30 con Luiz Gonzaga con la canzone omonima che spiega nel testo letteralmente “come si balla il baião”, da allora ballato in tutto il Brasile ma anche in molti posti del mondo, come Roma.

Sono solo 6 brani, in questa “Parte 1”. State procedendo a nuove composizioni? Dov’è possibile reperire il disco? Esiste un supporto fisico? Il disco è in tutte le piattaforme digitali, streaming o per download.

Avete in previsione un tour di presentazione in Brasile e/o in Europa/Italia? In Brasile stiamo suonando in posto importanti come il Remelexo a São Paulo, uno dei posti più importanti del Forrò “pé de serra”.

A Roma sei conosciuto molto per il Forrò, ma anche per aver portato, insieme ad altri brasiliani, la roda di samba dei Cacique de Roma. Puoi raccontarci come hai vissuto il Brasile romano, come lo hai visto evolvere e, dopo essere tornato in Brasile, come lo hai trovato ora che, di recente, sei tornato a farci visita? Roma è casa mia e per tanti versi mi piace molto che i brasiliani siano benvisti dal popolo italiano, mi piace che la nostra musica sia conosciuta dagli italiani, la comunità brasiliana a Roma è bella e folclorica, in generale ci si aiuta molto. La roda dei Caciques de Roma è stata una delle cose più belle che io abbia fatto nella vita, mi sono reso conto ancora di più quando sono tornato ed ho visto il Coletivo do Bigode, dove ci sono tante persone che suonavano con noi allora, mi piace ancora di più che quando ho visto per la prima volta tutti i musicisti erano italiani e la qualità della musica non ne rissentiva la mancanza di musicisti brasiliani. Questo è bello e fa capire il legato che i Caciques hanno lasciato.

Il Forrò in Italia: come lo trovi? Hai partecipato al Roma Forrò Festival. Com’è stata questa esperienza? Con chi hai avuto occasione di suonare? Sì, ho partecipato al Roma Forrò Festival e mi è piasciuto molto perché ho incontrato una comunità proveniente da tutta l’Europa apapssionata e che porta con avanti Francesca Maiolino il Forró autentico! Francesca sta facendo un gran lavoro con il Forró a Roma, la comunità è cresciuta molto e balla con maestria.

C’è qualche forrozeiro in Italia che è al livello di un forrozeiro brasiliano? Sì, ci sono persone che ballano il Forró alla grande in Italia o “meninão Ruggero” e la “menininha Martina” sono esempi ma potrei citarne molti altri, a partire da Francesca. Per me è bello vedere e far parte di questa realtà.

Come suona ai tuoi orecchi la pizzica? La pizzica è quasi una filosofia! È incredibile come si suona e come si balla, ho avuto la fortuna di suonare alla notte della taranta a Melpignano e la cosa è di un’altro mondo. Trovo che questa cultura regionale sia la motivazione per la quale voi imparate a ballare altri ritmi come la Salsa o il Forrò, siete un popolo di ballerini e di gente a cui piace fare festa, questo unito alla cultura poppolare forte che c’è in Italia vi aiuta molto a capirne altre manifestazioni simili.

Qual è l’obiettivo “sogno” che vorresti raggiungere? Credo di aver raggiunto molti di questi obiettivi, vorrei fare una carriera nella mia patria, ecco, questo sarebbe il sogno attuale.

Suonare… con chi? Un italiano/a e un brasiliano/a. E…? Se avessi avuto la possibilità avrei voluto suonare con Pino Daniele, ed in Brasile sicuramente con Gilberto Gil, il mio preferito.

Domanda per noi: come hai percepito “Rioma”? Ho scoperto Rioma conoscendo Romina!

Domanda a piacere (obbligatoria!) “Sei felice di quello che hai fatto fino ad ora con la musica?” Assolutamente sì.

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OLIMPIADI DA RIO A ROMA, PASSANDO PER LE PARALIMPIADI: UN SEMINARIO DELL’AMBASCIATA DEL BRASILE IN ITALIA

Schermata 2016-05-10 a 19.24.40Schermata 2016-05-10 a 19.24.46L’Ambasciata brasiliana in Italia guidata da Ricardo Neiva Tavares ha ospitato il seminario «100 giorni dai Giochi olimpici Rio 2016», per capire come si stanno svolgendo i lavori e fare il punto anche sulla candidatura romana 2024. Oltre all’Ambasciatore, sono presenti Fabio Porta, deputato italobrasiliano e presidente dell’Associazione di Amicizia Brasile-Italia, Domenico De Masi, sociologo e professore de La Sapienza di Roma con cittadinanza carioca onoraria, Sandro Fioravanti, vicedirettore di Rai Sport, Carlo Mornati, vicesegretario generale del Coni e capo missione Rio 2016, Luca Pancalli, vicepresidente del Comitato Roma 2024, Marco De Ponte, segretario generale ActionAid. Tutti moderati da Francesco Orofino, vicepresidente nazionale dell’Inarch.

Quest’ultimo afferma: «Mi sembra che possiamo essere certi che l’azione verso le Olimpiadi abbia riqualificato zone degradate della città, come l’area portuale, con opere architettoniche di grandissimo pregio, un esempio ne è il Museo del Domani firmato da un’artista come Santiago Calatrava, ma anche le opere del Parco Olimpico. La città è stata dotata di infrastrutture e ne è stato potenziato il trasporto pubblico, a partire dalla metropolitana, tutto questo attraverso lo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro con scelte di politica di rigenerazione legate al tema della sostenibilità ambientale come faro di riferimento per le opere da realizzare. Quindi siamo tutti convinti che dopo lo straordinario evento di festa e di sport Rio, grazie a questa occasione, sarà una città migliore in cui i cittadini potranno godere di un livello della qualità della vita sicuramente più alto. Oggi vorremmo lanciare anche un ponte verso la candidatura di Roma per ospitare le Olimpiadi del 2024, convinti che anche per la capitale italiana questa potrebbe rappresentare una straordinaria occasione di sviluppo e di riqualificazione».

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DOMENICO DE MASI. «Vorrei sottolineare alcuni punti di convergenza tra l’Italia e il Brasile. Ci sono due frasi che mi hanno sempre molto toccato, una di Tom Jobim e l’altra di Nelson Rodriguez. Il primo dice che il Brasile non è un Paese per principianti, e questo si potrebbe dire anche dell’Italia; Rodriguez invece dice che il Brasile non è popolare in Brasile, e neanche l’Italia è popolare in Italia. Questi due punti di vista ci accomunano perfettamente, che costituiscono per me due punti di forza, ad esempio, rispetto ai francesi che si elogiano per nascondere le loro debolezze. Vorrei ricordare cos’è il Brasile sotto il punto di vista dei dati statistici: su 196 Paesi, il Brasile è al decimo posto nella produzione industriale, nell’industria manifatturiera e nella produzione di metalli preziosi, mentre l’Italia occupa il nono posto nella produzione industriale, quasi una gara olimpica con il Brasile perché 10 anni fa eravamo noi al settimo posto e il Brasile all’undicesimo posto». Così prosegue De Masi: il Brasile oggi occupa l’ottavo posto per la produzione di servizi, di nichel, di alluminio e per il consumo di energia, che è uno degli indicatori più importanti per capire il livello di progresso di un Paese. È al sesto posto per il numero dei viaggi aerei, per il Pil, per il potere d’acquisto, per la produzione automobilistica. Da questi dati possiamo vedere che stiamo parlando di un Paese potentissimo che non ha nulla a che fare con l’immagine che di solito noi abbiamo della «repubblica della banane». Tra l’altro il Brasile è una democrazia profondamente consolidata sotto tutti gli aspetti costituzionali: è al quinto posto per la superficie, per il numero di abitanti, per la produzione agricola, per la produzione di cacao, per la produzione di stagno, di cotone e per la vendita di automobili. È al quarto posto tra le graduatorie delle città più grandi e San Paolo è la quarta città più grande del mondo, per la produzione di cereali, per la lunghezza della rete stradale. Il Brasile è al secondo posto per la produzione di olio di semi; al terzo posto nella produzione di carne e per frutta; occupa la prima posizione per la produzione di zucchero e caffè.
«Questo è un quadro che va dalla produzione rurale a quella metalmeccanica, in un Paese che ha una percentuale di giovani al di sotto dei 15 anni di età del 25 per cento che noi ci sogniamo, poiché la nostra è al 9 per cento. Al visitatore occasionale o quello abituale i punti deboli del Brasile non si nascondono, come non ci nascondiamo i punti deboli dell’Italia. Parlando del divario economico, il 10 per cento della popolazione bianca in Brasile possiede il 75 per cento della ricchezza, mentre nel 2007 in Italia, all’inizio della grande crisi, 10 famiglie di italiani avevano il potere di acquisto di 3 milioni e mezzo di italiani. Oggi le stesse 10 famiglie hanno un potere d’acquisto pari a quello di 6 milioni di italiani, quindi il divario da noi è aumentato».

«C’è poi l’analfabetismo–prosegue De Masi–ma bisogna anche dire che grazie all’impegno di Rudi Cardoso, moglie dell’ex presidente brasiliano Fernando Enrique Cardoso, e alla cosiddetta «borsa famiglia» rinnovata con i Governi successivi, il Brasile è anche il Paese che in questo momento nel mondo è al primo posto per la lotta all’analfabetismo. C’è poi la corruzione, ma come italiano non ho assolutamente la possibilità di infierire su questo punto. C’è la violenza, ma essendo io napoletano abitante di uno dei quattro epicentri delle multinazionali del crimine in Italia, ho poco da dire. Ci sono molti vantaggi per le imprese italiane che vanno in Brasile: il costo del denaro è al primo posto, a Milano un’ora di operaio costa 24 dollari mentre in Brasile ne costa 11. Inoltre il Brasile ha una rete e una catena di università da fare invidia, lo dico poiché le conosco personalmente avendovi tenuto molte lezioni. Il Brasile è anche portatore di uno stile e di una modernità nell’architettura che si vede anche nei musei».

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Eppure De Masi ha l’impressione che il Brasile, come l’Italia, non dia il meglio di sé. «A mio parere dà il meglio nell’antropologia, e per questo va ringraziata la storia: quando i portoghesi sono giunti in Brasile non hanno trovato il vuoto come sembrerebbe dalle storie del Brasile studiate dagli stessi brasiliani, che iniziano sempre dal 1500 e cioè dall’arrivo di Cabral: anche all’epoca di Omero e di Giulio Cesare il Brasile era abitato da una popolazione meravigliosa, a cui si deve la dolcezza del carattere e la passione per l’estetica. Era questa una popolazione che non aveva bisogno di lavorare per vivere perché arrivava tutto dalla natura, non aveva bisogno di combattere per dividersi le risorse, e quindi si dedicava prevalentemente a due elementi: la contemplazione della natura e l’estetica. Avere come eredità migliaia di anni in cui la popolazione era come quella ateniese di Pericle senza però la belligerenza, credo che sia stato un patrimonio strepitoso. L’arrivo dei portoghesi porta a una prima grande mescolanza, nascono i mamelucchi, poi arrivano gli africani e nascono i mulatti, poi arrivano gli italiani, i tedeschi, i libanesi, i giapponesi, ci sono 44 etnie con tantissime sfumature di colore».

«Tutto questo ha portato ai grandi punti di forza del Brasile, a partire dal concetto di accoglienza: mai il Brasile avrebbe costruito muri. Dal Brasile ci viene anche il concetto di solidarietà e il concetto di pace (40 etnie convivono insieme e vanno d’accordo mentre negli Stati Uniti ci sono le chiese per i neri e le chiese per i bianchi), è un Paese che ha 11 Paesi confinanti, e mentre noi con i nostri pochi Paesi confinanti in 500 anni abbiamo fatto 80 guerre, il Brasile ha fatto una sola guerra contro il Paraguay e devo dire che ci mise lo zampino anche Giuseppe Garibaldi. Un Paese che per 500 anni non si è addestrato alla guerra non ha bisogno di avere un grande esercito, non ha bisogno di alimentare aggressività nei confronti dei vicini. Tutto questo si vede nella dolcezza delle persone e nella filosofia del Brasile. Il mio grandissimo amico architetto Oscar Niemeyer ha scritto che ciò che conta non è l’architettura, ma la vita, gli amici, e questo mondo ingiusto che dobbiamo modificare. In questo momento il Brasile sta passando un brutto momento, un momento che assomiglia a quello italiano del 1992 con tutto quello ha comportato dopo, ma credo che le qualità intrinseche del Brasile siano tali da fargli ritrovare presto un punto nuovo di ripartenza, perché ha sempre avuto queste grandi capacità di resilienza».

«Per quanto riguarda la situazione attuale io dico che sta attraversando la sindrome di Galois; Evariste Galois è stato un grande matematico morto a 20 anni in un duello. A 16 anni aveva iniziato a scrivere sette grandi teoremi e la notte prima del duello in cui avrebbe trovato la morte, la passò a scrivere questi 7 teoremi anche se non aveva il tempo materiale per dimostrarli tutti, e di questi teoremi 5 ne sono stati dimostrati. Ci sono dei popoli che quando hanno un compito lo rinviano sempre fino a quando, alla fine, non se ne può fare a meno e si trova un colpo d’ala che risolve il problema; il popolo italiano è così, il popolo brasiliano è così, io sono sicuro che da questa situazione in cui noi ci troviamo insieme al Brasile ne verremo fuori con un colpo d’ala e ci saranno delle cose meravigliose. La storia del Brasile è una storia di stupore: quello che è venuto dopo è stato sempre migliore di quello che si sarebbe potuto immaginare, perciò sono certo che queste Olimpiadi avranno la forza per determinare questo colpo d’ala».

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SANDRO FIORAVANTI. «Le Olimpiadi trasformano le città, Barcellona si è aperta al mare per la prima volta nella propria storia grazie alle Olimpiadi, ma non è soltanto questo: l’Olimpiade ha sempre segnato qualcosa, come quella del 1960 in Italia che in qualche modo ha voluto riscattare l’idea di un’Italia differente, un’Italia che fino a poco tempo prima scambiava gli operai con il carbone. È questo un momento che ha una rilevanza assoluta, vi si rinvengono elementi e valori condivisi che si accorpano, in 16 giorni, in una sorta di Natale in cui esiste un villaggio globale meticcio in cui appare possibile convivere tra diversi, in un sentire comune. Nel 1948 abbiamo ricucito le ferite della guerra anche se non sono stati invitati alcuni perdenti, ma al di là di questo non invito degli sconfitti, c’è sempre stato un riunirsi e un ritrovare qualcosa, la stessa torcia olimpica del 1936 era stata autorizzata forse con altri fini ma nel 1948 l’Italia ricucì con questo percorso quelle ferite che la guerra aveva causato».

Tutto questo, secondo il vicedirettore di RaiSport, trova un filo conduttore nel 1964 quando per accendere il tripode fu impiegato un ragazzo nato lo stesso giorno che fu sganciata la bomba a Hiroshima a simboleggiare la rinascita del Giappone. «L’Olimpiade avrà un valore assoluto per il Brasile anche se esso non ha bisogno di riaffermare quello che dovette riaffermare Roma nel 1960, però certamente sarà importante raccontarlo in modo differente, perché ancora oggi Rio si ammanta di meravigliose bellezze e di questo sentire gioioso che appare nell’immaginario collettivo ma sicuramente ci sono cose che ancora non garbano e di cui addirittura si ha paura. Tutto questo sarà superato certamente nel periodo olimpico e mi auguro che abbia effetti anche nell’avvenire. Il nostro racconto sarà su 3 canali HD, per quanto riguarda il racconto televisivo sarà su 25 canali raggiungibili attraverso la rete, ci auguriamo di riuscire in questo racconto – sia pure molto concitato e concentrato dato che vi sono 46 discipline olimpiche da coprire in solo 16 giorni – a rendere gli elementi non solo del Paese ospitante ma anche dei Paesi ospitati, con tutti i messaggi annessi che un’Olimpiade lancia».

«Quella di Atlanta probabilmente è stata l’Olimpiade meno bella di tutta la storia recente per vari motivi. È forse da quel momento che le Olimpiadi sono divenute altro: basta vedere che per comprare i diritti televisivi fino al 2024 ci vuole un’enorme dispendio, diciamo che si è persa la misura del racconto, della trasmissione di un messaggio. La situazione non è ottimale da questo punto di vista. Le Paralimpiadi hanno mantenuto tutto questo intento: nel 60 le prime Paralimpiadi hanno guadagnato una sorta di sentire paritetico e noi le racconteremo in modo paritetico con gli stessi telecronisti e con lo stesso impegno. Spero che per il Brasile sia come è stato per Londra, dove gli stadi erano colmi durante le Paralimpiadi e probabilmente si è avvertito per la prima volta questo elemento, e cioè che si andava a vedere le gare e il competere, mentre 30 anni fa probabilmente si assisteva agli sport paraolimpici con una nota amara di compassione e commozione. Oggi chi è privo di una parte del corpo è come chi porta gli occhiali: un modo diverso di riuscire a fare le stesse cose, e talvolta addirittura meglio di chi i pezzi li ha tutti».

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CARLO MORNATI. Prosegue Carlo Mornati, vicesegretario generale del Coni e capo missione Rio 2016. «Stiamo facendo un grande sforzo perché Rio ci proietta alle Olimpiadi del 2016 ma ci fa da trampolino per quella che è la candidatura di Roma 2024, che è molto più vicina di quanto si possa immaginare poiché tutto si deciderà nel 2017. Il nostro sforzo è in linea con quello che è stato sempre fatto dal Comitato olimpico, che è uno dei Comitati olimpici più blasonati nel mondo. Siamo la quinta nazione per il numero di medaglie vinte e stiamo organizzando la nostra trasferta al meglio, con circa 300 atleti. Ciò significa che la delegazione sarà formata da uno staff di 650 persone. Ovviamente Rio de Janeiro rappresenta un messaggio ricco di simbolismo e anche la nostra spedizione vuole essere ricca di simboli a cominciare dalla nostra Casa Italia, una delle tante ‘ospitality house’ che costituiscono il punto di ritrovo per la comunità di appartenenza. Noi l’abbiamo voluto fare in maniera molto simbolica e significativa e sarà questo il modo in cui porteremo nel mondo il Made in Italy. Tornando al simbolismo olimpico, quando Pierre De Coubertin pensò alle Olimpiadi pensò sia a competizioni sportive sia a competizioni artistiche, presenti queste ultime dal 1912 a Stoccolma fino al 1948 accanto alle gare sportive».

«Ci siamo impegnati a fare in modo che Casa Italia sia un museo moderno che raccolga ciò che sono la cultura brasiliana e la cultura italiana. Portiamo anche la nostra tradizione culinaria contaminandola con la tradizione culinaria brasiliana perché abbiamo invitato sia degli che stellati italiani che brasiliani. Casa Italia sarà il nostro faro, perché la voglia e il desiderio di lasciare qualcosa è tanta, non è solo un evento sportivo di passaggio. Con Action Aid siamo impegnati da più anni e faremo in modo che 500 ragazzi con le loro famiglie della Rocinha saranno coinvolti in una sorta di educazione al cibo e allo sport lasciando una piccola testimonianza di quello che è stato il passaggio dell’Italia a Rio. Sono convinto che saranno dei grandissimi giochi a prescindere da quella che sarà la realizzazione infrastrutturale perché veramente c’è un calore umano che va oltre a quello che l’elemento agonistico in sé», conclude Mornati.

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LUCA PANCALLI. Luca Pancalli è un pentatleta, nuotatore, dirigente sportivo e politico italiano. Praticare attività sportiva ad altissimo livello nonostante sia costretto su una sedia a rotelle. «Vorrei fare una riflessione sulla dimensione paraolimpica che Rio sta preparando a ospitare subito dopo le olimpiadi, legata anche e soprattutto alla riqualificazione sociale e culturale. Credo che mai come oggi le Paralimpiadi rappresentino l’occasione strategica per un Paese di accelerare i processi di attenzione verso le fasce deboli della società che necessitano di grandi eventi per poter gridare al mondo ‘esistiamo anche noi’. Sono ormai tanti anni che mi occupo di dimensione paralimpica come presidente del Comitato italiano paralimpico ma anche a livello internazionale, ho visto negli ultimi 8 anni il progresso straordinario che ha fatto il Comitato paralimpico brasiliano sull’onda dell’assegnazione dei giochi del 2016. La dimensione paralimpica del Brasile 8 anni fa era quasi nulla, oggi invece è tra le prime nazioni al mondo, quindi dal punto di vista sociale sfuma la grande attenzione all’evento sportivo per appropriarsi della dimensione sociale poiché si genera una cultura della solidarietà e dell’inclusione».

«Probabilmente–prosegue Pancalli– assisteremo a degli straordinari giochi olimpici e forse ai più belli della storia dei Paralimpici, perché nella dimensione paralimpica il progresso è talmente veloce che Paralimpiade dopo Paralimpiade assistiamo a qualcosa di straordinario ed inimmaginabile dei nostri atleti. Sicuramente sarà anche un esempio per noi per quanto riguarda Roma 2024, poiché guardiamo a quelle città che hanno saputo sfruttare quest’occasione nell’idea di sviluppo urbanistico della città. Oggi siamo candidati e stiamo tentando di coltivare questo sogno di regalare a questa città un’occasione e un’opportunità. Se noi oggi vogliamo proiettare Roma nell’ambizione di regalare un sogno nel 2024, ciò è perché siamo fiduciosi che quello che stiamo facendo oggi come Paese e come città in futuro si possa realizzare come sogno. Roma non ha bisogno di punti di forza, Roma è Roma con i suoi 2700 anni di storia stratificati sulle proprie pietre, Roma è la città eterna capitale della cultura e della civiltà, ogni angolo di Roma ci racconta una storia, il punto di forza di Roma è la città stessa e noi romani dobbiamo convincerci del fatto che possiamo essere forti perché vogliamo prospettare un’Olimpiade della cultura, della bellezza, dell’innovazione, della sostenibilità».

«Pochi sanno che Roma rappresenta la città che ha maggiori spazi verdi in Europa. Vogliamo dare a Roma un’occasione di rilancio e un’opportunità organizzando e candidandoci per due grandi eventi sportivi ma soprattutto partendo da la dove le Olimpiadi del 1960 ci hanno portato, regalandoci la Via Olimpica, il sottopasso del Lungotevere, il Villaggio Olimpico e tutte le strutture infrastrutturali, lo Stadio Olimpico, lo Stadio dei Marmi, il Foro Italico. Ripartiamo paradossalmente da quelle cose che in qualche modo sono e rappresentano Roma 1960.Abbiamo già il 70 per cento degli impianti e possiamo ripartire imparando dagli errori del passato. Non serve costruire cattedrali nel deserto, serve costruire quello che è necessario per ospitare due grandi eventi sportivi, ma solo laddove questa infrastrutture sportive avranno ragion d’essere nel futuro perché, se non saranno accompagnate da piani economici gestionali e di sostenibilità nel post evento olimpico, saranno solo strutture temporanee non utili».

«Bisogna intervenire laddove è necessaria una rigenerazione urbana e infrastrutturale, si pensi all’area di Tor Vergata dove c’è ancora la ferita aperta della Vela di Calatrava, da noi individuata per ospitare il Villaggio Olimpico. Ci sono ancora altre infrastrutture che poi, terminate le Olimpiadi, saranno smontate mentre altre saranno usate dalla città riqualificando un’area che forse soltanto con l’evento olimpico e paralimpico avranno un senso. Non so quale amministrazione sarà in grado di immaginare di riqualificare quell’area senza l’occasione di un grande evento che attrae economie e risorse importanti. A me viene da sorridere quando mi si antepone il problema della buca all’organizzazione di un evento olimpico, la buca va a priori aggiustata, invece l’evento olimpico è un acceleratore rispetto a delle risposte che la città sta aspettando da troppi anni. I cittadini romani lo meritano».      (ROMINA CIUFFA)

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Anche su SpecchioEconomico – Giugno 2016

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