IL CONFLITTO INOPPUGNABILE DENTRO DI NOI, DUBBIO AMLETICO O NEVROSI?

IL CONFLITTO INOPPUGNABILE DENTRO DI NOI, DUBBIO AMLETICO O NEVROSI? di ROMINA CIUFFA, psicologa. Il conflitto, quello che tutti abbiamo dentro. Niente di nuovo per nessuno di noi: il dubbio, lo stress decisionale, spesso l’angoscia. In psicologia il conflitto consiste nella presenza di assetti motivazionali contrastanti rispetto ad una meta. Di «oggetto-meta» aveva parlato il sociocognitivista Albert Bandura nel definire l’autoefficacia. Il gestaltista Kurt Lewin, fautore della teoria del campo, dà rilievo all’interazione tra persone e ambiente per studiare il comportamento – nella relazione C=f(P,A) ossia il comportamento come funzione di persona ed ambiente – analizza le valenze che possono essere date ad un determinato oggetto meta o a più di essi. Lewin definisce il conflitto come una competizione tra istanze affettive ed avversive, distingue tra conflitti adienti ed evitanti, o doppiamente adienti e doppiamente evitanti, a seconda che si presentino due tendenze appetitive (avvicinamento-avvicinamento), due avversative (evitamento-evitamento), una appetitiva e una avversiva (avvicinamento-evitamento), ossia due più tendenze che siano in sé sia appetitive che avversative, o più di due (doppio avvicinamento e doppio evitamento): è questo il caso delle mete ambivalenti.

In tutte queste ipotesi, sempre presenti e in modo molto complesso ed evidente nella realtà quotidiana, il soggetto tenderà – quando non a bloccarsi (è l’esempio dell’asino di Buridano) – a risolvere in un senso o nell’altro, quindi a predisporsi in modo da esaltare l’obiettivo scelto e denigrare quello trascurato per non tornare in conflitto, dunque semplificando solo determinati aspetti dell’oggetto-meta e mutando la propria posizione cognitiva ed emotiva. Ciò non avviene sempre, e il soggetto può tanto ritirarsi dalla decisione quanto oscillare nevroticamente tra le varie ipotesi. 

Fu il russo Ivan Pavlov, lo stesso che studiò le reazioni del cane in ambito comportamentista, a compiere studi sul conflitto eccitazione-inibizione negli animali in una situazione di nevrosi sperimentale indotta, in cui verificò il presentarsi di situazioni di turbe generali di ansia e disturbi alimentari, turbe nei rapporti sociali, manifestazioni psicosomatiche. Nell’uomo tali reazioni sono molto più evidenti, in un repertorio più ampio di sintomatologie. 

In ambito psicanalitico, il conflitto riveste un’importanza primaria: Sigmund Freud lo colloca tra istinto di vita e istinto di morte (Eros e Thanatos), tra Es e Super Io, tra principio di realtà e principio di piacere, e contrappone il conflitto manifesto ad un conflitto latente. Gli elementi manifesti, se presenti, svolgono una funzione di copertura dei conflitti latenti, con implicazioni di rilievo che includono lo sviluppo di psicopatologie anche molto gravi, cui Freud risponde con l’interpretazione dei sogni, le associazioni libere, il transfer, l’ipnosi, tecniche utili a far emergere le cause inconsce che il soggetto soffoca con meccanismi di difesa a partire dal più dirompente, quello della rimozione, non sufficiente ad eliminare il conflitto se non a livello conscio. 

Tra i cognitivisti, l’americano Leon Festinger si è espresso elaborando il concetto di «dissonanza cognitiva», quello stato generato dall’incoerenza tra due credenze od opinioni contemporaneamente esplicitate che si trovano a contrastare fra loro. Distinguendo dissonanze cognitive per incoerenza logica, per tendenze comportamentali del passato, per costumi culturali rispetto al contesto di riferimento, sostiene che un conflitto possa risolversi in tre modi: la modifica del comportamento, la modifica dell’atteggiamento o la modifica dell’ambiente. È il caso di colui che, disprezzando i ladri, acquisti un prodotto ad un prezzo tanto basso da non poter non pensare che esso provenga da atto illecito. Tale conflitto può risolversi attraverso una modifica cognitiva della credenza: smettere di disprezzare i ladri, o intervenendo sul comportamento: non comprare, in questo esempio essendo difficile mutare la situazione ambientale. È anche il caso del consumo di sigarette: colui che le assume sa che danneggiano la salute, dunque può smettere di fumare ovvero proseguire dando peso alle probabilità (solitamente valutate con euristiche alla Kahneman – routinarie, molto efficienti, poco consapevoli, automatiche e tendenti alla semplificazione – e non con algoritmi complessi come la formula di Bayes, anche detta teorema della probabilità delle cause) che fumare non sempre uccide, e che si tratta di un comportamento che molti hanno fino a tarda età senza riscontrare problemi incisivi, accettandone così anche il rischio. Festinger ricorda Fedro, che conclude la favola della volpe e dell’uva con un aggiustamento cognitivo: «Tanto era acerba». Importanti i suoi esperimenti su comportamenti compiacenti e ricompensatori.

 È il canadese Daniel Ellis Berlyne a contraddire gli altri studiosi quando parla di una marcata motivazione al conflitto che spinge l’uomo in tale direzione. Le proprietà collative degli stimoli, ossia la presenza di elementi di novità ed incongruenza con le precedenti conoscenze determinanti per l’attività cognitiva, attengono al confronto e possono essere messe in relazione con l’incertezza: un confronto con situazioni nuove e complesse porta ad un innalzamento dell’arousal, il livello di attivazione dell’organismo, e conduce all’esperienza che Berlyne ha chiamato «conflitto concettuale», che può aumentare eccessivamente l’arousal stesso. Con l’esplorazione specifica è possibile ridurre tale arousal, mentre effetto contrario si ottiene con l’esplorazione diversiva. 

La teoria di Berlyne a proposito della relazione tra le emozioni e i processi cognitivi ripropone un’idea di Wilhelm Wundt, espressa con la curva di Wundt-Berlyne la quale riassume le relazioni che intercorrono tra arousal e stato emotivo connesso a una data situazione, inteso come valore edonico della situazione dipendente dall’arousal: il valore positivo o negativo delle emozioni è funzione che inizialmente aumenta, quindi diminuisce con l’aumentare dell’arousal. 

Il conflitto si manifesta a livello intrapsichico sì, ma anche interpersonale, come nel caso di opinioni contrarie, e spesso a suscitarlo non è un oggetto ma un modello di comportamento. L’appartenenza a diverse categorie genera un conflitto tra ruoli, che viene esaltato dalle diverse regole, spesso incompatibili, da rispettare. Esempio utile è quello tra «testimone» e «amico» nel caso di incidente stradale (il ruolo «amico» mente per avvantaggiare il conoscente, il ruolo «testimone» dichiara il vero ma avvantaggia così lo sconosciuto che è stato urtato): alcuni hanno risposto al quesito conflittuale in termini di ruolo pubblico, altri di ruolo privato. 

Un conflitto denso di significati è quello intraevolutivo, nel passaggio da un’età all’altra (peraltro molto ben evidenziato da Erik Erikson), legato alle trasformazioni corporee e alla maturazione cognitiva. A tale conflitto è possibile rispondere con una terapia psicologica affinché il passaggio avvenga armonicamente, sia nei bambini, che passano attraverso «età critiche» più sensibili (per Erikson sperimentando conflitti fiducia-sfiducia, autonomia-vergogna e dubbio, iniziativa-senso di colpa, industriosità-inferiorità), sia negli adolescenti, divisi tra bisogno di contrapporsi alla famiglia con un proprio senso del sé e difficoltà ad accettare la crescita e il distacco dalle figure di accudimento (per il medesimo psicologo dello sviluppo, in tale fase il conflitto è tra identità e diffusione), sia negli adulti (in bilico tra intimità e isolamento contro generatività, poi tra stagnazione e autoassorbimento), sia negli anziani (nel conflitto eriksoniano tra integrità dell’Io e disperazione). 

Nell’area clinica l’applicazione riguarda il trattamento delle nevrosi, per cui diventa centrale favorire un processo di consapevolezza ed elaborazione dei termini del conflitto nevrotico. È utile dare una «narrazione», far emergere nel colloquio gli elementi di attrazione e repulsione e favorire un processo decisionale adeguato. L’elemento terapeutico nei colloqui clinici è sempre presente anche quando non si sia stabilito alcun contratto terapeutico ed il clinico non si sia posto esplicitamente nel ruolo di psicoterapeuta. Oltre al colloquio sono utili metodi psicometrici, quali test proiettivi (Rorschach e Tat sono i più utilizzati) che consentono di estrapolare i dati presenti inconsciamente, e test grafici. 

Anche i profili di Rubin possono rivelare l’entità di un conflitto, prestandosi a due possibilità di lettura: il soggetto, fissando a lungo le figure, alterna le due percezioni conflittuali sempre più velocemente finché l’immagine non si scomotizza (la scomotizzazione è quel meccanismo di difesa psicotico di negazione inconscia con cui il soggetto occulta o esclude dall’ambito della coscienza o memoria un ricordo penoso, ma anche intellettivamente inteso dalla psicologia cognitiva, la creazione di uno stereotipo ove si eviti di prestare attenzione ad alcuni dati disponibili in un certo contesto, dunque risolvendosi in una reazione alla dissonanza cognitiva attraverso fissazione cognitiva). I profili di Rubin sono conosciuti nell’illusione ottica della figura sfondo-vaso, tipica di conflitto.

Molti sono gli studi compiuti sul conflitto intrapsichico, quel dubbio «amletico» che, se seviziato, non accompagnato, non sorretto, non cognitivizzato, conduce ad una sofferenza talvolta inoppugnabile. Alcuni individui sono più propensi a nuotare nel conflitto, a bloccarsi, con o senza nevrosi conclamata. C’è chi dice che il segno zodiacale dei Gemelli ne sia il più afflitto. Altri sono più orientati ad agire da boia: un colpo secco, e non ci si pensi più (il segno del Toro, nell’esempio astrologico). Non sia però sottovalutato il problema: chi vive nel conflitto finisce per cronicizzarne i sintomi e le conseguenze sono devastanti. È collegato il tema della frustrazione, che approfondirò in un prossimo articolo. Romina Ciuffa




NON CHE TRASPARIRE

NON CHE TRASPARIRE

Non che trasparire
nasconda le cose, piuttosto
le amplifica e rende curiose
idee evanescenti di un senso
d’amore – quel forte rancore
dell’essersi resi invisibili
quando
si amava –
ed intanto
riflette su un vetro
l’immagine amata
lasciata nel retrobottega
del “dopo”, del “poi ci si vede”,
del “sei tu la sola
che amo ma”. Gola,
la sola che avrà questo nodo.
Parola.

Romina Ciuffa, 21 dicembre 2016




MORRO DOS PRAZERES: I COLORI DELLA FAVELA CHE HA UCCISO UN VENETO

MORRO DOS PRAZERES: I COLORI DELLA FAVELA CHE HA UCCISO UN VENETO di Romina Ciuffa. “Morro dos Prazeres” significa letteralmente “collina dei piaceri”. È una piccola, spettacolare favela a sud di Rio de Janeiro che si staglia a 275 metri, vicino il quartiere bohémienne di Santa Teresa, e da essa è visibile tutta la Rio più nordica sebbene ancora meridionale, dal Pão de Azucar al Botafogo, una delle viste più intense della città carioca, la cidade maravilhosa. Prazeres conta meno di 700 residenti. Il suo nome è un tributo a Madre Maria dei Piaceri, che tenne una messa alla base della collina dove una volta era una cappella (oggi v’è un blocco di appartamenti). Il suo passato non è dorato: è stato un Quilombo, ossia un punto in cui gli schiavi si rintanavano nel XIX secolo.

Nel 2008 è stata il set del film Elite Squad, il famosissimo Tropa de Elite. Non è facile giungervi, ed è parte dell’unità di “Escondinho/Prazeres”. Comunità “pacificata”, la polizia vi è entrata e, “teoricamente”, la favela è “tranquilla”. Che la polizia entri in una favela e la pacifichi non vuol dire che la favela sia pacificata. Nella maggior parte dei casi, pacificação non è affatto sinonimo di pace, tutt’altro: i residenti si sentono più insicuri. Il BOPE (Batalhão de Operações Policiais Especiais, ovvero Battaglione per le operazioni speciali di polizia) tende a confrontarsi con i cittadini in maniera più dura, ed essi si sentono paradossalmente più protetti dai narcotrafficanti. I tiroteios (gli scontri a fuoco) restano, cambiano solo gli addendi: se prima erano tra narcotrafficanti, poi sono tra narco e polizia, e i residenti sono meno tutelati. Questa è vox populi. E il povo si lamenta perché se prima poteva tenere le porte aperte e nessuno avrebbe rubato né commesso crimini, con l’entrata del BOPE le cose cambiano e iniziano i furti e gli stupri, non più assiduamente controllati dai precedenti detentori del potere (molti dei quali in carcere, altri latitanti, altri ancora nella comunità).

Mi soffermo oggi sul Morro dos Prazeres, che conosco bene, e ne pubblico il mio reportage fotografico, a poche ore dal caso di cronaca nera verificatosi alle 11 ora locale dell’8 dicembre: due motociclisti italiani, durante un viaggio previsto di 35 mila chilometri, dopo una visita al Cristo Redentore sarebbero entrati per sbaglio nell’area e fucilati. Dal Morro il Cristo è ben visibile.

Ma non basta un occhio a Dio: il veneto Roberto Bardella, di Jesolo, è morto, raggiunto dai colpi alla testa e al braccio; suo cugino Rino Polato (di Fossalta di Piave) si è salvato (dichiara alla polizia locale: “Roberto mi faceva notare quanto fosse degradato l’ambiente circostante. Ci siamo resi conto di aver imboccato una strada sbagliata”). Vestiti da centauri, sono forse stati scambiati per poliziotti. “Avremmo fatto trecento metri, quando abbiamo visto quel gruppo di uomini, tutti molto giovani, che sbarrava la strada e puntava le armi. Ho sentito un colpo sul casco e ho visto cadere Roberto che stava davanti. Mi sono fermato. Sono stato bloccato, strattonato e poi buttato giù dalla moto”. Poi, Polato è stato preso e tenuto per due ore in una vettura bianca, quindi rilasciato. Il suo telefono, scomparso, è stato poi ritrovato a pezzi. La Delegacia Especial de Apoio ao Turismo (Deat) lo ha accompagnato al Consolato italiano, e sabato 10 è rientrato in Italia. Solo.

Un incidente. Ma questo basti a confermare non la pericolosità del Brasile, quanto la pericolosità del turista. Rectius: la sua leggerezza. Non si creda – è un invito – che le palme bastino a rendere omaggio ad un Paese che resta emergente, sofferente, insoddisfatto, povero. I media hanno esaltato le Olimpiadi, i Mondiali, la Giornata dei Giovani e la presenza del Papa, le buone azioni del Governo, e mai hanno rivelato gli scandali effettivi che hanno distrutto intere comunità, l’aumento del costo della vita che ha reso impossibile la sopravvivenza di molti, l’esistenza di un grande, immenso, giro di spaccio nazionale ed internazionale. Non si può pensare al Brasile canticchiando Caetano Veloso, in un localetto fumante ascoltando un successo di Tom Jobim. Il Brasile non è bossanova. Il Brasile è questo: è il dolore di famiglie sfrattate, la scarsa educazione, l’analfabetizzazione. Quando per costo della vita si intende più il prezzo che vale una vita: ossia, nulla. Un iPhone, una motocicletta, ma anche solo una decina di reais. Non si visita una favela con leggerezza, non si cammina nelle spiagge di Jericoacoara di notte da sole, non si rischia la vita come l’hanno rischiata, e persa, gli ultimi italiani casi di cronaca nera più recenti. C’è sempre un errore alla base di tutto questo.

Ho vissuto nella favela della Rocinha e frequentato tutte le favelas di Rio de Janeiro. Sono stata sempre molto attenta e mi sono garantita protezione prima di tutto. Sono scampata a sparatorie e i colpi di fucile li ho visti passare sopra di me che correvo. La favela non è un Risiko, non è un gioco. Ma non lo è neanche Leblon, non lo è Ipanema, né Copacabana, che prolificano di ragazzini affamati di denaro. Bisogna, prima di affrontare un viaggio in Brasile, approntarsi una preparazione in sociologia, antropologia, psicologia, storia. Solo allora si potranno capire quelle che al turista medio sembrano le contraddizioni di un Paese, mentre a me sembrano solo elementi di coerenza. Sarebbe strano il contrario. Non si entra con una moto in una favela, regola numero uno. Salvo che non sia una moto della favela. Non si compra maconha (marijuana) nella favela, salvo che non si sia introdotti da un favelado di quella stessa favela. Non si passeggia allegramente in una favela con una macchina fotografica a lungo obiettivo, salvo che non si sia garantita protezione.

Il Morro dos Prazeres è una comunità colorata, ne danno conto le mie fotografie. Alzi gli occhi e vedi Cristo. Alcune case sono in vendita. L’atto di acquisto non è registrato nello Stato di Rio de Janeiro e non risulterà da nessuna parte, se non nel Registro della Favela. Smettetela di fare i gradassi: la favela non è un centro sociale. La favela è un luogo fatto di persone vere che soffrono fame e tubercolosi, che se è vero che non pagano la luce allo Stato perché hanno i gatos, i fili collegati in ogni punto dell’area che garantisce loro dell’autoconservazione, questo rientra nella sociologia del luogo. Cacciati dalla città, i poveracci si rifugiarono nei morros quando ancora la città non si era resa conto di quanto valessero quelle colline. Ora sono le più ambite dai grandi imprenditori, dali politici, dai ricchi. Il gap tra povertà e ricchezza è tra i più alti del mondo. Ogni singola comunità (favela) ha una vita a se stante, una storia a se stante, una genealogia a se stante. Sono attivi progetti e le comunità sono comunità di buoni. Non facciamoci influenzare dai media. Ma attenzione alla leggerezze.

Eccoli, i colori che ho visto nella collina dei piaceri, dove il pittore è Cristo: al link http://www.riomabrasil.com/morro-dos-prazeres/

(Romina Ciuffa)




AMERICAN EXPRESS: MELISSA PERETTI, DIVERSIFICAZIONE DEI PRODOTTI MA ANCHE DELLE DIVERSITÀ UMANE

American Express viene fondata a Buffalo nel 1850 da Henry Wells e William Fargo come società di trasporto valori. Il logo, un cane poggiato sopra un baule, è già un forte richiamo alla sicurezza e alla protezione. Di strada questo cane ne avrebbe fatta molta. Intanto, il marchio nel 1891 inventa il «travel cheque», primo strumento prepagato della storia che contribuisce al rapido processo di internazionalizzazione dell’azienda. È nel 1958 che viene creata la prima carta di credito, che già prima del suo lancio riceve oltre 250 mila richieste e a soli tre mesi dalla comparsa conta già 500 mila titolari negli Usa. In Italia, le carte di credito personali sono lanciate nel 1971, quelle dedicate alle aziende nel 1979, e risale agli anni 90 il programma di fidelizzazione «Club Membership Rewards». A fine 2003 l’Amex raggiunge una quota di oltre un milione di titolari di carta in Italia. Nel tempo American Express è diventata «più di una semplice carta», offrendo valore aggiunto per il semplice uso della stessa: dal programma di fidelizzazione al «cash back» per il prodotto più giovane, dalle miglia e i punti accumulabili ai benefici esclusivi offerti dai partners. Oggi in Italia la società sta beneficiando di grandi cambiamenti: innanzitutto un trasferimento della sede romana principale di Cinecittà a quella di Via Eiffel, tutta trasparente, che ha consentito un cambio epocale. È l’introduzione dello «smart working», ma non solo: è l’avvio di specifiche attività di «Diversity & Inclusion», come il programma «Women in the Pipeline and at the Top», per incrementare il numero di dirigenti donne, o il «Pride Network», per promuovere i temi di inclusione della comunità LGBT. Infatti la diversità è sempre stato uno degli elementi più forti dell’American Express. Quindi, la nomina di Melissa Ferretti Peretti, già in azienda da molti anni, come direttore generale per l’Italia, anche riconosciuta dal Premio Bellisario per la sua eccellenza. Specchio Economico lo conferma. I lettori di Specchio Economico potranno farlo attraverso questa intervista, che dà conto dell’importanza di chiamarsi American Express.

Domanda. Iniziamo proprio dalla sua nomina e dalla femminilità in questo ruolo: l’American Express è molto attiva nell’attenzione alla parità di genere. Cosa ci può dire?
Risposta. La cosa più interessante in realtà non è stata solo la nomina di una donna, ma la nomina di una persona giovane e italiana: le tre componenti insieme rendono tale nomina particolare, ma credo che se anche fosse stato nominato un giovane adulto italiano sarebbe stato altrettanto importante, ciò avrebbe costituito una novità positiva per il mondo della finanza, soprattutto avvenendo nell’ambito di un marchio già forte, non una start up bensì un’azienda che lavora in Italia dal 1901 e che è nata, in America, 166 anni fa, nel 1850, facendo cose ben diverse da quelle che facciamo oggi: trasportando i valori con le carovane dall’est all’ovest e già rappresentando i valori della sicurezza, della security, del trust, dell’affidabilità. Infatti era un cane poggiato sopra un baule a rappresentare il brand, ossia proprio il valore della protezione, che ci siamo portati dietro in tutti questi anni di storia. Il fatto che un’azienda con un ruolo così rilevante nella finanza da cent’anni scelga, alla guida di un mercato importante come l’Italia – fra i primi tre europei e fra i primi otto nel mondo per Amex – una persona cresciuta in azienda e italiana secondo me è un segno importante. Che io sia donna non lo trovo altrettanto interessante, sebbene ciò comunque avvenga in un momento in cui si discute tanto del ruolo della donna dopo l’entrata in vigore della legge sulle Pari opportunità. Ma questo ci fa parlare, per l’appunto, di un tema a noi molto caro, quello più generale della «diversity». Oggi come oggi non può esistere nessun ambiente che funzioni e che sia in grado di competere in maniera efficace ed efficiente in un contesto competitivo complesso, in continuo mutamento, globale, senza non soltanto accogliere, ma valorizzare ogni tipo di diversità.

D. Il 17 novembre l’American Express a Roma ha tenuto un evento specifico per la comunità LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender). Di cosa si è trattato?
R. È stato un evento interno all’azienda molto sentito, che non abbiamo fatto per avere visibilità sui giornali proprio perché la diversità è nel dna di American Express. Siamo un’azienda globale, presente in 130 Paesi con 166 mila dipendenti che, come è ovvio, sono tutti diversi tra loro, così come lo sono i nostri clienti, circa 130 milioni nel mondo. Già dall’inizio del 2013 in Italia abbiamo esteso tutti quanti i benefici del dipendente al partner dello stesso sesso, quindi ben prima della legge sulle unioni civili. È chiaro che un’azienda del genere non può non fare della diversità e dell’inclusione uno dei valori chiave. Ci siamo dedicati molto negli ultimi anni al tema del genere; personalmente, prima di diventare Country Manager, sono stata sponsor, all’interno di American Express, di un programma volto ad aumentare il numero delle donne nelle posizioni dirigenziali, con l’obiettivo di raggiungere in Italia il 50 per cento dell’impiego femminile. Siamo ora al 43 per cento, con una media italiana assestata attorno al 18 per cento.

D. Nella vostra nuova sede la disabilità è finalmente tutelata. Può parlarci di questo?
R. Ci stiamo dedicando molto alla disabilità soprattutto dopo il cambio di sede, da quella di Cinecittà a questa di Via Eiffel, che grazie alla conformazione dell’edificio ci ha permesso di creare un «work and talk», parlare e agire, e di avere finalmente un «building friendly» da ogni punto di vista. A Cinecittà erano presenti delle barriere architettoniche, trattandosi di un edificio costruito negli anni 70. Bisogna però pensare che il «private network», una rete interna per i dipendenti, in America esiste da vent’anni, essendo nato in Amex nel 1995, e l’impegno nel «Diversity & Inclusion» è iniziato nel 1985, quindi da 30 anni. I due network che si occupano di «diversity» – il Women’s Interest Network (Win) per le donne, e il Pride per l’orientamento sessuale, che in America esiste dal 1995 – adesso hanno il 40 per cento di dipendenti iscritti. Ho chiesto a tutti di iscriversi, LGBT e non LGBT, per attivare un’alleanza utile a portare avanti la parità dei diritti e la sensibilizzazione su tali temi, e ci saranno una serie di iniziative non soltanto interne all’azienda per facilitare l’inclusione da ogni punto di vista: sessuale, della disabilità, del genere. Questo tema è per noi più forte perché in Italia siamo indietro. La legge grazie al cielo è stata votata ma con trent’anni di ritardo, tanto che prima di essa a livello europeo l’Italia aveva un bollino rosso di «discriminazione». Se oggi è più facile parlare delle donne e della disabilità, ciò non accade in tema di orientamento sessuale, tanto da aver ricevuto attacchi su alcuni canali Twitter personali per aver pubblicato foto dell’evento LGBT, ma questo vuol dire solo che stiamo facendo qualcosa di giusto.

D. Nuova sede nuova vita? Cos’è il vostro «smart working»?
R. In quest’area abbiamo cercato innanzitutto di implementare lo «smart working». L’Italia è stato il primo Paese europeo di American Express a promuovere il lavoro «smart» dopo la Gran Bretagna così come per il Pride, quindi siamo un Paese all’interno dei mercati europei che si sta dimostrando estremamente innovativo, abbiamo vinto come prima azienda il premio «Smart working» del Politecnico di Milano nel 2014 proprio perché erano ancora pochissime le aziende ad occuparsene. Di fatto significa andare oltre la logica della presenza in ufficio e riuscire a gestire le persone attraverso gli obiettivi. Ciò avviene attraverso investimenti in spazi e tecnologia, in un ripensamento dei ruoli e dei luoghi aziendali. Oggi nessun dipendente ha una postazione fissa, solo alcuni ruoli la hanno, coloro che devono stare sempre in ufficio, che sono la minoranza: il 75 per cento delle persone deve prenotare sul sistema online la propria postazione sulla base dei suoi impegni in ufficio, e le scrivanie sono divenute «clean desk». Abbiamo eliminato anche tutta la carta. In linea di massima le persone lavorano da casa fino a due giorni a settimana, quindi il 30 per cento di esse non sono in ufficio e su mille dipendenti non ce ne sono mai più di 700: questa è un’ottima cosa da una parte perché siamo lontani dalla vecchie sede, dall’altra anche in funzione dell’impatto ambientale dei trasferimenti in una città come Roma. Inoltre abbiamo calcolato che, con questo sistema, si risparmiano alcuni giorni l’anno che altrimenti si trascorrerebbero solo effettuando gli spostamenti.

D. Cosa prevale nello «smart»?
R. Il concetto è quello della flessibilità: il leader deve essere in grado di stabilire una relazione con i propri collaboratori e di gestirli a seconda degli obiettivi, valutare così la loro prestazione in base alla stessa e non sul mero calcolo della presenza in ufficio. Questo rappresenta un cambiamento culturale molto forte, che porta a stabilire anche un rapporto di fiducia con il collaboratore, una maggiore responsabilizzazione, una partecipazione più sentita alle esigenze dell’azienda, in quanto senza controlli. Serve ovviamente la tecnologia che oggi come oggi consente di essere sempre connesso. Tutti hanno ovviamente il proprio computer aziendale e il telefono integrato. Anche la socialità, con gli spazi aziendali, è cambiata: le persone non hanno postazione fissa e ciò aiuta molto la collaborazione e la conoscenza, cadendo le barriere del quotidiano. Inoltre abbiamo ampliato tantissimo le aree comuni, creando salottini per le riunioni spontanee, cucine, e dando connessione wifi in ogni spazio, una grande rivoluzione che è stata estremamente facile e veloce. Non sarebbe ora più possibile tornare indietro. Questo è solo l’inizio, fra 10/15 anni da noi nessuno lavorerà più in ufficio, esisteranno però spazi dove sarà possibile fare riunioni con il proprio team, gli uffici tra l’altro costituiscono puntuali costi che non vengono tradotti in produttività. Lo «smart working» ha prodotto una serie di risultati positivi anche dal punto di vista della produttività stessa, l’assenteismo per malattia è diminuito del 6 per cento, i permessi del 20 per cento e così via solo a distanza di un anno. L’obiettivo è continuare a migliorare, e un team si dedica alla valutazione dello «smart working» per trovare modalità di ottimizzazione costante. Abbiamo anche messo a disposizione dei nostri impiegati una palestra, facendo un accordo con la One on One, società del Gruppo Tecnogym che ha creato lo spazio per noi e lo ha dotato di personal trainer e di tutto ciò che serve; infine, abbiamo inserito un parrucchiere e un centro benessere nella struttura. Stiamo cercando di realizzare spazi per bambini, un club dove i genitori possano portarli mentre lavorano.

D. Come vi occupate di formazione?
R. Abbiamo creato la Amex Academy per rispondere alle esigenze formative, integrando i corsi esterni con quelli interni, direttamente condotti dai nostri manager, di fatto anche arricchendo i curriculum dei nostri dipendenti che, attraverso le lezioni, possono imparare e proporsi per nuovi ruoli. Abbiamo anche lanciato un Master degree per senior talentuosi, una classe di 15 persone cui sono assegnati progetti da svolgere nel corso dei 6 mesi.

D. In questo anno e mezzo come Country Manager, cos’ha fatto?
R. Sono in American Express da 13 anni. Questo ruolo è la naturale prosecuzione del mio ruolo precedente, in questo sono stata molto facilitata, conoscendo già le persone e le attività. Venivamo da una situazione di stasi per una serie di ragioni legate soprattutto al contesto esterno economico. Ora siamo in forte ascesa anche grazie alla focalizzazione sul digitale e gli investimenti sul mercato: quest’anno stiamo investendo il 45 per cento in più rispetto all’anno scorso per acquisire nuovi clienti. Il portafoglio sta di nuovo crescendo mentre era stato statico per 7 anni, con una crescita di circa il 4 per cento, e il fatturato, che per noi corrisponde al «transato», è già cresciuto lo scorso anno del 3,5 per cento, mentre quest’anno stiamo raddoppiando. Sul digitale ci stiamo focalizzando nel migliorare la «customer experience» dei clienti.

D. In che modo affrontate la digitalizzazione?
R. American Express è il più grande network integrato di pagamenti nel mondo, processiamo milioni e milioni di transazioni al giorno, abbiamo milioni di dati da utilizzare in maniera intelligente per personalizzare sempre di più l’esperienza del cliente, dandogli un valore aggiunto, ad esempio inviando offerte sempre più in linea con le sue scelte. L’analisi dei dati ci consente di sapere cosa preferisce, così come la geolocalizzazione. Chiaro che la rivoluzione digitale sta facendo venir meno sempre di più il confine tra acquisto e pagamento, e il mobile sta estremizzando questo fenomeno. Un’azienda come la nostra non può e non vuole farsi identificare solo come mezzo di pagamento, altrimenti diventerebbe una «commodity» di semplice transazione, ma vuole essere vicina al cliente in tutto il processo di acquisto anche attraverso applicazioni mobili. Abbiamo lanciato anche in Italia una app per la fedeltà: la «loyalty» per noi è un elemento essenziale e per mantenerla dobbiamo costantemente essere nella direzione dei bisogni del cliente. Non innoviamo tanto per innovare, ma perché siamo convinti che in questo momento di grande evoluzione dell’industria dei pagamenti sopravviverà chi alla fine sarà in grado di dare un’esperienza diversa. Bisogna garantire un’esperienza facile, veloce, sicura, ma in più offrire credito con un apparato che sia in grado di valutare effettivamente la possibilità di concederlo. L’elemento che ci differenzia dagli altri è dunque il servizio: siamo riusciti ad arrivare ad un livello di sistematicità e di assoluta eccellenza. Gli stessi dipendenti Amex in tutto il mondo e indipendentemente dal ruolo sono valutati ai fini di un bonus del 25 per cento che dipende dai risultati in termini di soddisfazione sul servizio «refer to friend», ossia in che percentuale il cliente raccomanderebbe American Express ad un amico.

D. Tanta tecnologia, altrettanta sicurezza?
R. Abbiamo un servizio antifrode di nostra proprietà, e nostre persone che monitorano costantemente eventuali rischi di frode con sistemi evoluti, e credo che in questo siamo «best in class». Partiamo dalla buona fede del nostro cliente e immediatamente lo rimborsiamo di una perdita dovuta alla dichiarata clonazione della carta, al suo furto o altro. Questo ci contraddistingue da altri concorrenti: per noi il cliente non è assolutamente responsabile di nessuna frode effettuata sulla sua carta e all’istante, nel momento in cui il cliente ci chiama, riaccreditiamo la spesa fraudolenta sul suo conto. Ovviamente poi facciamo le verifiche idonee.

D. Perché la carta American Express è nella media è più costosa di altre carte? Questo non disincentiva i clienti?
R. Per tutti i servizi che diamo, ma non soltanto per questo. Va sottolineato in proposito: in Italia negli ultimi tre anni abbiamo investito circa 9 milioni di dollari per ridurre le commissioni soprattutto per i piccoli esercenti che hanno maggiormente risentito della crisi. Effettuiamo negoziazioni individuali e non collettive come fanno gli altri circuiti, e le commissioni vengono fissate sul tipo di business dei clienti. Il nostro obiettivo è quello di estendere l’uso della carta, quindi abbiamo agito coscientemente così aumentando il numero di clienti che quest’anno sono il 30 per cento in più rispetto a quelli acquisiti l’anno scorso. Cresciamo in maniera molto accelerata grazie agli investimenti, che misuriamo in dollari ma parliamo solo dell’Italia. Vogliamo mettere i nostri nuovi clienti nella condizioni di usare sempre la carta.

D. Quali sono i nuovi clienti tipici?
R. Abbiamo un’ampia fascia di prodotti, che partono dalle classi più alte con carte di un certo spessore e costo, fino a un target più giovane, dalle diverse esigenze, per i quali è stata coniata ad esempio una carta bianca dal costo di soli 35 euro ma che dà i medesimi benefici di ogni carta Amex, le protezioni assicurative, lo stesso servizio del programma «Membership Reward», la possibilità di scegliere cinque esercenti preferiti d cui poter accumulare tripli punti etc. Abbiamo poi le carte con i marchi storici per il target dei «frequent flyer» che viaggiano spesso e quindi sono interessati alle miglia; abbiamo lanciato anche la carta Italo proprio perché abbiamo visto che all’interno del territorio italiano molti si spostano con il treno e diamo la possibilità di trarne benefici; abbiamo la carta «Cash Back» che invece dei punti restituisce una percentuale dell’un per cento delle spese annuali, unica in Italia. Inoltre le carte possono essere usate «Revolving», ossia rateizzando la spesa per alcuni mesi o sulla base di una somma prestabilita dal cliente stesso. Non abbiamo quindi un cliente tipo, abbiamo un portafoglio di prodotti in grado di rispondere ai bisogni di qualsiasi tipologia di clientela. Abbiamo anche tanti altri servizi che si focalizzano nel risolvere le esigenze degli imprenditori, delle aziende, del mondo «corporate». In questo settore siamo leader del mercato. Siamo molto ottimisti e le opportunità in Italia sono ancora molte, il contante è ancora il re dei pagamenti, il 55 per cento di tutte le transazioni effettuate avviene in «cash», ma questo significa anche che c’è una grande opportunità di crescita.

D. Eppure, a differenza che in altre parti del mondo, gli esercenti si rifiutano di accettare la carta di credito per cifre piccole.
R. C’è una nuova normativa approvata da qualche mese, nell’ambito anche dell’implementazione della direttiva dei pagamenti europei, che obbliga gli esercenti e i professionisti a ricevere pagamenti con carta o bancomat per importi superiori a 5 euro. Sotto tale limite invece, l’accettazione della carta è a discrezione. Saranno fissate anche delle sanzioni.

D. Come influisce l’impiego delle carte di credito sulla crescita di un Paese?
R. La politica, il Governo, tutti sanno quanto in Italia sia importante colmare questo grande gap, che è a tutti gli effetti un gap alla crescita. Di fatto oggi la penetrazione bassa della plastica favorisce il nero, l’economia sommersa, costituisce punti di Pil perso. È un vincolo, un grande blocco che rallenta lo sviluppo economico del nostro Paese. In questo senso anche tante iniziative legislative che si stanno muovendo vanno in questa direzione.

D. A livello politico cosa potrebbe essere utile fare in questo settore?
R. Proseguire sulla strada delle riforme che favoriscano e impongano agli esercenti, ove necessario, di accettare pagamenti con plastica, anche finalizzando un sistema legato alle sanzioni, considerato che una legge senza sanzioni serve a poco, per poi consentire alle persone di poter utilizzare la carta di credito per qualsiasi pagamento. È fondamentale continuare con gli investimenti sulla banda larga ed ultra larga perché ci sono pezzi del Paese che ancora non sono collegati: è ovvio che per la diffusione dei pagamenti elettronici sia necessario un collegamento ad internet. Inoltre il «mobile commerce» e l’e-commerce saranno nei prossimi anni fondamentali per la crescita dell’impiego della plastica nei pagamenti.

D. Alfabetizzazione finanziaria: come stiamo messi?
R. È importante l’aspetto di una educazione in tal senso, il nostro Paese è estremamente indietro e si trova in una situazione angosciante; ci sono vari studi che lo confermano, in particolare lo studio del 2015, fatto da Standar&Poor’s insieme a Bank of Washington, ha intervistato gli italiani su alcuni elementi basici dell’educazione finanziaria, con domande molto semplici relative, ad esempio, alle modalità di valutazione della convenienza di un mutuo o su cos’è un interesse. L’Italia è uscita sessantatreesima, prima di noi Zambia, Benin, Senegal, Madagascar: questo è davvero molto grave. Siamo forse l’unico Paese europeo a non avere una strategia nazionale sull’educazione finanziaria, è un elemento di debolezza enorme, perché poi si verificano fatti come come la vendita di titoli tossici ed altro. Ma soprattutto perché la non conoscenza genera paura.

D. E cosa fa l’American Express per educare alla cultura finanziaria basica?
R. Abbiamo un team interno che richiama tutti i clienti nuovi per essere sicuri che abbiano capito i benefici di un prodotto, in alcuni casi lo vendiamo indirettamente ed il cliente non ha perfettamente chiara l’offerta. Ci capita chi pensa che ci sia un costo nel mero uso della carta, che si debba pagare una commissione, e questo è solo un esempio. In realtà la commissione la pagano gli esercenti. Il problema dell’alfabetizzazione finanziaria genera paura, come ho detto; in proposito ci sono una serie di progetti di legge in corso. Bisogna velocizzare tale processo, fare una legge e sviluppare una strategia per il nostro Paese che coltivi l’educazione finanziaria: solo con la conoscenza si potrà realmente crescere. Abbiamo finanziato un progetto per i bambini nelle scuole e i risultati di alcuni test somministrati ai genitori hanno portato a risultati imbarazzanti. Usare la carta oggi significa avere maggiori sicurezze, credito, vantaggi, valore aggiunto, offerte. Senza considerare che il contante ha un costo che è stato valutato dalla Banca d’Italia in circa 8/10 miliardi di euro ogni anno, per stamparlo, proteggerlo, trasportarlo etc. Senza pensare ai rischi che derivano dal suo uso.     (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Dicembre 2016




QUOTE NERE PER RIABILITARE L’UOMO NERO

QUOTE NERE PER RIABILITARE L’UOMO NERO di ROMINA CIUFFA. Proporrei delle «quote nere». La problematica dell’immigrazione, fuori dal discorso politico, è qualcosa che ci riguarda. Siamo a tutti gli effetti un Paese globalizzato, che non deve solamente fare i conti con il terrorismo e la manovalanza, gli immigrati che rubano e gli immigrati che rubano lavoro agli italiani. Dobbiamo riuscire anche noi a divenire un Paese mulatto. Checché Salvini ne dica, il mondo è fatto di diversità ed integrazione. Non possiamo azzerarci continuamente parlando di extracomunitari che uccidono, spacciano, rapinano. Un anti-luogo comune è quello che vede l’immigrato svolgere mansioni che l’italiano non considererebbe. Perché, allora, non educare gli extracomunitari con un programma di sostegno, richiamarli legalmente all’interno del nostro Paese con borse di studio, fornir loro una formazione adeguata ed un curriculum di rispetto perché possano prender parte alla vita del Paese?

I fiorentini, i genovesi, i milanesi, i romani, non hanno saputo far meglio. Perché non «obamizzare» anche l’Italia? Proprio oggi che in Occidente avanza la minaccia Trump-Salvini, sarebbe il caso di intervenire. Nessuna donna ha mai richiesto «quote rosa», bensì l’accettazione delle proprie competenze e la valutazione di intelligenze flessibili, multidimensionali, femminili. È stato loro assegnato il colore rosa come si assegna alle bambine e si pretende da queste, prima ancora che maturino una personalità propria, che si colorino di delicatezza e gonne. Nel corso della loro formazione hanno dimostrato parità quando non supremazia nelle posizioni rilevanti: è questa la modernità. Ora serve una politica per gli scafisti. Inutile bloccare gli accessi ed inutile dar modo ai media di coprire gli spazi vuoti con foto di barche affondate e bambini sanguinanti sulle spiagge di Lampedusa. Inutile bloccare la storia: essa si verifica. Ne è esempio l’Occidente più occidentale, quello americano, che ha dato mandato ad un afroamericano di governare per otto anni le sorti del Paese, e nulla si è potuto avverso l’integrazione. Lo stesso valga per la candidatura di Hillary Clinton: avrà pur vinto Donald, ma è innegabile quanto dalla caccia alle streghe sia stato fatto per trasformarle prima in fate, quindi in donne di comando.

Quote nere, ovvero la possibilità di assumere candidati provenienti dal fenomeno immigratorio e imparare dalle loro differenze, da prospettive che giungono da mondi lontani e possibili, sebbene poveri. Povertà non è sinonimo di terrorismo né di incompetenza, tutt’altro: dalla povertà nasce la forza più dirompente, in grado di superare gli ostacoli deteriori cui un miliardario come Lapo Elkann non è in grado di far fronte, riuscendo addirittura a simulare un rapimento per ottenere dalla famiglia una somma di (soli) 10 mila dollari. Questo dà ancor di più conto della necessità di introdurre nel sistema elementi nuovi, scindendoli dalle dinamiche della criminalità e della discriminazione, per creare opportunità di crescita nel Paese e al di fuori di esso.

L’Italia non deve nulla all’immigrazione, a nessun cittadino «ariano» deve richiedersi di risolvere i problemi dell’extracomunitario, ma può di certo servirsi di nuove idee e valorizzare le differenze proprio come è avvenuto nel processo che ha reso la donna più uomo e le ha conferito posizioni prima d’ora inimmaginabili. Un istituto di formazione «nera» potrebbe creare un esercito di buona condotta ed esperienza pronto a lavorare in un Paese come il nostro che, in ogni caso, si trova a dover integrare immigrati senza cultura, proprietari di un background doloroso che li rende sofferenti e, dunque, pericolosi. Salvo prova contraria. Perché, allora, non prendere atto del fatto che, a fronte di una fuga di cervelli dall’Italia, ve n’è una altrettanto vigorosa che conduce all’Italia stessa i cittadini di Paesi limitrofi? Perché non creare un’alleanza con l’Uomo nero, che tanto ha terrorizzato generazioni i bambini di ieri per il sol fatto di essere un uomo diverso? 

Immagino una start up governata dall’Uomo nero, dal passato controverso e dalle origini guerrafondaie. Un uomo che, giunto in Italia, possa essere messo nella condizione di imparare ciò che il suo Paese non gli ha insegnato. Alfabetizzazione prima di tutto. Quindi scuola dell’obbligo e studi universitari, corsi di formazione e – un impegno – quello dell’accettazione dell’Altro, senza contestazione di credi ed orientamenti. A condizioni di reciprocità. Il problema non è quello del crocefisso in classe o dell’uso del burka: chi sceglie di entrare in un Paese ne segue le vicissitudini e vi si lega nel rispetto di una storia che non va mutata. Ma l’accoglienza dell’Uomo nero, affiancata da un’educazione civica e laica che lasci prevalere i valori sulle credenze e sulle prese di posizione, può cambiare il nostro mondo. Può cambiare finanche noi stessi.

Non è forse vero che l’italiano si lamenta in continuazione dei suoi governanti, delle istituzioni, del vicino di casa? Non appartiene allora, tale atteggiamento, ad un’abitudine conclamata, quella volta all’insoddisfazione e alla eteropercezione del pericolo e della responsabilità? E i governanti, le istituzioni, il vicino di casa, non sono forse, nella proporzione più plausibile, italiani, bianchi, dialettali? Cosa c’è di sbagliato, dunque, a fare uno sforzo quasi extraterrestre – ossia uno sforzo che, pur dovendo impiegare centinaia di anni per giungere a compimento, richieda invece pochi lustri, un’età quasi astrale in un pianeta dove il tempo corre diversamente – e accettare l’Uomo nero proprio come si accetta il «colpo di Governo» di un fiorentino? Cosa distingue un fiorentino da un siriano: la sicurezza ch’egli non compia un attentato? Perché: non lo ha forse, in un certo qual senso, compiuto?

E perché non cominciare dai bambini? I quali sono aperti ad ogni forma di società e di apprendimento. Disfano questo processo di legittimazione delle diversità i genitori che in un Paese straniero, accogliente, pretendono di mantenere abitudini e credi dei propri universi di provenienza. Come se un asiatico volesse trasferirsi in Groenlandia mantenendo i vestiti tailandesi: in poco tempo, morirebbe di freddo. Prendiamone atto. Un valdostano non potrebbe trasferirsi a Rio de Janeiro indossando il consueto pellicciotto. Perché ciò non dovrebbe valere per la religione? Perché la coesistenza di razze deve seguire il destino dell’utopia? Perché non ipotizzare una struttura in grado di fare della diversità un valore aggiunto? In uno spazio-tempo in cui, attraverso i social network, la parola «amicizia» è divenuta un contenitore vuoto, quando nello stesso istante con un click si partecipa ai funerali di Fidel Castro, alla vittoria di Donald Trump e alla morte di un’intera squadra di calcio brasiliana a seguito di un disastro aereo, possiamo veramente continuare a credere che l’Uomo nero sia così cattivo? (Romina Ciuffa)




AUGURI AUDITORIUM, DA E CON L’AD JOSÉ DOSAL NORIEGA

ROMINA CIUFFA intervista JOSÉ R. DOSAL NORIEGA, amministratore delegato della Fondazione Musica per Roma. Auguri Auditorium: il complesso compie 14 anni, la Fondazione Musica per Roma 12, la presidenza di Aurelio Regina 6, e il suo nuovo amministratore delegato, lo spagnolo José Ramón Dosal Noriega, ne ha appena compiuto uno di mandato. Nel corso del 2016 è stato messo a disposizione del pubblico un patrimonio di nomi, eventi ed emozioni che vanta pochi esempi nel mondo: dal 1° gennaio al 19 ottobre si sono registrati 258 mila spettatori per circa 490 eventi ed un incasso lordo di 8 milioni e 136 mila euro. Ma, nella migliore tradizione italiana, recentemente i media si sono scaraventati contro la nuova amministrazione, plausibilmente senza dati alla mano (la conferenza stampa di apertura della nuova stagione si è tenuta solo dopo), dando eco a critiche buie, distruttive e, soprattutto, corali non nel senso di «coro», bensì in quello del «copia-incolla». Ho posto le domande d’uopo direttamente all’amministratore delegato della Fondazione Musica per Roma, i cui soci sono il Comune di Roma (che ha conferito in concessione d’uso per 99 anni l’immobile Auditorium alla Fondazione), la Camera di Commercio, la Provincia di Roma e la Regione Lazio.

Domanda. Cosa ha generato l’accanimento mediatico ottobrino avverso l’ultimo anno di Auditorium?
Risposta. Credo che sia naturale, nel momento in cui arriva un nuovo responsabile culturale in città e a capo di una struttura così importante, suscitare la curiosità della stampa. Tutte le critiche mi sono state utili e posso affermare oggi, ad un anno dal mio arrivo, che nulla è mutato nell’andamento dell’Auditorium, né biglietti né spettatori, e abbiamo anche un bilancio positivo. Non sono un politico, voglio solo lavorare e per il bene di questa nostra istituzione, con tutto il mio impegno.

D. Cinque erano gli obiettivi che si era prefissato: Auditorium 2.0, internazionalizzazione, territorio, giovani, Auditorium va in città. Può indicarcene i risultati?
R. Per «Auditorium 2.0» abbiamo inteso lavorare per essere sempre più vicini al pubblico più giovane attraverso i canali social come Facebook, Instagram, Twitter, cresciuti del 200 per cento. Siamo anche la prima istituzione culturale ad aver lanciato un canale Telegram ed un canale Spotify, in un solo anno. L’Auditorium ha un nuovo «visual» e immagine coordinata che richiama le stagioni. Inoltre abbiamo realizzato 8 flash mob in città per il format «Auditorium Va in Città» e preso contatti con grandi istituzioni culturali straniere. Per la nostra internazionalizzazione, faccio riferimento innanzitutto alla negoziazione di rilevanti scambi di coproduzione e contenuti con il Barbican Centre di Londra; con Madrid stiamo trovando un accordo; in Messico, abbiamo parlato con il ministro della Cultura Rafael Tovar y de Teresa, che essendo già stato ambasciatore in Italia conosce perfettamente Roma e l’Auditorium, e posso anticipare che c’è una trattativa volta a firmare un accordo di amicizia con il Cenart, Centro nazionale delle arti, istituzione messicana corrispondente alla nostra, e credo che questa possa essere la porta d’ingresso per l’Auditorium nei confronti dell’America Latina.

D. L’assessore alla Crescita culturale di Roma Capitale Luca Bergamo ha dichiarato che c’è poca partecipazione dei romani alle attività culturali. Come avete affrontato l’obiettivo «territorio»?
R. Abbiamo iniziato con un progetto di analisi del pubblico per capirne le esigenze e le aspettative. I primi intervistati sono stati i genitori. È emerso che il 95 per cento di essi vuole appuntamenti culturali all’interno dell’Auditorium. Abbiamo così avviato il format «Auditorium Family», dedicato ai bambini e alle famiglie con oltre 30 appuntamenti durante tutto l’anno. Un esempio per tutti, «GiocaJazz», nato per creare interesse e ispirare le nuove generazioni verso tutta la musica e le sue forme. Durante l’estate abbiamo lanciato «Luglio Suona Bene Kids», un servizio grazie al quale il genitore poteva assistere a un concerto mentre i propri bambini giocavano ed imparavano negli altri locali dell’Auditorium. Quello che io ho compreso dalle affermazioni di Bergamo è che tutte le istituzioni culturali di Roma devono fare qualcosa in più per coinvolgere la popolazione presente sul territorio. Ed è per questo che l’analisi del pubblico, dai più giovani, ai frequentatori assidui, continuerà nei prossimi mesi.

D. Perché secondo lei c’è questa difficoltà a Roma?
R. Questo pubblico vuole andare allo spettacolo, vederlo e poi tornare a casa. Sarebbe bello, invece, che rimanesse anche dopo, o che arrivasse in anticipo per partecipare ad altre attività prima dello show, cercando un’esperienza completa, non circoscritta al tempo di durata dello spettacolo. Bisogna, a mio parere, fare di un evento culturale o di un concerto un’esperienza culturale per godere di tutto il suo contenuto.

D. Questo non può dipendere anche dal fatto che lo spirito italiano di oggi è lamentoso, un po’ meno raggiante rispetto ad altri Stati?
R. C’è un leggero senso di paura dopo tutto quello che è successo, parlo degli attentati terroristici, c’è un «effetto Bataclan». Ma adesso, con la fiducia che abbiamo nelle istituzioni italiane, credo non debbano esserci timori relativi all’Auditorium, dimostratosi sicuro perché tutte le norme di sicurezza sono rispettate. Quello che vogliamo fare è trasmettere un’esperienza gioiosa alla gente di Roma per godere interamente dei nostri contenuti.

D. Non è forse la qualità che manca, un «effetto reality» che abbassa la qualità della cultura in generale?
R. Certo, è così. Oggi c’è un problema innanzitutto con i giovani, che con i tempi moderni sono abituati ad avere tutto e subito, la musica e le relazioni sociali sul telefonino. Manca il concetto della profondità del sapere quali siano le cose di qualità. La nostra scommessa, che è anche uno degli obiettivi che ci siamo prefissati, è lavorare per il giovane attraverso tutti i social network per avvicinarlo all’Auditorium, e anche questo fa parte dell’obiettivo «Auditorium 2.0». Proprio per questo abbiamo lanciato un programma molto semplice sotto l’hashtag #ILoveAuditorium, ossia una Carta Giovani con la quale offriamo a chi ha tra i 18 e i 35 anni uno sconto del 25 per cento sui biglietti di eventi e mostre, una visita guidata per due persone all’interno della struttura il sabato e la domenica, inviti alle nostre inaugurazioni, la possibilità di frequentare gli spazi espositivi, la migliore offerta dei pacchetti non dedicati ai giovani. Tutto questo funziona in modo semplicissimo: basta recarsi alla cassa con un documento di identità e si riceverà lo sconto. Da febbraio sarà possibile acquistare la carta online dopo aver ricevuto un codice utente.

D. Per i giovani c’è anche il «Recording Studio»: cos’è?
R. È l’iniziativa che permette al pubblico di assistere in presa diretta alle registrazioni della nostra etichetta discografica «Parco della Musica Record». Grande attenzione è dedicata ai giovani talenti e alle band emergenti, con un occhio particolare verso la musica jazz.

D. Cosa può dire dell’obiettivo «Auditorium va in città»?
R. Sono veramente felice per i flash mob che abbiamo fatto: siamo andati a Fontana di Trevi, all’aeroporto, al mercato di Testaccio, al Pantheon. Questo vuol dire portare l’Auditorium in città per far vedere alla gente quello che succede da noi.

D. Allora a cosa è dovuta tutta questa tensione che si è verificata?
R. Come ho detto all’inizio, credo sia stata eccessiva la preoccupazione da parte dei media romani rispetto ad un nuovo arrivo. Io rispondo con i dati: con la rassegna «Luglio Suona Bene», abbiamo avuto circa 85 mila spettatori, quasi 40 concerti, e per me è stato un grande successo. Ora abbiamo un’altra grande stagione davanti, come le ho raccontato. Invito tutti i giornalisti a parlarne perché sempre più romani e presenti in città possano venire e goderne.

D. Quindi un bilancio positivo?
R. Certo, anche in qualità. Lo scorso anno con il presidente Regina abbiamo pubblicamente spiegato la situazione tecnica della Fondazione, per cui avremmo dovuto affrontare costi esterni alla gestione corrente. Sottolineo che si è trattato solo di un problema tecnico e non di scarsa affluenza di pubblico. Il segreto di questo mestiere è trovare equilibrio tra il commerciale e il culturale ed è difficile trovare il giusto compromesso. La mia responsabilità è mantenere il livello di eccellenza che ha avuto sempre l’Auditorium.

D. Come sarà la nuova stagione?
R. Stiamo lavorando per il secondo anno e per la nuova programmazione. Credo che sarà un anno bellissimo, e sarà importante anche per la creazione del Polo Museale e la costruzione del Museo dell’Auditorium con la Collezione Sinopoli, la Villa Romana, gli strumenti musicali. Una cosa che mi ha colpito molto è aver ottenuto il nome «Flaminio Auditorium» per la stazione Flaminio di Roma; un’altra cosa interessante è stata la possibilità di impiegare lo strumento dell’art bonus per il mantenimento della struttura. Quest’anno faremo 11 festival, 170 ore di lezione, 250 concerti, più di 500 appuntamenti. La nuova stagione regalerà un’esperienza profonda allo spettatore, il programma è in continua evoluzione. Tra gli ultimi artisti confermati, Vinicio Capossela e Patti Smith, con un progetto in onore di Papa Francesco. Tra le novità importanti la direzione del Festival Equilibrio 2017 affidata a Roger Salas, e il Roma Rock, nuovo festival dedicato alle band emergenti.
D. Siete in trattativa anche con il nuovo premio Nobel per la letteratura, il musicista Bob Dylan.
R. Siamo in contatto con il suo management da prima del conferimento del premio, e sono sicuro che alla fine riusciremo ad averlo qui con noi.     (Romina Ciuffa)




GAETANO BLANDINI (SIAE): GLI AUTORI CREDONO NELLA NUOVA SIAE, NOI CREDIAMO NEGLI AUTORI

  • ROMINA CIUFFA intervista GAETANO BLANDINI, direttore generale della Siae. La SIAE, Società Italiana Autori ed Editori, è una società di gestione collettiva del diritto d’autore, cioè un ente costituito da associati (gli autori ed editori sono la sua base associativa) che si occupa dell’intermediazione dei diritti d’autore. Ogni anno rilascia più di 1,2 milioni di contratti di licenze per l’utilizzo delle opere che tutela, facilitando il riconoscimento dei diritti da parte di tutti coloro che intendono utilizzare quelle opere e garantendo agli autori e agli editori il pagamento del giusto compenso per il loro lavoro. Tecnicamente un Ente pubblico economico a base associativa, assicura interessi generali che sono tutelati dalla Costituzione, come la promozione della cultura, la libertà dell’arte, la protezione del lavoro intellettuale. Per questo la SIAE è sottoposta alla vigilanza della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Ministero per i Beni e le Attività culturali e del Turismo e del Ministero dell’Economia e delle Finanze, come garanzia di trasparenza e di buona gestione nei confronti degli associati e degli stessi utilizzatori. È fuori dal perimetro della Finanza pubblica e non riceve finanziamenti diretti o indiretti da parte dello Stato; si dichiara un vero e proprio presidio di libertà, non ha scopo di lucro ed è totalmente indipendente nell’attività di impresa. «Il diritto d’autore non è una tassa ma è un diritto del lavoro», ribadisce la SIAE. Non esente da critiche, scandali e ribellioni nel mondo del diritto d’autore, anche in ragione di recenti sentenze europee sull’equo compenso e su antiche accuse di nepotismo, nonché sulla cessazione presidenziale di Gino Paoli per evasione fiscale, la SIAE comunque resta un caposaldo del mondo creativo che, in tempi recenti, sta trovando nuovi concorrenti, piattaforme private gratuite che consentono di registrare la propria opera e tutelarla. La SIAE a marzo 2015 ha scelto, per sostituire il suo «cielo in una stanza», Filippo Sugar, figlio di Caterina Caselli, il più giovane presidente mai eletto. Gaetano Blandini è il direttore generale, e risponde alle nostre domande per orientarci su un mercato sempre più complesso e competitivo.

Domanda. La SIAE ha un compito molto difficile, quasi impossibile: quello di combattere i download irrefrenabili e la pirateria e di tutelare il diritto di autore. In che modo lo fa?
Risposta. Siamo impegnati in prima linea per un mercato più equo e per la giusta remunerazione dei creatori di contenuti. Recentemente il mercato musicale ha registrato il sorpasso dello streaming sui download e SIAE si sta muovendo per la massima tutela anche in tal senso. Stiamo sviluppando un sistema tecnologico avanzato per gestire l’enorme volume di dati generato dalle licenze musicali online. Gli aventi diritto potranno così ricevere informazioni dettagliate sull’utilizzo delle loro opere anche sulle piattaforme digitali.

D. Perché gli autori tendono a riversarsi sul mercato libero senza iscriversi alla SIAE e utilizzando forme parallele di licenze «libere», assistendo peraltro al proliferare di nuovi operatori di protezione come Soundreef o come la nuova piattaforma web gratuita Patamu, startup che ha raggiunto quota 11 mila iscritti e protetto oltre 31 mila contenuti?
R. Non è così! Gli autori credono nella nuova SIAE e ciò è confermato dai dati. Nel 2015, abbiamo registrato 7.336 nuovi iscritti e per fine 2016 prevediamo di superare le 7.500 nuove adesioni. Siamo anche soddisfatti della significativa diminuzione del numero di dimissioni registrato negli ultimi due anni, segno di una rinnovata fiducia nella Società. Nel 2015 i dimissionari sono scesi a 734, ossia del 24 per cento rispetto all’anno precedente, e per il 2016 ad oggi ne abbiamo solo 332. Contiamo oltre 83 mila associati tra autori ed editori, di cui oltre 1.100 sono stranieri. La nostra Società è senza scopo di lucro, l’unico obiettivo è la tutela degli associati in Italia e all’estero. Gestiamo un repertorio di circa 45 milioni di opere e non facciamo alcuna discriminazione tra artisti popolari o meno popolari, giovani o meno giovani in tutti i settori della cultura. Il nostro lavoro non è paragonabile a quello di altre società a scopo di lucro. La SIAE collabora con più di 150 società di «collecting» internazionali ed è la settima nel mondo in termini di incassi. Siamo nel «board of directors» della CISAC (la Confédération Internationale des Sociétés d’Auteurs et Compositeurs, ndr), il più importante organismo globale che riunisce le società che tutelano il diritto d’autore a livello internazionale.

D. Recentemente gli under 30 possono iscriversi alla SIAE gratuitamente, ma la quota di iscrizione per gli altri risulta essere tra le più alte d’Europa. Come mai?
R. Gli under 31 e le startup editoriali, che operano da meno di due anni, possono iscriversi gratuitamente alla SIAE e hanno diritto di voto. Dal gennaio 2015 ad oggi si sono associati 6.589 nuovi giovani autori. Chi paga la quota associativa partecipa alla vita dell’associazione. Con una quota minima si può dare mandato. La tutela è la medesima ma non si concorre ad eleggere o essere eletti negli organi sociali.

D. Resta il monopolio in Italia non toccato con la direttiva Barnier, e restiamo l’unico caso europeo oltre alla Repubblica Ceca. Lo considera essenziale? Perché? Lo stesso ministro culturale Dario Franceschini ha fatto dietrofront e si è espresso più recentemente in favore della liberalizzazione del mercato.
R. È semmai vero il contrario. Il ministro è stato in giro per l’Europa e ha verificato che l’interesse di autori e utilizzatori è in associazioni come la SIAE. In Europa esistono altri monopoli legali oltre quelli citati, e molti altri sono monopoli di fatto. In quasi tutti i Paesi europei esiste, infatti, una sola società di riferimento per la gestione dei diritti musicali. Negli Stati Uniti – unica significativa eccezione nel mondo occidentale dove esistono più società di collecting musicale – lo US Copyright Office a febbraio 2015 ha fornito linee guida finalizzate a favorire l’aggregazione rispondendo così alle moltissime lamentele degli autori Usa che subiscono forti discriminazioni e differenti remunerazioni in base alle società di appartenenza. Il ministro Franceschini, come detto, si è posizionato in una visione strategica che SIAE condivide. Il futuro del diritto d’autore si gioca a livello internazionale perché le nuove piattaforme di distribuzione dei contenuti non sono più locali ma globali, vedi Google, Apple, YouTube, Spotify. Di fronte a questi distributori di contenuti globali, è chiaro che gli autori devono unirsi più che disperdersi.

D. In che modo funzionano le ripartizioni dei diritti? Per esempio, perché un brano trasmesso in pubblicità non porta introiti al suo autore?
R. Per ogni pubblicità l’autore incassa i diritti di sincronizzazione con una negoziazione diretta, perché SIAE non intermedia da Statuto tali diritti. Incassiamo da tutti i canali di utilizzazione del repertorio: radio e tv, multimediale online, live, cd e dvd, estero. Stipuliamo circa 1,2 milioni di contratti di licenza all’anno con oltre 500 mila utilizzatori sul territorio. Controlliamo oltre 35 mila eventi musicali a settimana rendicontando il repertorio suonato in ciascuno.

D. In che modo internet e YouTube hanno inciso sull’economia della SIAE, considerato che si è reso più facile l’accesso al pubblico e impossibile il controllo dei diritti?
R. Nel 2015 abbiamo registrato un fortissimo aumento degli incassi relativi alla multimedialità, pari al 47,4 per cento: un risultato questo ottenuto anche grazie al consorzio Armonia, hub internazionale che riunisce 9 società di collecting per la gestione centralizzata delle licenze online, di cui SIAE è tra i fondatori. All’epoca di YouTube, Spotify e delle altre piattaforme digitali, la partita del diritto d’autore si gioca sul piano internazionale e SIAE è l’unico soggetto in Italia in grado di negoziare con i digital service provider e rilasciare licenze multi-territoriali.

D. La SIAE Card dà alcune facilitazioni agli associati. Perché non estenderle a sconti sui concerti, teatri etc.?
R. I servizi che offriamo ai nostri iscritti sono in costante aggiornamento. A giugno abbiamo siglato un accordo importante con la Società di Mutuo Soccorso Cesare Pozzo che dà la possibilità agli associati SIAE di sottoscrivere piani di assistenza sanitaria integrativa a condizioni particolarmente vantaggiose. Le convezioni previste da SIAE Card spaziano da servizi assicurativi, alberghi e viaggi a servizi utili alle attività professionali di molti associati come studi di registrazione e aziende che vendono strumenti musicali. Dobbiamo fare certamente meglio, ma in questo le nostre forze sono più concentrate sulla digitalizzazione della nostra Società; questa è una priorità anche per i nostri associati.

D. Quali le principali differenze tra i sistemi di protezione di diritti in Europa e nel mondo rispetto alla SIAE?
R. La Direttiva 2014/26/UE «sulla gestione collettiva dei diritti d’autore e dei diritti connessi e sulla concessione di licenze multi-territoriali per i diritti su opere musicali per l’uso online nel mercato interno» ha l’obiettivo di armonizzare gli ordinamenti nazionali. In particolare, la Direttiva è intervenuta sull’assetto e la governance degli organismi di gestione, che devono essere controllati dai propri membri, come è già per SIAE, e sulla promozione di licenze multiterritoriali dei repertori. Il legislatore, di fatto, incentiva le società di collecting ad aggregarsi e a porsi some soggetto unico per gli utilizzatori. La SIAE è già da tempo perfettamente coerente con la Direttiva in questione, il nostro Statuto è stato riscritto nel 2012 proprio sulla base delle linee guida contenute nella allora prima Proposta di Direttiva.

D. Riguardo agli scandali sulle accuse di «nepotismo» – la SIAE era stata definita dai media un «ufficio di collocamento famigliare» – cosa è cambiato?
R. Credo si tratti di un’idea di SIAE falsata e non più corretta, di almeno 10 anni fa. In particolare nell’ultimo quinquennio SIAE ha ridotto i costi globali di circa 9 milioni di euro, pari al 4 per cento sul totale, il costo del personale si è ridotto di circa 10,5 milioni, pari all’11 per cento, i compensi dei mandatari sono diminuiti di 4 milioni, ossia dell’8,8 per cento, pur mantenendo il livello di servizio sul territorio. I costi di gestione e funzionamento sono diminuiti di 4 milioni, ossia del 17 cento. Negli ultimi anni SIAE ha destinato oltre 25 milioni all’attuazione del Piano strategico incentrato sulla definizione dei contratti di lavoro, sull’organizzazione e ottimizzazione dei processi in chiave digitale. Anche l’organico si è ridotto di oltre 120 risorse, pur garantendo i livelli occupazionali e favorendo la stabilizzazione di 115 dipendenti, per lo più giovani, selezionati da Università e Conservatori italiani.

D. In che modo la sua direzione si sta muovendo per dare più efficienza e credibilità all’azienda?
R. Anzitutto la governance di SIAE è affidata ad organi eletti dagli associati, ovvero l’Assemblea, il Consiglio di sorveglianza, il Consiglio di gestione e il Collegio dei revisori. Nell’ambito del Consiglio di sorveglianza sono costituite cinque commissioni consultive: Musica, Lirica, OLAF, Cinema e DOR. Negli ultimi anni SIAE ha destinato oltre 25 milioni di euro all’attuazione del Piano strategico incentrato sulla definizione dei contratti di lavoro, sull’organizzazione e ottimizzazione dei processi in chiave digitale. Il 15 luglio 2015 è stato lanciato il nuovo sito istituzionale SIAE, ed in contemporanea è stato creato un portale online dedicato alle feste private, semplificando anche l’impianto tariffario per i trattenimenti privati. Abbiamo attivato «mioBorderò», il portale del borderò digitale che consentirà di sostituire 1,4 milioni di borderò cartacei – tanti sono infatti i borderò che ogni anno SIAE riceve e lavora – con un evidente vantaggio anche dal punto di vista logistico ed ecologico. Abbiamo lanciato inoltre il nuovo Portale Autori ed Editori. Dal lato del cinema e della musica sono stati conclusi significativi accordi con importanti broadcaster che, dopo un lungo periodo, sono usciti da un sistema di proroga di contratti scaduti. Le nuove licenze sono state allineate alle attuali ed effettive utilizzazioni di repertorio, generando un significativo aumento degli incassi cinema e un incremento di quelli musica. Nel 2015 inoltre abbiamo stanziato i fondi per lo sviluppo del progetto Agenda Digitale, per un investimento totale di 16 milioni di euro.

D. Può indicare gli ultimi dati di bilancio e le previsioni per i prossimi mesi?
R. SIAE ha chiuso il 2015 con un fatturato di 782 milioni di euro, ossia con un aumento del 14 per cento rispetto al 2014, 724 milioni dei quali provenienti dal diritto d’autore e altri servizi di intermediazione per un incremento del 16 per cento. Questi dati confermano come oggi la Società sia una realtà radicalmente diversa dal passato, in grado di confrontarsi sui mercati globali con tutte le più importanti collecting estere. Il 2015 ha confermato la netta inversione di rotta di SIAE rispetto al passato, con un incremento del fatturato complessivo di circa 100 milioni di euro e un utile netto pari a 0,3 milioni di euro.

D. La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha dichiarato l’illegittimità della disciplina italiana in materia di copia privata nella parte in cui impone di versare un «equo compenso» anche a chi acquista supporti e dispositivi per uso professionale, aggiungendo che la SIAE non poteva assolutamente sostenere di aver maturato la convinzione che la normativa in esame nel procedimento principale fosse conforme al diritto dell’Unione europea. In che modo sarà risolta la questione dei rimborsi?
R. La sentenza della Corte di Giustizia non mette in alcun modo in discussione la legittimità della copia privata né mette in discussione l’intero decreto Bondi o la correttezza dell’operato di SIAE. La Corte di Giustizia ha ritenuto che fosse incompatibile con la Direttiva europea esclusivamente un articolo, l’art. 4 dell’allegato tecnico del cosiddetto decreto Bondi del 30 dicembre 2009, per una parte, quindi, squisitamente tecnica e limitata negli effetti. L’incompatibilità, in particolare, discende dall’assenza nella disciplina della copia privata – per il resto confermata e rafforzata – di criteri predeterminati che indichino i casi di esenzione ex ante e cioè i casi in cui debba certamente riconoscersi, ex ante appunto, un utilizzo dei «device» manifestamente estraneo alla copia privata. Si tratta di una decisione che SIAE ovviamente rispetta e saluta con favore, posto che la fissazione di criteri ancora più precisi non potrà fare altro che rendere più agevole il lavoro di chi, come noi, opera nell’esclusivo interesse di autori, editori e degli stessi interpreti esecutori che giustamente ricevono, anche per il mezzo della copia privata, il legittimo compenso del proprio lavoro. SIAE è dunque pronta ad adeguare immediatamente la propria attività alle eventuali disposizioni che il Ministero vorrà adottare in materia, così come è pronta ad adeguarsi alle decisioni che il Consiglio di Stato vorrà adottare in ragione dei principi sanciti dalla Corte di Giustizia.

La SIAE conferma il proprio impegno contro il «secondary ticketing», fenomeno che danneggia gravemente i consumatori e i titolari del diritto d’autore. Il Consiglio di gestione ha approvato all’unanimità la modifica dell’art. 13 del «Permesso Spettacoli e Trattenimenti», inserendo una clausola che fa espresso divieto al titolare del permesso di fornire ticket di ingresso a piattaforme online e siti web del cosiddetto mercato secondario. Così la SIAE ha rafforzato il divieto alla rivendita dei biglietti a prezzo maggiorato rispetto a quello ufficiale.  La Società ha presentato un ricorso d’urgenza al Tribunale Civile di Roma e ha interessato della questione anche l’Agenzia delle Entrate per attività mirate volte a combattere un fenomeno che rappresenta un freno inaccettabile alla crescita economica, oltreché alle opportunità di lavoro nel settore dello spettacolo e della cultura.

La Società Italiana degli Autori ed Editori, in collaborazione con autori, artisti e operatori dello spettacolo, ha lanciato inoltre la petizione #noSecondaryTicketing, per tutelare i diritti dei propri associati e dei consumatori (soprattutto i più giovani) che si ritrovano a pagare anche fino a 10 volte in più i ticket di ingresso sul mercato parallelo. Il testo della petizione recita: «I concerti rappresentano un’occasione importante non solo per gli artisti che incontrano il loro pubblico ma anche per tutti coloro che lavorano con professionalità e passione alla riuscita dell’evento. Come autori, artisti e operatori dello spettacolo, siamo uniti contro chi specula sulla rivendita dei biglietti dei concerti attraverso alcuni siti web di secondary ticketing, una forma di ‘bagarinaggio online’. Il mercato secondario danneggia tutta la filiera, favorendo l’evasione e frenando opportunità di lavoro e di crescita economica nel settore dello spettacolo e della cultura. Siamo dalla parte del nostro pubblico che si ritrova ingiustamente a pagare anche fino a 10 volte in più i ticket di ingresso a causa di questo fenomeno. Promuoviamo la trasparenza del mercato e sosteniamo tutte le organizzazioni che danno valore al nostro lavoro e rispettano i consumatori. Per questo chiediamo l’abolizione del secondary ticketing attraverso l’oscuramento di tutte le piattaforme online che speculano sulla rivendita dei biglietti».

Continuano intanto le adesioni alla petizione, già sottoscritta da molti musicisti. In merito all’emendamento alla legge di bilancio per contrastare il fenomeno, presentato a novembre dal Governo, il presidente SIAE Filippo Sugar ha dichiarato: «Prendiamo atto con soddisfazione dell’emendamento alla legge di bilancio presentato dal Governo alla Camera dei Deputati per contrastare il secondary ticketing. La SIAE è già intervenuta nei giorni scorsi sollecitando regole chiare per la trasparenza del mercato della musica dal vivo a tutela dei consumatori, degli autori e di tutti coloro che operano nel settore, anche lanciando una petizione che è stata sottoscritta da tutti i più importanti autori italiani. Esprimo un particolare apprezzamento per l’intervento del ministro Dario Franceschini volto a stroncare un fenomeno intollerabile come quello del bagarinaggio online».      (Romina Ciuffa)




LGBT: CARA CIRINNÀ, MA CHI “SÌ” CREDE DI ESSERE?

LGBT: CARA CIRINNÀ, MA CHI “SÌ” CREDE DI ESSERE? di Romina Ciuffa. Ciò che innanzitutto colpisce di Monica Cirinnà, senatrice (per il momento) del Partito democratico, è il suo avvio cattolico in una famiglia di valori conservatori, tanto da frequentare una scuola di suore della Capitale. Suore che non sapevano che quella Monica avrebbe poi condotto la battaglia per le coppie omosessuali che, l’11 maggio 2016, sarebbe divenuta normativa attraverso il decreto legge che prende il suo nome, intitolato “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, introducendo l’unione civile tra omosessuali quale specifica formazione sociale e la disciplina sulla convivenza di fatto sia gay che etero.


Già dai tempi delle suore la Cirinnà decise di trasferirsi al Liceo Classico “Tacito” di Roma, partecipando al movimento studentesco e, nel tempo, facendo proprie le istanze animaliste: dopo alcuni anni di collaborazione alla cattedra di Procedura Penale di Franco Cordero, è stata lei a fondare l’Arca, l’Associazione romana per la cura degli animali, “con l’obiettivo di prendersi cura delle colonie feline e dei gatti e di assistere i loro amici umani – a Roma detti gattari – in tutte le situazioni difficili”, oltre ad aver combattuto per l’approvazione, poi avvenuta, di una legge che anche in Italia vietasse la soppressione di cani e gatti nei canili comunali (di questo periodo, e in veste di Verde, la nomina, ad opera del sindaco Francesco Rutelli, come consigliera delegata alle Politiche per i diritti degli animali e vicepresidente della Commissione Ambiente). Fin qui tutto bene. Tutto bene anche nella sua successiva nomina come presidente della Commissione delle Elette, legata ai problemi connessi ai diritti delle donne e alla valorizzazione della differenza di genere, e partecipando alla nascita della Casa Internazionale delle Donne, nel complesso monumentale del Buon Pastore di Trastevere a Roma. È suo il contributo per la trasformazione dello zoo di Roma in Bioparco, come quello per la creazione dell’oasi felina in luogo del vecchio canile di Porta Portese e per l’emanazione (reggente Walter Veltroni) del Regolamento capitolino per la tutela degli animali.

Icona gay, a questo punto. E se gli animali potessero parlare, probabilmente anche icona animale. Il popolo LGBT ha bisogno di punti di riferimento, ed è indubbio che il Partito democratico ha svolto, nella sua persona e – perché negarlo – in quella del precedente sindaco capitolino Ignazio Marino, nonché in altri sporadici personaggi, un lavoro ineccepibile, che ha portato l’Italia quasi ai livelli europei. Ora è possibile per gli omosessuali, nonché per i conviventi more uxorio, fare liste di “nozze”, mutata mutandis liste di “unioni civili”, nei negozi vicini al Campidoglio: al centro di Roma, insomma. E questo non è poco. Grati a quei “rivoluzionari” della sinistra che hanno lottato per avvicinare l’Italia all’Europa e al mondo anche dal punto di vista delle scelte sessuali e famigliari, andando oltre una Costituzione dalla lettura cattolica. Perché, vorrei ricordarlo, il nostro testo fondamentale all’art. 29 stabilisce, tra i principii fondamentali, il seguente dettato: 

  • La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
  • Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare

Specifico: non v’è nessun riferimento alla religione. È riconosciuta una famiglia fondata sul matrimonio. Il punto qui è dare al matrimonio una definizione. Se in esso includiamo, infatti, la possibilità che esso si svolga tra persone appartenenti allo stesso sesso, allora la norma dell’art. 29 tutelerà anche questa tipologia matrimoniale e garantirà ai coniugi (a quel punto, sostantivo neutro) eguaglianza morale e giuridica. Il problema legato all’art. 29 Cost. è proprio quello del suo collocamento all’interno di un sistema più vasto che definisce la famiglia solo in un certo modo. Il merito della Cirinnà (leggasi: di tutti coloro che hanno partecipato alla proposta, discussione, emanazione del decreto portante il suo nome, ben lungi dall’essere una battaglia personale della senatrice come l’uomo di strada è portato a credere ma frutto di un’attività complessa e partecipata) è quello di aver dato al concetto di famiglia un’accezione più amplia, al concetto di matrimonio una interpretazione moderna. 

O preferisco dire antica, se è vero che sin dai Greci, dai Latini, dai nostri antenati più lontani, l’omosessualità era moderna, la vita eterosessuale era concepita nel senso di una vita riproduttiva e non era legata necessariamente al concetto di amore, giacché le coppie matrimoniali erano formate dai genitori alla nascita dei pargoli ed a questi imposte, e – è cosa nota – gli uomini erano tenuti a far pratica sessuale con i fanciulli per potersi far trovare pronti ad una vita sessuale. Ce ne parlano Erodoto, Senofonte, Platone, quanti altri, dei quali non possiamo solo prendere ciò che ci fa comodo: le Storie del primo; le pratiche di guerra del secondo; l’amor platonico, la giustizia, la teoria delle idee, la filosofia del terzo. Non possiamo soprassedere alla allor comune pederastia di cui essi ci rendono edotti (da non confondere con la “nostra” pedofilia, la pederastia assecondava una relazione stabilita tra una persona adulta e un adolescente al di fuori dell’ambito familiare, che prescindeva dal desiderio sessuale nei confronti di un impubere: il sessuologo Erwin J. Haeberle ne critica così l’uso “moderno, risultante da un fraintendimento del termine originale e dall’ignoranza nei riguardi delle sue più profonde implicazioni storiche”). Il ragazzo apprendeva virtù che avrebbero fatto di lui un uomo adulto durante un periodo di isolamento in cui avrebbe convissuto con un uomo, nella cui compagnia era introdotto alle regole della vita sociale: l’adulto sarebbe stato al tempo stesso maestro e amante. Antichità.

Tornando alle nostre modernità, e senza entrare nel merito della discussione, la Costituzione non definisce il sesso dei coniugi. Lo fa il Codice civile, ma esso è legge ordinaria, proprio come il decreto Cirinnà di pari livello, con le conseguenze che ne derivano e che saranno anche definite dalla giurisprudenza che produrremo (non mancheranno giudizi dinnanzi alla Corte costituzionale).

Fin qui tutto bene. Il problema non è nel precipitare, ma nell’atterrare.

Io capisco, e sono perfettamente consapevole, che l’impegno politico non è discutibile. Senatrice del PD, renziana, Cirinnà non può non appoggiare le scelte del suo Segretario. Il punto deteriore, a mio parere, è la strumentalizzazione. In campagna referendaria, fortunatamente volta al termine, tutto è concesso, ed è normale il suo appoggio al Sì. Ciò che mi permetto di non condividere, e che di fatto non condivido, è l’aver fatto dei LBGT un esercito per la riforma costituzionale. Lunghi post sui suoi canali di social network dando per scontato il voto della “sua” comunità-esercito per un Sì, anche strumentalizzando il “sì” matrimoniale in funzione della campagna renziana. Il motto “Basta un sì”si affianca in via strumentale all’immagine di una coppia omosessuale che ha potuto, grazie al Ddl Cirinnà, “dire sì”: ma è un “sì, lo voglio”. Voglio sposare la persona che amo.

Non è la stessa cosa. Il popolo LGBT deve poter votare sì o no formandosi una coscienza personale che prescinda dalla possibilità, attualmente concessagli, di fare pubblicazioni in Campidoglio. Non è la stessa cosa modificare drasticamente la Costituzione e, intanto, formarsi una famiglia. Sono due punti che vanno completamente scissi e ragionati in termini di riflessione personale. Non si può votare Sì perché Vladimir Luxuria voterà Sì, o perché la condottiera Cirinnà ha fatto proseliti. La legge che ella ha contribuito ad emanare (rectius decreto legge) è un atto di eguaglianza e di equità, l’applicazione pura e semplice del secondo comma dell’art. 3 del nostro testo costituzionale che impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pragmatismo e alla concretezza di un’eguaglianza formalmente canonizzata nel primo comma (per questo i due dettati sono conosciuti come, il primo, principio di uguaglianza formale, il secondo, principio di uguaglianza sostanziale). In poche parole, un “atto dovuto” da un politico che sente il mondo.

Questa riforma non ha nulla a che vedere, direttamente o indirettamente, con la popolazione LGBT. Fare seguaci ed attirare masse gay e transgender verso il Sì renziano con la ridondanza del motto “Basta un Sì” impiegato per la legalizzazione delle coppie civili è una manovra politica di basso livello sebbene di alto impatto, se è vero che la maggior parte di essi voterà proprio in senso positivo alla sostituzione costituzionale. Bisogna imparare a comprendere quando si è strumenti di un gioco più grande, più infido, più infimo, sottile, sbagliato. Negli Stati Uniti è in questo modo che ha vinto Donald Trump: manovrando il populismo, l’ignoranza, la necessità di essere rappresentati e di appoggiare chi sembra essere più simile. Ancora: l’impiego dei social network, l’appoggio dei media, l’importanza di chiamarsi Ernesto ed essere sposato con Ernesto2. Sentirsi rappresentati non comporta la condivisione sic et simpliciter delle idee del rappresentante, ci vuole riflessione reale: l’importanza di chiamarsi Onesto (è di Oscar Wilde stesso il doppio senso su “earnest”, Ernesto ed onesto). La modifica della Costituzione non si gioca sull’orientamento sessuale. È umiliante vedere costruire, da parte del PD, truppe di omosessuali pronti a combattere per la causa partitodemocratica, solo perché la Cirinnà con la sua chioma bionda monta un cavallo bianco. 

Questa strumentalizzazione, cara Monica, la riporta a quel collegio di suore lontano nel tempo, dal quale lei scappò per studiare l’umanesimo al Tacito di Roma. Sa quando le suore usavano la religione per indicarle i passi da seguire? Ricorda i sensi di colpa che le muovevano? Sa dirmi quante volte si è chiesta, con fastidio, astio o almeno curiosità morbosa, perché esse vestissero tutte uguali e lasciassero da parte ogni istanza identitaria, ogni modalità di identificazione di se stesse rispetto alle altre, per seguire Dio? 

Monica, non è quello che sta facendo ora con la comunità LGBT? Vuole davvero strumentalizzare la religione dei diritti per rendere tutti i suoi proseliti identici, persone che vogliono sposarsi pure loro, che vogliono adottare figli pure loro, che vogliono farne pure loro, che vogliono usare bagni giustificati sul gender, senza attribuire ai medesimi una taratura di uomini e donne intelligenti, in grado di pensare, riflettere, scegliere a prescindere dal suo decreto legge; vuole di fatto lei stessa – una “paladina” – renderli tutti identificabili con un unico scopo: il suo? (Romina Ciuffa)




DIPENDENZE AFFETTIVE: IO E LO STATO, UN AMOR NON CORRISPOSTO

DIPENDENZE AFFETTIVE: IO E LO STATO, UN AMOR NON CORRISPOSTO di Romina Ciuffa. Lo ammetto. Mi sveglio con una sana e robusta paura. Apro gli occhi tutte le mattine come trasformata in un grosso insetto, tardo a riconoscermi, a volte attendo qualche minuto prima di dare un’occhiata al mio riflesso proiettato, che è distante dalla mia introiezione. Si tratta di quel senso di alienazione e non appartenenza al luogo che mi ospita, che è mio, al letto da condividere, che è mio, e all’esistenza che mi attraversa, che è mia. Un senso di alienazione e di non appartenenza generato dal soprassalto al mondo che vivo, che non è mio.

“E si mise all’opera per spostare, con una oscillazione sempre uniforme, il corpo in tutta la sua lunghezza fuori del letto. Lasciandosi cadere in questa maniera, il capo, che cadendo voleva tenere ben sollevato, doveva rimanere logicamente illeso. La schiena sembrava essere dura, e cadendo sul tappeto non si sarebbe forse danneggiata. La preoccupazione più grave era per lo schianto che sarebbe avvenuto (…)” (Franz Kafka, La metamorfosi). Il risveglio e l’incontro con l’inconscio notturno. Lo schianto occidentale più operativo nella metamorfosi quotidiana è lavoro-amore. E un teorema: quando si ha l’amore il lavoro passa in secondo piano; quando si ha il lavoro, metti da parte l’amore, arriverà. Dedicati totalmente al lavoro. Qualcosa tipo:

Quoto integralmente la madre di Phil Collins, non si aspetti l’amore. Nel frattempo la società ci dice: “Vattene!”, e noi prendiamo esempio da Stoccolma fino al Nebraska, per dire: me ne vado (poi però restiamo). Non è una colpa, è il mondo che va avanti, che ci insegna che, come animali, dopo lo svezzamento dobbiamo renderci responsabili. Giusto (negli altri Paesi), sebbene perfettibile (nel nostro). Ma perché allora, quando ti svegli con la paura, pensi sempre a casa? Perché non vi sono punti di riferimento. 

Vorrei in questa sede approfondire il rapporto lavoro-amore per dare conto della dipendenza affettiva che va accentuandosi non più come una intrinseca, leggera, essenziale dote dell’amore, bensì come disturbo psichiatrico tra le fila di giovani e adulti. Non più come un virtuosismo romantico, ma come un mea culpa che tormenta chi non crede all’amore libero. Una dipendenza affettiva che, nata sana, via via si è trasformata – metamorfosi kafkiana – in quello scarafaggio che sostituisce una mattina il giovane Gregor Samsa. La dipendenza affettiva così va prendendo qui e là le forme di un disturbo bipolare in bilico tra episodi maniacali e depressivi, un disturbo depressivo maggiore, una distimia, un disturbo ossessivo-compulsivo, un disturbo psicosomatico. Anche in comorbilità. Mi fermo a questi cinque, elencati con chiarezza dal DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali maggiormente in uso tra psicologi e psichiatri, pur non essendo esaustivi. Siffatta metamorfizzazione del fenomeno amoroso in disturbo psichiatrico sottopelle è il frutto, innanzitutto, della nostra nuova società.

Il discorso è italiano. Il lavoro: carente. Quando presente, sottopagato. Quando pagato, a termine. Proprio lui, che dovrebbe essere “dipendente”, non lo è. Quest’assenza di lavoro dipendente si trasforma nella presenza di amore dipendente. Primaria fonte non di guadagno bensì di insoddisfazioni e frustrazioni, il (non)lavoro è, in Italia, la panacea dei mali. Faccio riferimento ai giovani e agli adulti, pur sottolineando che i primi hanno una marcia in più potendo accedere a un numero maggiore e più variegato di incarichi e mansioni che un adulto non può né deve accettare (come si può chiedere ad un ricercatore ultraquarantenne di fare il cameriere in un bar?). Senza tacere il fattore “speranza”, tradotto in termini politico-economici come “aspettativa di vita”: il giovane ha più tempo davanti a sé ed una minore responsabilizzazione dettata dall’età, vuole viaggiare, intende e deve sperimentare, ha meno ambizioni specifiche in quanto più libero, non ha ancora investito gran parte della propria vita in un progetto unico. Sotto il profilo dell’amore, ha bisogno e curiosità di fare esperienze, tende a dimenticare facilmente una storia finita o a lasciarsi alle spalle ottime opportunità romantiche perché non le vive come tali, preso a guardare avanti. È abituato a un lavoro intercambiabile, sa che la laurea è un pezzo di carta disfunzionale, conosce i linguaggi di programmazione del computer e vive in chat. Ha un collo da giraffa e mangia solo le foglie più alte degli alberi. L’adulto è stanco, fisicamente e psicologicamente: assiste ai cambiamenti del corpo, ha già ascoltato troppi politici parlare, ha assistito alla franca ingiustizia dei licenziamenti, nella migliore delle ipotesi ha rifiutato la cocaina che gli è stata offerta, è solo. Il collo è quello dello struzzo, che nasconde sotto terra sebbene lo abbia ben lungo e abile.

Prendiamo l’orologio biologico, ingestibile strumento di cui ci ha dotati il nostro dna. Una donna trascorre la decade trentenaria sentendosi domandare: “A quando un figlio?”, ne compie 40 e si autointerroga: “Dovrei farlo? Non sono pronta, ma dovrei farlo?”, verso i 45 giunge a Barcellona e programma una inseminazione artificiale, quando non rinuncia alla maternità o non accetta altro compromesso. Tic tac. Gli uomini non sono messi meglio. Hanno indubbiamente più età per fare figli, nessun orologio biologico al polso, ma non credono nella filiarità e più frequentemente optano per la libertà. La maggior parte di essi si lascia lasciare dalla storica compagna ormai quarantenne che preme per una gravidanza. “Noi sessualmente eravamo affamati, i giovani d’oggi non lo sono più. Noi le portavamo a ballare”, sento dire in un bar. Le coppie omosessuali sono le più favorite. Sebbene si debbano formare e mantenere unite, come tutte le altre. Ma per loro, libertà è fare un figlio, esattamente l’opposto della coppia eterosessuale: l’avvicinamento di un diritto mai prima riconosciuto lo rende favorito. Lo stesso valga per il matrimonio, ora possibile anche in Italia, che lo rende più appetibile alla coppia gay che non alla coppia classica.

Tic tac. La dipendenza affettiva si crea una volta che si afferri la paura di rimanere soli, e ciò solitamente avviene con il passaggio ad un’età più adulta. Non andremo a riprendere Freud, non andremo a cercare nel padre la causa di un vuoto affettivo o nella madre l’impossibilità a vivere rapporti autentici. Più semplicemente, in un discorso sociologico che colloca la persona all’interno di un mondo relazionale, la dipendenza affettiva si crea per l’assenza di sicurezze nell’attualità, di relazioni vere, complete, durature, stabili, protettive, non virtuali. Il mestiere più ricco è appannaggio dello psichiatra, lo psicoterapeuta perde alcuni colpi non potendo prescrivere farmaci che ad oggi sono un must. V’è necessità di cambiare presto le cose con un serotoninergico, ingollare ansiolitici, usare un toccasana. Chi è contrario ai farmaci si iscrive a yoga, meditazione, prende ayahuasca, mangia bio, usa Fiori di Bach. Non è così che devono andare le cose. È l’alba dei morti viventi: si cammina per le strade senza una meta affettiva effettiva, vera, zombie che soffrono dipendenze affettive e svolgono lavori non consoni. L’impossibilità di reagire ad una relazione finita, o terminare una storia, buttarsi a capofitto nel lavoro perché assente o non satisfattorio, accentua la problematicità del fenomeno. L’amore non è corrisposto. Non è corrisposto da parte dello Stato, che non ci ama.

La società di internet ha peggiorato il quadro in maniera esponenziale, conferendo a tutti le basi ideali per divenire ossessivo-compulsivi da manuale: il controllo via Facebook dei profili, la scansione precisa dei “mi piace” e, prima fra tutti, la “spunta blu”, ossia la “visualizzazione” su WhatsApp, macchina infernale creata dal Diavolo, che dà conto del fatto che la persona destinataria di un messaggio lo abbia letto, i tempi trascorsi prima che si sia risposto. L’online è la causa primaria della malattia affettiva di questo millennio. “Gettati a capofitto sul lavoro”. Ma prima, per liberarti dalle dipendenze affettive, sciogliti dall’incontinenza virtuale, slaccia i nodi nautici del porto per navigare in modo etimologico, con una navis, la nave latina, e non in modo virtuale, con un computer. Impara ad attendere, come un capitano di mare, e che l’unica spunta blu sia un’onda del mare. Non sottovalutarti. Non ascoltare nemmeno chi dice: “Se non ti ama non ti merita”, perché dall’altro lato come da questo c’è chi ha paura e necessita di tempo. L’amore libero non esiste, fantascienza del nuovo millennio che ha generato mostri di indipendenza pur di sopperire all’assenza di sicurezze, i mostri del “non ho bisogno di nessuno”. L’oggetto dell’amore tornerà, se lo si ama ancora; è lo Stato che non tornerà. 

Si tratta del sesto e settimo degli stadi di sviluppo psicosociale elaborati dallo psicanalista Erik Erikson. Nel sesto stadio, l’età giovanile, v’è una contrapposizione tra intimità ed isolamento: un corretto sviluppo tende verso la prima. Il giovane avverte la necessità di una relazione intima appagante (passione, amore, progetto di vita, amicizia); ove non riesca a trovare l’intimità eriksoniana, vivrà un forte senso di isolamento e solitudine. Questo complicherà il passaggio al settimo stadio, quello dell’età adulta, in cui la contrapposizione è tra i due poli generatività-stagnazione: la crisi che la persona è chiamata a superare in questa difficile fase riguarda la procreazione, non intesa solo in senso letterale bensì ampliata alla necessità intrinsecamente umana di lasciare qualcosa alle generazioni successive (con un mestiere quale scrittore, insegnante, ricercatore, artista et altera). La procreazione consiste nella realizzazione personale a fini futuristici, sia essa di tipo lavorativo sia essa di tipo filiare, sempre nel senso dell’offrire un contributo che favorirà le nuove generazioni, per avere una continuità individuale postuma che dia senso all’attuale e una trascendentalità alla vita. L’insuccesso in questo compito di sviluppo porterà a sperimentare un senso di stagnazione, immobilità e inutilità riferita alla propria esistenza. Ed ecco, l’adulto è depresso.

Procreazione dunque nel senso di generazione. Lavoro e amore sono strettamente collegati e il problema della dipendenza affettiva non può essere scisso dal dramma esistenziale del proprio contributo professionale, artistico, lavorativo. Per superare uno stato di dipendenza affettiva, l’ossessione verso un oggetto d’amore, è necessario sviluppare generatività in altri settori. Ciò non è facile se il problema è già divenuto disturbo, sia esso mania, depressione, ossessione, somatoformazione. Generatività in Italia è impossibile. Nel nuovo adulto l’orologio biologico non batte solo o per forza il tempo della genitorialità, ma anche quello della pro-creatività, il senso di sentirsi validamente esistenti, la percezione della propria funzionalità nella società, la fiducia nelle istituzioni e nelle persone, la tensione verso un futuro sereno, il sentimento di protezione verso se stessi e verso l’altro, uno stipendio. Una volta venuti a mancare tali tasselli – perché il primo a non amare l’uomo è lo Stato, il secondo a non amarlo è se stesso – si passerà all’ottavo stadio di psicosviluppo, che vede contrapporsi i due poli integrità dell’io-disperazione: pericoloso momento di un bilancio al quale anche la Corte dei Conti dovrebbe partecipare, essendo, nella mia teoria, lo Stato chiamato in causa direttamente nella crisi affettiva dilagante, nel senso dell’amor non corrisposto.  

Come si può spostare un oggetto d’amore desiderato su altro se, amando l’Italia, lei non ci corrisponde? La nostra dipendenza affettiva nei suoi riguardi supera la normalità e diviene patologia, che viene spostata sul legame in campo strettamente sentimentale; spostamento che pregiudica la formazione di legami stabili, duraturi, sani, verso i quali si ha una proiezione dell’instabilità introiettata. Tale dipendenza scatena due vie: la necessità di fuga o, all’estremo opposto, la soluzione di figliare per dare un senso alla vita e creare un legame affettivo stabile in quanto di sangue. Proprio per questo quando si ha paura si tende a tornare a casa, perché è lì che sono i legami sanguinei. Come in amore l’idealizzazione partecipa di questo processo. Noi non amiamo questa Italia, bensì l’Italia di Michelangelo, Bernini, l’Italia dei borghi, l’odore dei camini accesi, l’agriturismo, Asiago, Mondello, vera e propria idealizzazione simile a quella che operiamo pensando alla persona che amiamo non più corrisposti, focalizzandoci nostalgicamente sui momenti di gloria di quella relazione. La storia con il nostro Paese è finita, ma possiamo recuperare la nostra forza per amare qualcun altro. Tanto che da quando è stato promulgato il divorzio breve, è aumentato il numero di matrimoni civili, a fini pensionistici e per tutelare i figli: possiamo divorziare con il nostro Paese? Possiamo smettere di amarlo non corrisposti? 

Quando si sveglia da insetto, Gregor se ne rende conto eppure il primo pensiero del nuovo scarafaggio va comunque alla sua vita, a quanto essa sia priva di autentiche gioie. Non pensa a ciò che è diventato, un gigantesco, orrido mostro, ma all’inutilità di se stesso, l’inutilità di Gregor uomo. Quindi, guarda l’orologio a muro e si accorge di aver dormito troppo, che ha fretta. Tic tac.  (Romina Ciuffa)




IL REFERENDUM VE LO SPIEGO IO

IL REFERENDUM VE LO SPIEGO IO di Romina Ciuffa. Io non dico se bisogna votare sì o no. Io direi di votare no. Ho le mie ragioni, che la ragione conosce. Non si tratta, come si mormora, di togliere legittimazione al Governo Renzi, al Pd, alla solita Maria Elena Boschi: ciò è secondario. Non si può votare sì o no per spodestare, o per passioni: la funzionalità prima di tutto. Per me si tratta della Costituzione, che sin dal nome fa riferimento a qualcosa che è costitutivo. Un uomo ha una costituzione sana, robusta, ma anche fragile: una costituzione che lo contraddistingue nel proprio dna. Poco si può fare contro il fattore costitutivo, se non seguirlo per non avvertire frustrazione, e migliorare gli aspetti che sono migliorabili. La genetica familiare vince sulla scienza, per quanto possiamo già clonare capretti un uomo di sana e robusta costituzione può andare in palestra, colui che invece ha problemi al cuore no. Quest’ultimo potrà, invece, fare altri esercizi, pur mantenendo attenzione e controllo, e dovrà fumare poco o niente. 

Inizio in questo modo per dire che noi siamo figli del nostro dna costitutivo, e siamo tutti figli della nostra Costituzione, promulgata nel 1947, il 22 dicembre, sotto il segno del Capricorno (cuspide Sagittario): segno di terra, grande diplomatico, responsabile, anche materialista, crede in un potere più alto (sono i principi fondamentali della Premessa), a volte snob, ambizioso, infinitamente paziente, non impulsivo, mai di fretta, la sua costituzione fisica tende a irrobustirsi quando invecchia. Non poteva che essere del Capricorno una Costituzione destinata a supplire agli errori della guerra, tanto che già il decreto legge luogotenenziale n. 151 del 25 giugno 1944 fu emanato dal governo Bonomi a pochi giorni di distanza dalla liberazione di Roma, stabilendo che alla fine della guerra sarebbe stata eletta a suffragio universale, diretto e segreto, un’Assemblea costituente per scegliere la forma dello Stato e dare al Paese un nuovo testo costituzionale. Lo stesso che avrebbe partorito sin dall’art. 1 una Repubblica democratica fondata sul lavoro, ed una sovranità appartenente al popolo, perché fosse esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione.  Questa riforma sarebbe del Sagittario: incapace di rimanere fermi, pronto a partire per una nuova avventura, a volte inquieto, in cerca di qualcosa che sfugge, con una freccia puntata verso l’alto, vero e proprio collegamento tra passato e futuro. Ma come?

Vorrei prima specificare ai non addetti ai lavori che tutto trae origine dall’art. 138 della nostra Costituzione, che prevede il procedimento per l’approvazione di leggi di revisione costituzionale e di altre leggi costituzionali, ossia per modificare la Costituzione. Ma lo stesso articolo 138 è stato oggetto di molta riflessione dottrinale: e se cambiassimo l’art. 138? Pura dittatura. Darò una risposta veloce, per sintetizzare anni di discussioni: non sono modificabili, mai, (e da persona sana di mente), i principi fondamentali e tutti quegli aspetti della Costituzione che provengano da più in alto, ossia dall’essenza umana e democratica. Perché altrimenti potrebbe essere modificata anche la norma dell’art. 139 secondo cui “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”: semplicemente modificando prima l’art. 139 con la procedura dell’art. 138, quindi modificando l’art. 1 che stabilisce la forma repubblicana. 

Ora, facciamo finta che la Costituzione sia un libro. La riforma proposta dall’attuale Governo attraverso referendum, come richiede l’art. 138 della Costituzione, consiste in un vero e proprio editing. Immaginiamo che il poeta invii la nuova raccolta al proprio editore per la pubblicazione, e che il ragazzetto addetto ai manoscritti della casa editrice in questione vi dia una letta e lo corregga di punto in bianco, trasformandolo in prosa e rinviandolo al poeta. Immaginiamo che sia inviato, ancora, un noir avente ad oggetto un complesso complotto internazionale, e che la ragazzetta addetta all’editing muti le pagine finali del testo e dalla nuova prosa emerga che l’assassino sia il maggiordomo, di sherlockiana memoria: prevedibile, scontato, inopportuno. Non si mette mano al testo di uno scrittore. Non si trasforma la poesia in prosa. 

E la Costituzione è pura poesia. Si può discutere sull’attualità di alcune sue norme, ma la verità è che ciascuna di esse è affidata alla interpretazione della giurisprudenza costituzionale, che può apportare le modifiche necessarie, sentenziando affinché si rendano al passo coi tempi e siano lette nel modo ad uopo. 

Trasformare una poesia del premio Nobel polacco Wisława Szymborska in un libro di Fabio Volo è da assassini. Questo sta facendo Matteo (così lo chiamano certi giornali, per nome proprio). Prendo le distanze: questo sta facendo il premier Renzi, distrugge un’opera d’arte. La distrugge letteralmente. Non farò discorsi di sinistra né di destra. Obiettivamente, non è normale sostituire l’art. 70 classico, “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”, con “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma. Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati. Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all’esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata. L’esame del Senato della Repubblica per le leggi che danno attuazione all’articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti. I disegni di legge di cui all’articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione. I Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti. Il Senato della Repubblica può, secondo quanto previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all’esame della Camera dei deputati». No, non si può fare. Non si può prendere una delle norme più democratiche e poetiche del nostro Paese e trasformarla in un libro di Fabio Volo o di Ligabue. Inoltre, non può essere stato il maggiordomo. Dev’essere stato Renzi.

Questa modifica è stata “spiegata” al popolino con la stringa “Superamento del bicameralismo perfettamente paritario” (traduco io: supremazia di una Camera sull’altra, o su quel poco che ne rimane), e il Fabio Volo fiorentino ha dichiarato a suo favore: “Il procedimento legislativo diventa più snello, si ferma l’abuso della decretazione d’urgenza cui neanche noi possiamo dichiararci immuni, senza che si tocchi il sistema di pesi e di contrappesi. Si interviene sul Titolo V rendendo lo Stato più responsabile, si elimina il bicameralismo perfetto che era considerato da tutte le forze politiche un tabù da abbattere”. Rabbrividisco. La procedura risulterebbe molto più complessa, innanzitutto. Ma c’è di più: le molte navette che sono fatte tra una Camera e l’altra possono essere risolte senza una riforma costituzionale, bensì attraverso l’uso della prassi. Come nel question time, il tempo nel quale i ministri danno in Parlamento risposte immediate alle interrogazioni dei parlamentari, non potendosi dilungare oltre misura. Una nuova prassi che dovrebbe essere sostenuta dalla volontà di ridurre i tempi di legiferazione per dare al cittadino ciò che merita: tempismo e adeguatezza. 

Ma soprattutto rabbrividisco nel sentire il premier-maggiordomo intenzionato a mettere un freno, attraverso questa norma fallace, alla decretazione d’urgenza: la decretazione d’urgenza è, a tutti gli effetti, un abuso del Governo. È esattamente lì che l’Esecutivo viola la Costituzione da anni: in particolare, abusando dell’art. 77 viola l’art. 70. Mi spiego per i non addetti ai lavori. L’art. 77 attribuisce all’Esecutivo un potere eccezionale (non nel senso di grande, bensì nel senso che esso costituisce un’eccezione alla regola). Mentre l’art. 70 attribuisce il potere legislativo alle Camere collettivamente, l’art. 77 ribadisce la regola: il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria. In questo primo comma fissa la norma abilitativa dei decreti legislativi. Quindi, nel secondo comma apre uno spiraglio alla decretazione d’urgenza, consapevole che la macchina parlamentare potrebbe – in casi eccezionali – risultare lenta, e stabilisce che, in casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo possa adottare, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge. Deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni. Al comma successivo, i decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti. 

Voilà: fatta la legge (costituzionale), trovato l’inganno (costituzionale). Renzi & Co. vogliono farci credere che voler mettere un freno alla decretazione d’urgenza sia una buona cosa, quando però, a ben vedere, la decretazione d’urgenza è un abuso del Governo. Pertanto, semplicemente smetta di abusarne, e usi lo strumento dell’art. 77 in modo dignitoso. Tanto che sarebbero ridotti i tempi del procedimento legislativo in caso di DDL in materia di bilancio e in quelli in cui è prevista la clausola di supremazia, e non solo: il Governo può chiedere la votazione di altri DDL entro e non oltre 70 giorni (escludendo solo alcuni tipi di legge, come le leggi elettorali e di ratifica dei trattati). Che Dio ci aiuti: il Governo può battere il tempo al Parlamento, rappresentante del popolo? Ma esso è potere esecutivo, dovrebbe eseguire, non comandarsela.

Inoltre la riforma ridetermina le norme riguardanti l’iniziativa legislativa modificando l’attuale art. 71 Cost.: la dà solo alla Camera dei Deputati, ed alza il quorum per le leggi di iniziativa popolare a ben 150.000 firme (ma per favorire la partecipazione dei cittadini alla politica verrà introdotto il referendum popolare propositivo…). Per proporre un referendum, invece, serviranno 800 mila firme, contro le 500 mila attuali. Praticamente la riforma renderà impossibile l’iniziativa popolare, violando così gli stessi principi fondamentali della Costituzione.

Per non parlare della stringa referendaria: “Riduzione del numero dei senatori e taglio delle spese”. Non c’è bisogno di ridurre il numero dei parlamentari, è sufficiente, più che sufficiente, tagliare gli stipendi di tutti i nostri rappresentanti nonché dell’Esecutivo. Più che semplice: banale. Ma no: si vuole ridurre i senatori da 335 a 100, di cui 5 saranno scelti dal Presidente della Repubblica e 5 dalle Regioni “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”. Gli altri membri del nuovo Senato delle Autonomie non saranno eletti dai cittadini, bensì scelti dalle Regioni e dalle Città Metropolitane tra i sindaci (in numero di 21) e i consiglieri regionali (74). La legge costituzionale Boschi prevede per i senatori l’azzeramento delle indennità per la loro carica (circa 10.385 euro mensili), ma essi sono già pagati per le funzioni che svolgono presso gli Enti Locali. Potrebbe restare il beneficio del rimborso per le spese di soggiorno a Roma. Il punto è che il punto non è questo. Il bicameralismo in Italia è necessario alla democrazia, è necessario che il nostro potere legislativo resti un giano bifronte che possa confrontarsi. L’eliminazione del Senato non può essere la soluzione per supplire all’eccesso di danarizzazione delle cariche pubbliche. Il “mi candido” italiano equivale al “mi arricchisco”. Questo deve cambiare. Molti sindaci dei paesi sono pagati a rimborso spese, alcune cariche pubbliche vengono svolte quasi in forma di volontariato. La rappresentanza di un Paese, poi, dovrebbe essere data a laureati, con curricula molto suggestivi e altrettanto veritieri, a coloro che abbiano dimostrato o che possano dimostrare un’intelligenza attiva e un attivismo intelligente. In tal caso la meritocrazia premierebbe gli eletti, ma comunque fino ad un certo punto: esigere stipendi esagerati a carico del pubblico è sinonimo di un disinteresse verso il proprio Paese che per ciò solo andrebbe condannato. Ma come spiegare che anche Virginia Raggi, attuale sindaco di Roma, prima caldeggiava il taglio degli stipendi, poi come primi atti da prima cittadina ne ha aumentato qualcuno?

Non proseguirò nella disamina degli altri articoli, almeno per ora. Solo un veloce accenno alla norma che aggiungerebbe, all’art. 55, la chiosa: “Le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza”. Norma che si evince già dall’art. 3 della Costituzione, comma 1 (uguaglianza formale), e comma 2 (uguaglianza sostanziale). Un doppione di cui le donne non hanno bisogno, ma forse Renzi sì per conquistare l’elettorato femminile (oltreché la Boschi). 

 Io voterei NO a questa riforma perché:

– dà potere legislativo all’Esecutivo e ne priva il Legislativo;

– è mosso da un ragazzo di appena 41 anni che pasticcia sul compito in classe…

– …e che non è stato nominato, lui per primo, nel rispetto delle norme costituzionali, dunque si trova al potere senza legittimazione, violando ciò che ora vuole modificare (in altri tempi si sarebbe parlato di dittatura); 

– alla dittatura si può giungere, per l’appunto, attraverso l’approvazione delle norme oggetto di questo referendum, che > noto bene > è confermativo, dunque non richiede maggioranza per essere approvato: detto anche costituzionale o sospensivo, esso prescinde dal quorum, saranno conteggiati i voti validamente espressi indipendentemente se abbia partecipato o meno alla consultazione la maggioranza degli aventi diritto, pertanto l’astensionismo non va praticato in questo caso;

– è mosso da un ministro per le Riforme costituzionali (Maria Elena Boschi) che è già stato al centro di polemiche e vicende che avrebbero dovuto delegittimarlo e, pertanto, è viziato anche qui;

– l’Italicum non va, genericamente in quanto già oggetto di molte remissioni dinnanzi alla Corte costituzionale;

– i tagli alle spese dovrebbero partire direttamente dai rappresentanti, la Casta. Non c’è uguaglianza se nel privato si ricorre a parcellari che danno un limite massimo d’onorari e codici deontologici, nel codice civile è dato l’istituto della rescissione per eliminare retroattivamente gli effetti di un contratto se vi è una sproporzione fra le prestazioni contrapposte che consegue all’abuso delle condizioni di debolezza, mentre nel pubblico – e proprio tra chi ci rappresenta – c’è un sinallagma violato in vari punti;

– non si può trasformare una poesia in un libro di Fabio Volo o Ligabue.

Leggete la Costituzione, da inizio a fine. Poi andate a votare. Allora saprete chiaramente che nel testo del 1947 (e modifiche al Titolo V), c’è già tutto ciò cui aneliamo. Non c’è bisogno di metter mano alla nostra Costituzione, come alla poesia di un premio Nobel, Wisława Szymborska, che per prima scriveva: «Sono, ma non devo esserlo, una figlia del secolo». (Romina Ciuffa)