JOSÉ R. DOSAL NORIEGA: FONDAZIONE MUSICA PER ROMA, L’AUDITORIUM DI “PIANO” SEMPRE PIÙ VELOCE

di ROMINA CIUFFA. «Cerco un Paese innocente», scriveva Giuseppe Ungaretti nella poesia «Girovago». Oggi arriva a Roma uno spagnolo nato a Città del Messico, José Ramon Dosal Noriega. Succede a Carlo Fuortes (dal 21 dicembre 2013 sovrintendente della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma Capitale) e si predispone alla guida dell’Auditorium Parco della Musica: è lui il nuovo amministratore delegato della Fondazione Musica per Roma, realtà giuridica nata il 19 luglio 2004 nel passaggio dall’originaria forma di società per azioni con la quale venne istituita nel 1999, in effetti la prima grande trasformazione di una spa in Fondazione consentita dalla riforma del nuovo diritto societario. Quattro i soci fondatori: il Comune di Roma, che ha conferito in concessione d’uso per 99 anni l’immobile Auditorium alla Fondazione, la Camera di Commercio, la Provincia di Roma e la Regione Lazio. Per Statuto il presidente è nominato dal sindaco di Roma, dura in carica quattro anni, può essere confermato; il vicepresidente è nominato dalla Cciaa.

Il Consiglio di amministrazione è oggi composto da soli 5 membri, compresi il presidente ed il vicepresidente, nominati tre dal sindaco, uno dalla Cciaa, uno dalla Regione Lazio. Una riduzione, quella da 16 a 5 membri, che non ha mancato di suscitare polemiche: il 14 agosto è infatti entrata in vigore la legge n. 125 approvata il 6 agosto, convertendo il decreto legge n. 78 del 2015 in materia di enti territoriali e obbligando il brusco taglio dei consiglieri di amministrazione, senza che l’allora sindaco di Roma Ignazio Marino, in partenza per gli Usa, firmasse tempestivamente l’ordinanza sindacale a conferma delle 16 nomine indicate il 10 agosto.

Fuori così, dal Consiglio di amministrazione musical-romano, tra gli altri, Luigi Abete, Gianni Letta, Giovanni Malagò, Paola Santarelli, Sabrina Florio, Umberto Croppi, Nicola Maccanico.
Restano, con Dosal Noriega, il presidente Aurelio Regina (azionista alla guida di Manifatture Sigaro Toscano) e la consigliera Azzurra Caltagirone (presidente della Fgc spa e vicepresidente della Caltagirone Editore spa), nomi indicati dal Comune di Roma; Lavinia Biagiotti Cigna (vicepresidente del Gruppo Biagiotti), nominata vicepresidente dalla Camera di Commercio; e il consigliere Valter Mainetti (amministratore delegato e azionista di riferimento di Sorgente Group), quale rappresentante della Regione Lazio in seno alla Fondazione.

Oltre ad essi per statuto, il presidente della Fondazione Accademia Nazionale di Santa Cecilia partecipa alle sedute del Consiglio di amministrazione quale invitato permanente senza diritto di voto: è Michele Dall’Ongaro. Nell’Auditorium ha infatti trovato la propria casa Santa Cecilia, una delle più antiche istituzioni musicali nel mondo, fondata ufficialmente nel 1585: la sala omonima, che all’interno dell’Auditorium ospita la sua stagione sinfonica, è tra le più grandi sale da concerto europee.

La nomina dell’amministratore delegato è il frutto dell’emissione di un bando internazionale; presente nella rosa dei cinque finalisti, Dosal Noriega è stato eletto dal Consiglio di amministrazione a norma di statuto. Allora il sindaco capitolino, che compiva uno degli ultimi atti del proprio mandato, l’accoglieva sottolineando come l’ingresso del manager spagnolo, scelto tra personalità importanti e prestigiose riconosciute in tutto il mondo, fosse «un’innovazione nel segno della trasparenza e della qualità, della competenza e delle capacità professionali». Il Paese «innocente» di Ungaretti? Quel Paese ungarettiano è, per Dosal Noriega, proprio il nostro, sebbene stenterebbe a crederlo un italiano. Secondo lo spagnolo, «il problema è che la gente di Roma non sa quello che ha, ma fuori si sa che cos’è l’Auditorium e si sa quello che è Roma». Si sente a casa, dopo aver velocemente studiato l’italiano e meno velocemente imparato tutto ciò che ci fosse da sapere sull’Auditorium e l’Italia per vincere la gara: «Siamo a casa nostra. Tutti siamo a casa, qui all’Auditorium, perché questa è la casa di tutti: è della musica, della cultura, dell’arte, di Roma. Della vecchia Roma, non la città conosciuta ma la capitale dell’Impero, dove sono nati cultura, diritto, giustizia». Una lunga esperienza, riconosciutagli nell’ambito di una gara dalle caratteristiche internazionali nella quale si è confrontato con ben 140 manager che, come lui, hanno presentato la candidatura a guidare una delle istituzioni culturali più prestigiose in Italia e, per la proprietà transitiva, nel mondo. 

Chi è, allora, questo straniero?

Dosal Noriega si è occupato della direzione e organizzazione di spettacoli musicali e di danza per importanti teatri in Spagna e in Argentina: il Lope de Vega di Madrid, il Coliseo di Buenos Aires, il Barcelona Teatre Musical. Dal 2003, è l’amministratore delegato della Producciones Renacimiento, specializzata nella produzione di grandi concerti musicali, spettacoli teatrali, appuntamenti sportivi, eventi per imprese e istituzioni; nella commercializzazione di diritti di ogni tipo (sponsorizzazione, marketing, autore, tv, immagine); nella creazione ed attuazione di campagne pubblicitarie. Dal 2005 al 2007 è stato direttore generale della Madrid Deportes y Espectaculos, concessionaria della gestione del Palazzo dello Sport della Regione Madrid, e dal 2001 al 2003 amministratore delegato e direttore generale della Corporacion Interamericana de Entretenimiento.

Ora, a Roma. La situazione al suo arrivo è quella fotografata nel bilancio 2014, in positivo per il dodicesimo anno consecutivo: un utile prima delle imposte pari a 39.147 euro, un margine operativo lordo di 557.590 euro. Nel corso del 2014, all’interno dell’Auditorium sono stati realizzati dalla sola Fondazione Musica per Roma 589 eventi, di cui 564 di natura culturale e 25 di natura congressuale. Agli eventi proposti da Musica per Roma hanno partecipato 613.126 spettatori (erano 612.851 l’anno precedente); gli spettatori di appuntamenti soggetti a Siae sono risultati 341.974 (+4,22 rispetto al 2013), i partecipanti a mostre, festival e altri eventi culturali sono stati oltre 271 mila. Gli incassi della biglietteria risultano pari a 5.276.940 euro.

Domanda. Benvenuto a Roma, benvenuto all’Auditorium. Cosa significa per lei essere qui?
Risposta. È stato come se Santa Cecilia mi chiamasse a dirigere l’orchestra: questa è la massima ispirazione di un gestore culturale. In questo Auditorium c’è un’identità unica, prima di tutto per essere progetto di Renzo Piano, quindi per la maniera in cui esso è stato costruito e la disposizione tecnica delle sue sale, infine per tutta l’attività che è ospitata in questi ambienti. A Roma non si sa ciò che si ha, fuori sì. È veramente un onore e un orgoglio per me aver partecipato a questa gara in un processo chiaro e trasparente: ho compiuto uno sforzo immenso per superare centinaia di candidati che, come me, aspiravano a gestire questo Auditorium.

D. Come si è svolta la gara che l’ha portata a Roma?
R. È stata difficilissima, i candidati arrivavano da tutto il mondo e ho dovuto studiare davvero tantissimo. Ho prima presentato la domanda via internet, mi è stata notificata la ricezione del curriculum e, dopo la prima scrematura, si è svolto un primo incontro su Skype, e a seguire un incontro conoscitivo: un colloquio di lavoro vero e proprio che si è svolto a Roma e si è trasformato in un esame di finanza dalla durata di 4 ore. Mi hanno praticamente osservato dalla testa ai piedi, come vestivo e come parlavo. Siamo rimasti in 5 e questa rosa di finalisti è stata data al Comune di Roma, che poi ha fatto la scelta. Il 15 giugno 2015 ho ricevuto la chiamata del sindaco di Roma in persona che mi comunicava la vittoria: è stata la telefonata più bella della mia vita, il momento più importante della mia carriera professionale. È questa la massima ispirazione di un gestore culturale.

D. Quale è stato il primo impatto nel momento del suo insediamento effettivo?
R. Quello che ho notato qui è la presenza di una bellissima squadra, ho trovato personale con un grado di professionalità elevatissimo e un modello di gestione impeccabile. Devo ringraziare il mio predecessore Fuortes per aver lasciato una tavola ben disposta. La linea editoriale che ho incontrato è quella giusta per un’istituzione del genere.

D. Cosa farà per noi? In che modo proseguirà o cambierà l’opera di Fuortes e del precedente consiglio di amministrazione?
R. Il mio apporto sarà diretto in 5 punti fondamentali. Il primo va in direzione di un equilibrio tra parte commerciale e parte culturale: tutti sappiamo che la cultura è cara e che un contenuto di tipo commerciale è più facile da impiegare dal punto di vista finanziario, e ciò rileva il ruolo che ha la cultura nell’equilibrio e nel supporto all’economia di una città e di un Paese. Il secondo punto è quello della redditività: dobbiamo compiere un grande sforzo verso il dimensionamento dell’attività, generare un’offerta editoriale interessante in grado di attirare qui un pubblico lieto di scambiare il proprio denaro con contenuti culturali di alto livello. Come terzo punto, avvicineremo l’Auditorium a Roma. Ho notato che la gente lo ama, ma non basta: dobbiamo renderlo di tutti. Questa è anche la ragione per cui abbiamo fatto una pista del ghiaccio ed una programmazione vicina alla gente: bisogna dare un senso di appartenenza dell’Auditorium. Come quarto punto, ci impegneremo fortemente ad accompagnare ogni tipo di attività capitolina, anche sportiva, culturale e della moda: l’Auditorium deve essere lo specchio di tutte le attività che si svolgono a Roma, non solo quelle musicali ed artistiche. La settimana della moda romana, ad esempio, dovrà avere nell’Auditorium uno specchio, che noi dobbiamo preparare nell’ambito di una linea editoriale che si unisca ai nostri più consueti contenuti di intrattenimento. La moda non è arte, non è cultura? E la cultura, a mio avviso, è la congiunzione tra esperienza ed anima, che offre la possibilità di sfruttare i personali gusti e le emozioni. Il quinto punto è quello dell’internazionalizzazione: tutto il mio impegno sarà profilato verso una proiezione internazionale del contenuto editoriale, che dovrà essere universale. La cultura non richiede passaporto.

D. Dall’occhio della sua significativa esperienza internazionale – Buenos Aires, Madrid, Barcellona, Città del Messico – cosa vede eccellere in Roma?
R. Una cosa importantissima che posso definire in due parole: profondità e concetto, che costituiscono il vero valore aggiunto della cultura italiana a 360 gradi. Un esempio: Santa Cecilia, con più di un secolo di storia, rappresenta la musica classica e ne è la custode, e la cultura italiana costituisce la culla in cui è nato tutto e da cui tutto è partito, che ha influenzato il mondo intero distinguendosi per la profondità, la verità e la varietà. L’Opera è nata qui, ed è un mio impegno rispettare questo e, come sarà mio impegno, diffondere ancora di più le attività dell’Auditorium facendo comunicazione in ambito internazionale. A questo proposito stiamo parlando con il Conaculta, Consejo Nacional para la Cultura y las Artes de México, e con la Spagna per un interscambio di contenuti. Per dar seguito al quinto punto della mia gestione porterò avanti questi e altri scambi culturali.

D. Il taglio dei consiglieri che c’è stato, quindi il ritorno a cinque, ha prodotto molte polemiche, anche in ragione del fatto che il sindaco uscente potesse essere responsabile di non aver agito tempestivamente rispetto alla legge con una ordinanza di nomina. Cosa ne pensa?
R. In generale bisogna guardare alle cose da una prospettiva pratica: innanzitutto penso che un Consiglio formato da cinque persone sia più maneggevole, quindi va benissimo così. Ma non posso dire se in futuro sarà meglio o peggio l’aver modificato l’idea di avere in esso molte persone di elevata rilevanza nel panorama culturale italiano. Adesso posso solo affermare che mi impegnerò al massimo per stabilire una relazione con esse, perché il progetto che abbiamo è importante e quindi ho bisogno di tutto il supporto possibile. Dal punto di vista tecnico-giuridico la mia opinione non è importante, quello che penso è che necessitiamo di tutto questo talento e forza per prendere il cammino della redditività.

D. Come saranno coinvolti in questo i privati?
R. Questa è l’eterna battaglia: dobbiamo fare cultura senza redditività o dobbiamo invitare i privati? La cultura è cultura, non è né privata né pubblica. Posso promettere che i privati avranno un coinvolgimento molto significativo, perché dobbiamo trasformare i finanziamenti privati in cultura, sempre rispettando il principio di indipendenza finanziaria, di autonomia e di rispetto della linea editoriale dell’Auditorium.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Gennaio 2016




FIAIP: PAOLO RIGHI, NELL’IMMOBILIARE MOLTE SFIDE, ANCHE CONTRO ALCUNE BANCHE E TALUNI ENTI PUBBLICI

Paolo Righi,presidente nazionale della Fiaip. Un futuro professionale basato sulla formazione, la crescita e lo sviluppo di nuovi servizi, un timore relativo alla crescente digitalizzazione dei processi di vendita, la paura, molto più concreta che la professionalità dell’agente immobiliare possa essere penalizzata dall’ingresso di nuovi operatori nell’intermediazione rappresentati, in particolare, da due grandi banche.

Domanda. Come sta cambiando la professione e quali sono le nuove sfide e prospettive dell’agente immobiliare?
Risposta. Sono molteplici le sfide che la categoria sta affrontando. Otto anni di crisi del settore hanno cambiato profondamente il mercato immobiliare e il modo di «fare agenzia immobiliare». Oggi è necessario porre il cliente e le sue esigenze «al centro» della nostra attività, la vendita dell’immobile è quindi il punto finale di un’attività di consulenza. Per quanto riguarda l’ingresso dell’Unicredit Subito Casa e di Intesa San Paolo Casa nel campo delle agenzie immobiliari, la Fiaip è fortemente contraria. Non in termini concorrenziali, ma perché, a nostro parere, queste due banche per mezzo delle loro agenzie immobiliari, potrebbero «costringere» i loro clienti/correntisti a vendere i propri immobili in caso di problemi finanziari e potrebbero farlo decidendo prezzo e tempi della vendita immobiliare. Inoltre potrebbero mettere in atto un servizio preferenziale di accesso al credito per chi, dei loro clienti, accetti di servirsi della loro agenzia immobiliare. Da sempre il correntista è considerato parte debole nei confronti della banca, in questi casi la vita e il futuro di intere famiglie sarebbe nelle mani di questi istituti. La Fiaip ha presentato vari esposti sul tema, alla Banca d’Italia, all’Autorità garante della concorrenza e all’Organismo di vigilanza del credito. La concorrenza non si fa favorendo i grandi gruppi finanziari, la vera concorrenza è quella che vede tutti gli operatori del mercato combattere ad armi pari. In questo Paese, invece, viene spesso interpretata con lo spostamento di alcuni mercati dal professionista, alla grande impresa.

D. Negli ultimi anni vi siete battuti, in tutte le sedi istituzionali, per la riforma della legge professionale n. 39 del 1989 e avete scommesso con forza, a difesa dell’intera categoria contro l’abusivismo professionale. A che punto siamo con la modifica dell’articolo 348 del Codice penale che inasprisce le pene per chi esercita abusivamente la professione di agente immobiliare, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato? Si riuscirà ad approvare questa riforma già in questa legislatura? Saranno introdotte le sanzioni penali per coloro che esercitano abusivamente l’attività di mediazione ed operano nel comparto immobiliare, senza essere iscritti nel ruolo?
R. La modifica della nostra legge professionale, che inasprisce le sanzioni per gli abusivi, è stata approvata a larga maggioranza in Senato, ora giace da qualche mese alla Camera dei Deputati, purtroppo sembra che il Parlamento non comprenda che, per combattere l’evasione fiscale, la prima cosa da fare sia quella di contrastare gli evasori totali, e gli abusivi rientrano a pieno titolo in questa categoria. L’imponibile evaso dagli abusivi nel campo delle agenzie immobiliari ammonta a 450 milioni di euro. In un Paese che combatte veramente l’evasione vi sarebbe una lotta senza quartiere contro questi elementi invece, come sempre, vige la regola della pacca sulla spalla, tanti annunci e niente di concreto.

D. Ritiene inoltre che l’ingresso degli istituti di credito nell’intermediazione immobiliare possa configurarsi come un possibile caso di abusivismo professionale? Come Fiaip avete segnalato prontamente alla Banca d’Italia, all’Oam e all’Antitrust i rischi di una potenziale violazione del decreto legislativo numero 141 del 2010 negli eventuali casi di concentrazione, commistione e sovrapposizione tra attività bancaria e quella di intermediazione immobiliare. Perché oggi i consumatori dovrebbero essere preoccupati?
R. Le banche posseggono i dati patrimoniali di ogni cittadino, sono in possesso di tutti i loro dati sensibili, è logico poi che possano influenzare il correntista che si rivolge all’istituto per avere un finanziamento o perché bisognoso di un prestito, e imporgli le proprie scelte imprenditoriali. È il concetto di «banca universale» che è stato travisato: una banca può sì entrare nel capitale di un’impresa per farla crescere, ma non è pensabile che l’Unicredit e l’Intesa mettano in atto azioni per sostituirsi alle imprese stesse. La Banca Centrale Europea ha finanziato l’intero sistema bancario per favorire la concessioni di prestiti alle imprese e non per sostituirsi ad esse. L’Unicredit in particolare vende telefonini, biciclette, televisori e case, sembra chiaro che i negozianti di queste merci e i professionisti dell’immobiliare non saranno considerati da dette banche imprese da finanziare ma semplici concorrenti, con buona pace della libera concorrenza e della libertà di accesso al credito per i cittadini e le imprese.

D. Poi ci sono le liberalizzazioni. Quanto dovremo attendere per una vera politica per le professioni immobiliari? Siete soddisfatti di come sta andando il dibattito sulla nuova lenzuolata in Parlamento?
R. Il Disegno di legge Concorrenza approvato alla Camera dei Deputati arriverà in Senato molto presto. Vi sono provvedimenti che approviamo e altri che con la concorrenza non hanno nulla a che fare. Aprire la possibilità per le imprese di diventare socie di capitale di un gruppo di avvocati non è aprire alla concorrenza, ma è permettere alla grande industria di «finanziarizzare» la cultura forense del nostro Paese. Come abbiamo fatto alla Camera, anche in Senato cercheremo l’appoggio del Governo e di tutti i partiti politici per vietare alle banche l’ingresso nel mondo delle agenzie immobiliari.

D. Il settore dell’intermediazione immobiliare, dell’advisory e della valutation rappresenta sostanzialmente il cuore del futuro professionista immobiliare e di chi saprà offrire sempre più un’ampia gamma di servizi immobiliari competitivi sul mercato, ed una consulenza per tutto il ciclo di vendita dell’immobile. In Italia, sorgono sempre più di frequente nuovi modelli di reti territoriali, e sono proprio le agenzie immobiliari che decidono di consorziarsi, condividere e lavorare insieme. Infine, la vostra Federazione parla di «new economy dell’immobiliare»: di cosa si tratta?
R. In Italia si è costruito troppo, e a forza di nuove costruzioni abbiamo dimenticato il patrimonio esistente che è uno dei più vetusti del mondo. La nuova economia immobiliare deve forzatamente proporre nuove visioni del mercato immobiliare, volte all’efficienza energetica dell’usato e alla ricostruzione ex novo dei vecchi quartieri cittadini. Negli anni 60 si è costruito tanto e male, abbiamo bisogno di leggi che permettano l’abbattimento e la ricostruzione dell’usato e non il consumo del territorio. Anche gli agenti immobiliari sono impegnati su questa linea.

D. La legge di stabilità 2016 è una manovra espansiva che favorisce chi ha investito nell’immobiliare con lo scopo di ridare fiducia alle famiglie e ai cittadini, grazie alla riduzione dell’odiata Imu-Tasi sull’abitazione principale. Ma, oggettivamente, il provvedimento fa leva sul disavanzo, lasciando così in eredità la spada di Damocle di colossali aumenti fiscali con le clausole di salvaguardia spostate negli anni futuri. Che ne pensa?
R. I Governi Monti e Letta hanno distrutto il mercato immobiliare causando la perdita di 800 mila posti di lavoro. Per la prima volta, molto timidamente il Governo Renzi cerca di fare marcia indietro. Questo non può che farci piacere, speriamo vivamente che sia il primo passo per abbassare la pressione fiscale complessiva sugli immobili. Naturalmente fino all’approvazione della manovra vigileremo perché i quasi 5 miliardi di tasse derivanti dall’abolizione della Tasi, dell’Imu agricola e del prelievo sugli imbullonati, ossia sui macchinari fissi delle imprese, non vengano coperti con nuove tasse.

D. In Italia la riduzione della spesa pubblica sembra impossibile. Dalla manovra la spending review esce dimezzata. La Fiaip ormai da anni chiede l’abolizione di enti pubblici inutili come i Consorzi di bonifica e indica nei tagli alla spesa pubblica improduttiva la via maestra per abbattere il debito pubblico. Cosa può fare l’Esecutivo nel 2016 per rilanciare sempre di più gli investimenti e ampliare il potere d’acquisto delle famiglie e delle imprese?
R. Lo smagrimento della macchina pubblica è una delle vie da percorrere, è il caso dei Consorzi di bonifica, le cui funzioni sono necessarie per il mantenimento del territorio e per evitare eventi catastrofici, ma che nel tempo sono diventati degli «stipendifici» ed hanno perso il senso primario per cui sono nati. Chiudere i Consorzi significherebbe eliminare circa 110 consigli di amministrazione, le risorse risparmiate andrebbero all’assunzione di nuovi dipendenti e le funzioni potrebbero essere accorpate ad altro ente dello Stato. Su questa linea si potrebbe procedere anche per migliaia di aziende statali e comunali.

D. Dopo i primi timidi segnali, nel residenziale si può parlare di mattone in ripresa? Secondo l’Istat nel secondo trimestre di quest’anno l’andamento del mercato immobiliare ha segnato un aumento delle compravendite non solo nel residenziale e non solo nelle grandi città; questo dovrebbe far sperare in una ripartenza. Ritiene che il clima sia cambiato e che il mercato immobiliare possa davvero ripartire il prossimo anno? Ci può spiegare perché conviene acquistare ed investire in un immobile oggi nel nostro Paese?
R. Oggi i prezzi delle case sono quanto mai allettanti, sul mercato ci sono veri e propri affari, le banche hanno ripreso a concedere mutui, i tassi di interesse sono bassissimi, insomma ci sono tutte le condizioni per una ripartenza del mercato. La sola notizia dell’eliminazione della tassa sulla prima casa ha ridato slancio alla domanda. Quindi i primi timidi segnali di una possibile ripresa si stanno appalesando anche nelle nostre agenzie immobiliari. Per una vera ripresa dovremo aspettare il 2017, e se il Governo procederà in futuro ad un significativo taglio delle tasse sull’immobiliare, i miei auspici diverranno certezze.   (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Novembre 2011




7 SETTEMBRE: L’INDIPENDENZA DEL BRASILE DAL PORTOGALLO LUNGO UN CAMMINO DI SCHIAVITÙ E SANGUE

Il 22 aprile del 1500 Pedro Alvares Cabral avvistò terra: era l’attuale Santa Cruz de Cabràlia, nello Stato nordestino di Bahia. Il Brasile non era affatto una meta accattivante: abitata da indigeni, e non v’erano dichiarati propositi colonialisti da parte degli europei, sebbene quel territorio fosse stato già spartito tra Spagna e Portogallo, ancor prima della sua scoperta ufficiale quando, con il trattato di Tordesillas (7 giugno 1494), i due iberici definivano la frontiera che divideva il continente brasiliano da Nord a Sud, dall’attuale stato di Parà fino alla città di Laguna (modificata in seguito con l’espansione portoghese ad Ovest). Allo sbarco di Cabral l’intento era mite: si intendeva popolare le Americhe ed usare le terre brasiliane come base per il commercio con le Indie, l’impresa di navigazione puntava sugli scambi con i prodotti locali. Era necessario capire come.

L’occupazione vera e propria inizia comunque, sebbene 32 anni dopo, con la fondazione nello Stato di San Paolo di Vila de São Vicente, che è nel guinnes dei primati come la «cidade mais velha do Brasil»: nel 1531 il re del Portogallo João III inviò in Brasile i coloni con Tomé de Sousa, primo governatore generale. I portoghesi trovarono un popolo ingenuo (che li accolse prima di doverli odiare) privo di organizzazione militare che poterono assoggettare con facilità più che con destrezza e, in base al vecchio Trattato di Tordesillas integrato da quello di Saragozza del 1529, il nuovo territorio entrò ufficialmente a far parte della zona d’espansione territoriale del Portogallo. Risale al 1533 la prima struttura politica ed amministrativa brasiliana, basata sulle «capitanias», come volle re João III, concessioni terriere di tipo feudale date dal sovrano a nobili che, in cambio di un tributo, ottenevano pieni poteri sulla terra; ciò però implicava anche indipendenza di interessi presso ogni capitanato (ve n’erano 12), che di fatto era una comunità separata dalle altre, per tale ragione non attenta al commercio e alla difesa del Paese dagli interessi stranieri. Il re ritenne, per ovviare a questa dispersione, di fondare un potere centrale, nominando un governatore generale: il 29 marzo 1549 fu fondata la capitale, Salvador.

Fu allora che l’accoglienza brasiliana si tradusse in ostilità e nel conflitto bianchi-neri: da una parte i portoghesi costringevano gli oriundi a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, dall’altra la tratta degli schiavi fece giungere dall’Africa più di 4 milioni di neri. Contro le barbarità i preti gesuiti costruirono «reducciones», villaggi di civilizzazione e difesa contro le razzie dei coloni portoghesi e spagnoli, in cui i missionari accoglievano i fuggiaschi ed insegnavano la fede cristiana. Intanto gli schiavi si rifugiavano nelle regioni dell’interno più inaccessibili dove si organizzavano in «quilombos», il più emblematico dei quali è il quilombo di Palmares – comunità autonoma, regno o repubblica secondo alcuni – che occupava una vasta area, grande quasi quanto il Portogallo, nella zona nordorientale del Brasile, tra gli odierni Stati dell’Alagoas e Pernambuco, e che arrivò a contare 30 mila abitanti. Ancora oggi questo quilombo è il simbolo della resistenza degli africani alla schiavitù, così come lo è Zumbi dos Palmares.

Quando giunsero le navi della Compagnia Olandese delle Indie Occidentali nel Pernambuco, fu destabilizzato il mercato della canna da zucchero e facilitata la fuga degli schiavi per contrastare il Portogallo. Ma l’Olanda riuscì a prendere solo la città di Olinda e fu proprio a Palmares che gli olandesi puntarono, nel 1644, per tentare un’alleanza antiportoghese: primo tentativo olandese di conquistare le terre brasiliane ad onta della bolla papale «Ea quae pro bono pacis» del 1506 e del Trattato di Tordesillas che la stessa proteggeva, secondo cui alle nazioni europee differenti da Portogallo e Spagna che conducevano esplorazioni era negato l’accesso alle nuove terre, lasciandosi loro unicamente opzioni come la pirateria. Francesi ed olandesi provarono ad insediarsi, saccheggiarono Bahia, addirittura i secondi conquistarono temporaneamente la capitale e dal 1630 al 1654 si stabilirono nel Nordeste fondando la colonia di Nuova Olanda, padroneggiando una lunga striscia della costa più accessibile dall’Europa e controllando l’interno. Ma dopo anni di guerra aperta con i portoghesi gli olandesi si ritirarono, nel 1661.

Nel 1678 il governatore della Capitania de Pernambuco, stanco del lungo conflitto col quilombo de Palmares, si riappacificò col leader di Palmares, Ganga Zumbi, ed offrì la libertà a tutti gli schiavi fuggitivi a condizione che il quilombo si sottomettesse all’autorità portoghese; la proposta venne accettata ma Zumbi, sospettoso e contrario ad accettare la libertà solo per il quilombo mentre gli altri neri del Brasile rimanevano in stato di schiavitù, spodestò Ganga Zumbi divenendo il nuovo leader di Palmares, che invece soccomberà ai portoghesi nel 1694, dopo 94 anni di esistenza. Zumbi, tradito e denunciato da un vecchio amico, sarà localizzato, catturato e decapitato a 40 anni, per divenire eroe e martire. Ma l’insofferenza contro il dominio europeo si era ormai diffusa, oltre che nei quilombos e tra gli oppressi, anche nelle élite creole – strati benestanti di popolazione nata in America da genitori europei, molti dei quali iberici – che la cultura illuministica e le rivoluzioni americana e francese influenzavano.

Il Brasile, un secolo più tardi, giunse all’indipendenza senza una vera e propria lotta di liberazione nazionale, senza un vero e proprio (finale) spargimento di sangue, bensì per una decisione della famiglia regnante. Infatti, nel 1807 Napoleone invase il Portogallo marciando su Lisbona e il principe (futuro Pedro I), scortato dall’esercito britannico che fornì la protezione navale al viaggio, fuggì in Brasile giungendo a Rio nel 1808 e proclamandola capitale del Regno Unito di Portogallo. Il Brasile aprì i propri porti ed escluse lo status di colonia, provocando le ire di molti; così nel 1821 il re decise di rientrare a Lisbona e di lasciare il figlio Pietro come reggente del Brasile. Quest’ultimo, nonostante le pressioni dei liberali per tornare in patria, rimase (nel cosiddetto «Dia do Fico», ossia giorno dell’«io resto») e il Portogallo non poté più dominare il Brasile. Pietro I, istituendo una monarchia costituzionale, ne dicharò l’indipendenza il 7 settembre 1822 al grido di «Indipendenza o morte!», sulle rive del fiume Ipiranga.

Nelle negoziazioni del Congresso di Vienna, al Brasile fu data inizialmente condizione di regno all’interno dello Stato portoghese. Il Portogallo assunse la denominazione ufficiale di Regno Unito di Portogallo, Brasile e Algarve il 16 dicembre del 1815 (Gazzetta di Rio de Janeiro del 10 gennaio 1816), status che venne perso il 29 agosto 1825 dopo la ratificazione del Trattato di Rio de Janeiro siglato alla fine della Guerra d’Indipendenza del Brasile.

Il reggente João VI diveniva Imperatore Titolare del Brasile de jure, e simultaneamente abdicava in favore del figlio Pedro de Alcântara (Pedro I do Brasil), giuridicamente allora Principe Reale di Portogallo, Brasile e Algarve, già imperatore de facto del Brasile: in questo modo, alla morte del padre, avrebbero potuto eventualmente unirsi le due corone. Il Brasile aveva intanto, simultaneamente, un imperatore e un re (1822-1826) e due imperatori (1825-1827). Nel 1831 il regno passò a soli 5 anni a Pietro II, che dopo 9 anni di reggenze fu acclamato imperatore nel 1840, a 14 anni. Il suo regnò durò fino al 1889, quando fu rovesciato da un colpo di Stato che istituì la repubblica. Nel 1888, dichiarò l’abolizione della schiavitù.    (ROMINA CIUFFA)

Il 7 settembre il Brasile celebra l’indipendenza dall’incubo lusitano: colonialismo, corte e schiavismo che non fecero bene a un Paese che Paese ancora non era, bensì una terra totalmente vergine dalle dinamiche europee di conquiste e ricchezza, a scapito di un territorio e di una popolazione accoglienti. È istituita festa nazionale ma, mutata mutandis, la giornata del 7 settembre non è, per la popolazione, motivo di festeggiamenti, bensì occasione di protesta mentre il presidente Dilma Rousseff, vestita di bianco e con la fascia presidenziale, sfila a bordo della Rolls Royce cabrio ufficiale in testa al corteo di Brasilia, alla presenza di circa 25 mila persone. E lancia alla popolazione un videomessaggio, che traduciamo interamente.

Non senza anticipare ciò che Dilma ha fatto: non ha parlato di nulla, ha spostato il baricentro delle responsabilità del Paese prima al di fuori del Paese stesso (la crisi internazionale, i drammi dei Paesi emergenti, i rifugiati sulle spiagge europee) addirittura cogliendo l’occasione per invitarli a recarsi in Brasile, ove saranno accolti (ma come?); quindi spostando il medesimo baricentro in una visione autoattribuente, con un locus of control interno del tipo «il problema è dentro di noi». In un discorso nel quale si fa retorica senza empatia e dove sono presenti molte ripetizioni e scarsa capacità linguistica e comunicativa, accompagnato, per di più, da stacchetti di forte impatto, stile Casa Bianca, che aprono ciascuno dei paragrafi in cui esso è stato distinto. «Casa verdeoro».

L’avvocato e politico Flavio Bierrenbach, per anni ministro del Tribunale militare, ha commentato altri discorsi della Rousseff: «Seguo la politica brasiliana attentamente da sempre. Ho già visto nella mia vita presidenti che sono buoni oratori, cattivi oratori, mediocri oratori: non ho avuto alcuna sopresa dinnanzi a quello che è quasi un caso di dislessia, incapacità di formulare un’idea con inizio, discorso e conclusione, incapacità di comunicare qualcosa. La presidentessa brasiliana non sa comunicare. Dovrebbe leggere. Risulterebbe più semplice, più intelligente per se stessa e per i suoi discorsi». Mentre, per lo storico Leandro Karnal: «Non è necessario sapere di tutto, o parlare di tutto: il silenzio è meglio in certi casi e crea un’utile illusione di conoscenza sullo spettatore».

La traduzione è effettuata senza apportare modifiche al discorso, mantenendo anche le ripetizioni. (ROMINA CIUFFA)

DILMA ROUSSEFF. «Cari brasiliani e brasiliane, voglio parlarvi oggi, 7 settembre, giorno dell’indipendenza del Brasile, come un momento per riflettere, parlare delle nostre preoccupazioni sul presente ed il futuro del Paese. È vero che attraversiamo una fase di difficoltà, affrontiamo problemi e sfide, e so che la mia responsabilità è quella di presentare percorsi e soluzioni per fare ciò che deve esser fatto. I problemi e le sfide derivano da un lungo periodo di azioni di un Governo che ha compreso di dover spendere ciò che è necessario per garantire impiego, continuità di investimento, programmi sociali. Dobbiamo ora rivalutare tutte queste misure e ridurre quelle che devono essere ridotte. I nostri problemi vengono anche da fuori, e nessuno che sia onesto può negarlo: è evidente che la situazione in molte parti del mondo si è nuovamente aggravata per la crisi internazionale, colpendo ora i Paesi emergenti, Paesi importanti, anche partner del Brasile. Il mondo, oltre a questo, affronta tragedie di natura umanitaria, come quella scioccante dei rifugiati che muoiono nelle spiagge europee mentre cercano rifugio dalla guerra. L’immagine di un bambino di appena tre anni ha commosso tutti noi e ci ha posto una grande sfida».

«Noi, il Brasile, siamo una nazione formata da popolazioni delle più diverse origini che qui vivono in pace. Anche nelle più grandi difficoltà, o in crisi come quella che stiamo attraversando, abbiamo le braccia aperte per accogliere i rifugiati. Colgo l’occasione, nel giorno di oggi, per rinnovare la nostra disponibilità ad accogliere coloro che, espulsi dalla propria patria, vogliano venire qui a vivere, lavorare e contribuire alla prosperità e alla pace del Brasile».

«Insisto: le difficoltà sono nostre, e sono superabili. Ciò che voglio dire, con tutta franchezza, è che stiamo attraversando sfide. È possibile commettere errori, ma li supereremo e andremo avanti. Ecco alcuni rimedi a questa situazione: è vero, sono amari, ma indispensabili. Le misure che stiamo adottando sono necessarie per risistemare la nostra casa, ridurre l’inflazione ad esempio, rafforzarci dinnanzi al mondo, e condurre il Brasile nel più breve tempo possibile alla ripresa della crescita. Possiamo e vogliamo essere esempio per il mondo, esempio di crescita economica e di valorizzazione delle persone. Lo sforzo di noi tutti è quello che ci porterà a superare questo momento. Io lo so. E so anche che l’unione intorno al nostro Paese e al nostro popolo è la forza capace di condurci lungo questo viaggio. È il momento, questo, in cui dobbiamo sorvolare le differenze minori e mettere in secondo piano gli interessi individuali o di parte. Mi sento pronta a condurre il Brasile sul cammino di un nuovo ciclo di crescita, ampliando le opportunità che il nostro popolo ha per andare avanti con più e migliori impieghi. Noi vogliamo un Paese con inflazione sotto controllo, interessi decrescenti, rendite e salari alti. Posso garantire che nessuna difficoltà mi farà rinunciare all’anima e al carattere del mio Governo, che consistono nell’assicurare, in questo Paese di grandi diversità, opportunità uguali per la nostra popolazione, senza battute d’arresto, senza retrocessioni».

«Noi siamo stati capaci di tirare fuori dalla miseria milioni di persone ed elevarne altri milioni ai canoni di consumo delle classi medie. Cresceremo di nuovo per avanzare ancor di più in questo cammino, costruendo un Brasile di lavoratori e imprenditori, di studenti, di esperti nell’agricoltura, nel commercio, nell’industria, nei servizi. Ma sappiamo che ancora manca molto per ottenere questo e perciò abbiamo bisogno di tornare a crescere, per portare, ad esempio, educazione di qualità a tutta la popolazione, dall’asilo al dottorato. Abbiamo esperienze vincenti e voglio contare su una grande vittoria: abbiamo appena vinto il primo posto nelle Olimpiadi mondiali della conoscenza tecnica, cui hanno partecipato 59 Paesi, molto forti nella formazione professionale come la Germania, la Corea del Sud, il Giappone, la Francia. La buona notizia è che l’84 per cento dei vincitori avevano fatto o stavano per fare il Pronatec (il Programma nazionale di accesso all’insegnamento tecnico e all’impiego, ndr), un accordo tra il Governo e il Senai (Servizio nazionale di apprendimento industriale, ndr), che conferisce borse di studio per la formazione tecnica, e vorrei sottolineare che la famiglia di uno dei vincitori della medaglia d’oro ha ricevuto anche la Bolsa Família, che gli ha consentito di accedere alle Olimpiadi».

«Cari brasiliani, care brasiliane, il giorno dell’indipendenza deve essere un momento di incontro del Brasile con se stesso, una celebrazione e un tributo che prestiamo agli eroi che hanno lottato per un Brasile forte, libero, indipendente. È in questo giorno che dobbiamo pensare che Paese vogliamo per noi e per i nostri figli e nipoti. È in questo giorno che onoriamo gli eroi dell’indipendenza, che rendiamo omaggio a tutti i brasiliani che hanno lottato e dato la propria vita affinché il nostro Paese restasse sempre libero dall’oppressione».

«È in questo giorno che riaffermiamo quello che una nazione e un popolo hanno di meglio: la capacità di lottare e la capacità di convivere con la diversità, tollerante nei confronti delle differenze, rispettoso nella difesa delle idee, e soprattutto ferma a difendere la miglior conquista raggiunta e che dobbiamo garantire permanentemente: la democrazia e l’adozione del voto popolare come metodo unico e legittimo di eleggere i nostri governanti e rappresentanti».

«L’indipendenza, cari brasiliani e brasiliane, accade ogni giorno nel Paese, nelle nostre case, nelle nostre famiglie, dentro ognuno di noi. È la forza nella nostra autostima come popolo e la certezza che i brasiliani sono ciò che il Brasile ha di meglio, con il nostro lavoro, la nostra unione, il nostro sforzo per mantenere le nostre famiglie e creare i nostri figli e nipoti, con l’allegria con cui passiamo i buoni momenti ed il coraggio con cui affrontiamo quelli brutti. Siamo tutti in lotta per l’indipendeza del Brasile. Oggi, più che mai, siamo tutti il Brasile».  (ROMINA CIUFFA)

In Italia quest’anno l’Ambasciata brasiliana, con sede a Roma nel Palazzo Pamphilj di Piazza Navona, ha invitato a festeggiare il 193esimo anniversario attraverso un ricevimento privato tenutosi l’8 settembre. Rioma lo ha documentato. L’ambasciatore Ricardo Neiva Tavares ha accolto, insieme alla moglie Cecilia, gli ospiti. Pur mancando un momento culturale, una tavola rotonda che spiegasse cosa sia l’indipendenza per un brasiliano, cosa è accaduto e come si è arrivati a quel 7 settembre in cui il re portoghese stesso ha liberato il Brasile dal Portogallo, l’evento è risultato, come ogni anno, il momento di incontro di moltissimi personaggi che ruotano intorno all’area verdeoro, intorno a caipirinha, pão de queijo, brigadeiros e beijinhos. Presente innanzitutto l’Ambasciatore del Portogallo in Italia, Manuel Lobo Antunes, accreditato anche presso l’Albania, Malta e la Repubblica di San Marino e, come Rappresentante permanente, presso le organizzazioni delle Nazioni Unite con sede a Roma (Fao, Ifad e Wfp/Pam). La sua partecipazione significa molto e infonde all’evento un afflato di storia e resurrezione.

L’apertura di Palazzo Pamphilj, appartenuto dal 1470 alla famiglia Pamphilj, completamente rinnovato dal Cardinale Giovanni Battista Pamphilj che, dal 1644, chiamò i più importanti artisti e architetti dell’epoca, come Bernini e Borromini per riprogettare l’intero isolato, è sempre un momento importante, che coniuga la storia, l’arte e l’architettura italiane con l’insediamento brasiliano: l’edificio infatti, ospita dal 1920 questa Ambasciata, ed è diventato una proprietà brasiliana nel 1961. (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Ottobre 2015




STEFANO MASTRUZZI: SAINT LOUIS, LA DOMUS ROMANA DELLA MUSICA DAL 1976, ANZI, DAL 123 D.C.

Stefano Mastruzzi è uno dei più geniali e riusciti (ma giovani) imprenditori italiani. Non ha visto crisi perché l’ha contrastata a suon di jazz che è, per definizione, improvvisazione: mentre altri chiudevano, lui ha rischiato, investito. Ciò che lo rende ancora più speciale è l’essere chitarrista e direttore d’orchestra e l’aver amato a tal punto la musica da renderla non solo emozionale, ma anche pragmatica. Anche laureato in Giurisprudenza ed editore di un giornale, «Music In», oggi apre la quarta sede del suo Saint Louis College of Music, nel cuore del Rione Monti di Roma, integrando le 3 già esistenti con 18 nuove aule per un totale di 50 aule e 3 studi di registrazione. Appartenente precedentemente a un artista, prima che Mastruzzi l’acquistasse, la nuova sede è ricca di disegni nelle pareti che la ristrutturazione volutamente non ha cancellato. Ma non è questa l’unica particolarità: durante il recupero degli ambienti sotterranei, nell’area delimitata da Via Baccina e Via del Grifone, sono state riportate alla luce strutture murarie antiche. È riemersa così un’antica Domus romana, risalente al 123 d.C., visibile anche dalle aule dove è stata valorizzata con vetri a vista e senza mai collidere con la storia.

Si apre in tal modo il quarantesimo anno accademico, nello slogan «40 ben suonati»: fondato nel 1976, il Saint Louis, prima e unica istituzione privata in Italia autorizzata dal Miur a rilasciare lauree di primo e di secondo livello, è fra le più rinomate realtà didattiche musicali di eccellenza di respiro europeo, con oltre 1.600 allievi ogni anno provenienti da tutta Italia e da molti Paesi europei ed extraeuropei, in crescita costante del 6-8 per cento annuo. Dal 1998 è diretto da Mastruzzi, che l’ha rilevato, e fino a oggi  l’evoluzione è stata straordinaria: dai 90 iscritti del 1998 ai 1.600 del 2015; dall’unica sede (quella storica ancora attiva in Via Cimarra) alle 4 sedi di oggi, site in Via Urbana (400 metri quadrati), Via del Boschetto (500 metri quadrati), Via Baccina (800 metri quadrati). Il corpo docente è cresciuto da 16 a 110 docenti professionisti. Sono stati prodotti 24 dischi dal 2004, anno di nascita della prima etichetta, la Jazz Collection, seguita da una seconda, Urban 49, e da una terza, Camilla Records. Sono stati pubblicati 10 libri didattico-divulgativi, e in stampa, entro la fine del 2015, ce ne sono altri 12. E ancora: Radio Jazz Saint Louis, web radio diretta da Adriano Mazzoletti, che propone 24 ore di jazz al giorno dal lunedì al venerdì con programmi che riguardano l’intero arco del jazz dalle origini ad oggi; un Centro di produzione artistica; un’agenzia, il Saint Louis Management; i nuovi corsi «Musica nel mio piccolo» per bambini dai 3 ai 5 anni, e molto altro.

Domanda. Cos’è il Saint Louis e come ha fatto a divenire la più grande scuola di musica e fucina di artisti d’Italia?
Risposta. Il Saint Louis non è una scuola di musica, c’è ben altro e non lo si può spiegare, ma solo cogliere e percepire; osservando gli allievi seduti nei corridoi con le chitarre in braccio e una progressione armonica da inseguire, sbirciando nelle aule dove prendono vita le orchestre, ascoltando le produzioni discografiche delle nostre etichette, guardando alle 100 band che ogni anno qui nascono e portano fuori la propria musica, partecipando alle decine di master class con personaggi straordinari, lasciandosi ipnotizzare dai suoni destrutturati di giovani votati alla musica elettronica e al sound design, vivendo un cortometraggio musicato, orchestrato e diretto da compositori in erba, scattando negli studi del Saint Louis un’istantanea di fonici con mani tentacolari su decine di potenziometri, ascoltando la radio del Saint Louis o semplicemente i suoni ovattati che dalle aule sfuggono con destrezza alle trappole acustiche e si diffondono nelle strade del rione Monti. Il Saint Louis è un progetto dinamico, spinto costantemente da un vento teso di rinnovamento, alla ricerca di un’impossibile perfezione, vissuta ora sistemando la punteggiatura di un programma didattico, ora stravolgendolo completamente, ogni qualvolta si ravvisino cambiamenti di rotta nel mondo del lavoro. Perché, per etica, non possiamo, non vogliamo e non dobbiamo formare professionisti di una professione che fu, ma di quella che sarà.

D. Come considera la formazione?
R. La formazione di un ragazzo esige una responsabilità immediata che travalichi logiche politiche, sindacali, imprenditoriali, di interesse pubblico o privato; non possiamo permettere che le legittime ambizioni artistiche di un giovane possano venire mortificate e compromesse da un insegnante demotivato, da un docente che vinca ai punti il proprio ruolo, da un musicista che abbia appeso le corde al chiodo il giorno dopo essere stato assunto. Tutti noi, che oggi siamo il Saint Louis, inconsapevolmente continuiamo a trasmettere ai nostri giovani allievi tutta l’energia, il coraggio e il sogno musicale che abbiamo condiviso con Maurizio Lazzaro e Alessandro Centofanti.

D. Quali sono i corsi Saint Louis?
R. I corsi accademici di primo livello autorizzati e attivati sono molteplici. È anche attivo il corso di secondo livello in Composizione e arrangiamento Jazz, che rappresenta il livello più alto di formazione accademica, equivalente alla laurea specialistica, il primo in Italia con combo e orchestra a disposizione per l’esecuzione e la pratica di direzione delle proprie partiture. I contenuti spaziano da tecniche armoniche a tecniche compositive e di strumentazione, arrangiamento per piccole formazioni, per big band, per archi e formazioni miste. A partire dal corrente anno, sono stati inoltre autorizzati 6 Master di primo livello in Big Band per musicisti d’orchestra; Music Management, ossia alta formazione per futuri manager dello spettacolo con i migliori promotori italiani e internazionali di ambito pop, jazz e indie; Film Scoring, una specializzazione in musica per film con i grandi compositori nazionali; Contemporary Jazz; Popular Music e Musica elettronica.

D. L’internazionalizzazione è la punta dell’iceberg Saint Louis?
R. Grazie alla sua posizione geografica e la centralità all’interno della Capitale, il Saint Louis costituisce una naturale meta d’interesse per allievi internazionali che vogliano svolgere parte dei propri studi in Italia ma anche per artisti in visita e docenti di musica dei vari Conservatori europei: hanno partecipato alle ultime selezioni per l’ammissione studenti provenienti da Italia, Spagna, Francia, Polonia, Romania, Russia, Bulgaria, Gran Bretagna, Iran, Messico, Azerbaijan, Georgia. Partendo da una ferma convinzione dell’importanza del processo di internazionalizzazione ai fini della valorizzazione e della qualificazione delle attività formative, artistiche e di ricerca, abbiamo intrapreso da lungo tempo una politica di apertura verso l’Europa ed il resto del mondo, promuovendo attivamente progetti di collaborazione con istituti internazionali di Alta formazione artistica, con programmi di scambio per studenti e docenti, master class e workshop intensivi tenuti da artisti in visita, ed anche un nostro concorso internazionale di jazz che coinvolge 15 diverse nazioni, il Jazz Contest. Dal 2011 il Saint Louis è membro attivo dell’Aec, l’Association Européenne des Conservatoires, credendo nell’importanza del confronto su base internazionale con istituzioni di formazione di pari livello e ambito, e nel 2014 gli è stata riconosciuta la Eche, ossia l’Erasmus Charter for Higher Education, venendo ufficialmente inserito nella partecipazione attiva al programma comunitario Erasmus+. Ciò ha consentito di intensificare i programmi di scambio per studio, tirocinio, docenza o formazione in altri istituti e in aziende del settore, cui siamo collegati anche attraverso il Consorzio Working With Music+, progetto interamente dedicato all’inserimento lavorativo post-lauream in aziende e istituti di formazione europei. L’anno accademico 2015/2016 poi si apre all’insegna di un nuovo importante progetto, l’Italian Jazz on the Road, festival europeo itinerante ideato e promosso da noi ed un supporto del MiBact, che porterà 40 giovani musicisti italiani selezionati fra i nostri migliori talenti in tour europeo, da Roma a Helsinki, Londra, Barcellona, Maastricht, Aalborg, per un totale di 30 concerti. Abbiamo inoltre inaugurato due nuove progetti rivolti agli studenti internazionali: il Richmond Program, in collaborazione con la Richmond University di Roma, per il completamento artistico della formazione degli studenti americani, e il Programa Conexão Cultura Brasil, in collaborazione con il Governo brasiliano per l’incentivazione della formazione di studenti brasiliani in condizioni socio-economiche svantaggiate. A proposito di Brasile: oltre alla presenza, da sempre tra i nostri docenti, del grande chitarrista samba-jazz Eddy Palermo, all’interno della scuola è stato attivato un coro di musica brasiliana, il Coro di Rioma, fondato da Romina Ciuffa e diretto dalla cantante soteropolitana Claudia Marss (www.riomabrasil.com).

D. Il Saint Louis è anche una grande agenzia che rappresenta i migliori artisti in circolazione da una parte, e i suoi allievi più brillanti dall’altra. Cosa fa esattamente il Saint Louis Management?
R. L’agenzia artistica si occupa di inserire i migliori diplomati nel mondo del lavoro attraverso produzioni, concerti, dischi e pubblicazioni, un raccordo fondamentale tra il momento formativo e quello lavorativo. Ogni anno il Saint Louis Management promuove i giovani talenti con più di 250 concerti in tutta Italia, li porta al Lab on the Road, salotto musicale romano che dà spazio a tutti i gruppi nati all’interno dei corsi, li inserisce nelle programmazioni di club e festival su territorio nazionale, organizza i Summer e Winter Gigs, vere e proprie maratone stagionali sui palchi più prestigiosi; fa partnership con i Conservatori europei attraverso molte iniziative; consente di compiere tirocini formativi all’estero, veri e propri inserimenti lavorativi in altri istituti di Alta formazione artistica per docenze, ricerche o assistenza; inserisce nel mondo del lavoro, da produzioni televisive o cinematografiche a studi di registrazione, club e scuole di musica. Il Saint Louis Management inoltre seleziona ogni anno all’interno del nostro vivaio artisti o gruppi da produrre tramite le 3 etichette indipendenti: Urban 49 per il pop e il rock, Jazz Collection e Camilla Records, quest’ultima che prende il nome da mia figlia e comprende un misto di generi.

D. E il Centro di produzione artistica?
R. Il Centro segue, produce e promuove i progetti più interessanti individuati all’interno della scuola stessa, affiancandoli in ogni singola fase di crescita. Entrato a far parte del Centro di produzione artistica, il giovane musicista viene assistito in tutte le fasi: dalla creazione di un gruppo che possa eseguirne i brani, all’affiancamento di un tutor con cui confrontarsi nella stesura del brano, nell’arrangiamento e nell’interpretazione, per proseguire con sedute in studio di registrazione che si trasformano infine nella realizzazione di un cd, pubblicato e promosso. Tutti gli studenti degli ultimi due anni di Alta formazione partecipano alla realizzazione delle proprie pubblicazioni editoriali, un cd o vinile che rappresenta il sunto del loro lavoro e un biglietto da visita per il futuro.

D. Nel prossimo febbraio 2016 sarà avviato anche il progetto di musicoterapia?
R. La musicoterapia rappresenta una delle nuove sfide per il Saint Louis, che userà parte dei nuovi spazi per l’attuazione di un progetto dalla forte ricaduta sociale. Il nuovo Dipartimento ospiterà sedute di musicoterapia, anche gratuita per fasce di reddito, per formare musico-terapisti, svolgere ricerca in collaborazione con le università italiane. Musicoterapeuti qualificati e di fama lavoreranno all’interno dell’Istituto, permettendo agli studenti di assistere alle terapie e di confrontarsi per creare nuovi spunti di riflessione e di contatto e tenendo corsi qualificanti per futuri musicoterapeuti. Il progetto prevederà l’attuazione di diverse terapie, molte a titolo gratuito per i pazienti perlopiù bambini e adolescenti, di cui copriremo interamente le spese annuali.

D. È pronto anche il progetto di recupero e diffusione del patrimonio musicale italiano del ‘900: come sarà attuato?
R. Sosterremo con nostri fondi 3 orchestre stabili, per un totale di 50 musicisti e 3 direttori d’orchestra che eseguiranno repertori tratti dalle colonne sonore di Mario Monicelli, le partiture originali di Enrico Pieranunzi, la musica tradizionale napoletana. Le orchestre, composte da giovanissimi talenti, si esibiranno nei Conservatori europei esportando un repertorio tratto dal patrimonio culturale musicale italiano, dai primi del ‘900 ai giorni nostri. Il progetto coinvolge anche 25 giovani arrangiatori che avranno il compito di recuperare e arrangiare questo vasto repertorio, un’occasione di studio applicato a situazioni lavorative reali.

D. La nuova sede è preziosa per tutto ciò che è il Saint Louis, ma è inestimabile per la Domus romana del I secolo che si cela sotto le sue mura: un pezzo della storia di Roma e una vera e propria responsabilità: qual è il suo progetto per il recupero e la valorizzazione di un bene storico di tale levatura?
R. Ho avviato il recupero della Domus romana al fine di renderla fruibile agli studiosi e al pubblico. È un grande patrimonio risalente al I secolo d.C. ricco di mosaici, mura ottimamente conservate e persino un affresco. Lungo Via del Grifone si susseguivano una serie di ambienti riconducibili a strutture commerciali e magazzini posti al pian terreno di un grande edificio, verosimilmente una delle insule che le fonti antiche ci ricordano caratterizzare quest’area della Suburra. Le stanze, che si sviluppavano parallele all’asse stradale di Via Baccina, presentano sulle pareti in opera laterizia tracce delle porte e delle finestre obliterate da interventi successivi. La copertura, con volte a botte, è scomparsa, ma le sue tracce si conservano sulle pareti più interne. Negli ambienti adiacenti si riconoscono invece strutture con funzione abitativa di un certo pregio, risalenti all’età antonina. Una grande stanza rettangolare, coperta con volta a botte e con ampie aperture sulle pareti lunghe, conserva ampi tratti della pavimentazione musiva originale ad esagoni bianchi e rombi neri alternati, mentre si conservano in situ alcune formelle. In un secondo ambiente, con pavimento a mosaico a scacchi in bianco e nero, risaltano partiture con motivi decorativi floreali e la figura di un piccolo uccello. Dall’analisi dei mattoni impiegati per la costruzione della rete fognaria originale, si è riscontrato una sorta di «marchio di fabbrica» indicante, oltre al produttore, anche il nome dei Consoli in carica, ossia Paetino e Aproniano. Questa indicazione consente di definire l’anno esatto di produzione: il Consolato del 123 d.C., ma ovviamente avremo certezze una volta terminati gli studi da parte della Soprintendenza archeologica.       (ROMINA CIUFFA)

Dario Franceschini, ministro dei Beni e delle Attività culturali e del turismo, è in prima linea rappresentando le istituzioni e inaugurando, con Stefano Mastruzzi, la quarta sede del Saint Louis College of Music di Via Baccina, a Roma, il 24 settembre 2015, un evento non classico nel quale tutte le aule si riempiono di concerti, jam session, improvvisazioni, in un trionfo di qualità. Tra i nuovi, tra i jazzisti, tra i moderni, tra i classici, anche Bobby Solo, che si ferma in una saletta e improvvisa con il chitarrista Marco Manusso un concerto che è apprezzato anche dalla direttrice del Maxxi Giovanna Melandri. Avuta a mente la fresca legge 13 luglio 2015, n. 107, «La Buona scuola», alcuni punti della quale riguardano specificamente l’alta formazione musicale (uno per tutti: i fondi per il funzionamento amministrativo e didattico delle istituzioni statali dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica sono incrementati di 7 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2015 al 2022); e la generica raccomandazione legislativa al Governo di occuparsi dell’armonizzazione dei corsi formativi di tutta la filiera del settore artistico-musicale, l’incontro è stato anche un’occasione per ascoltare il ministro Franceschini descrivere le intenzioni proprie e del Governo.

«Ricordo i dischi jazz di mio padre. Sono a lui grato per avermi fatto conoscere il jazz da piccolo attraverso Radio Elle, quando andavo a fare un’ora di jazz a Ferrara con un mixer di latta costruito artigianalmente in casa. Si è perso molto tempo per capire che il jazz italiano è un punto di riferimento europeo fatto di grandi maestri e di tanti giovani talenti che combattono le difficoltà insite nella sfida di far diventare la propria vocazione un lavoro. Spesso ci riescono, ma fuori dai nostri confini nazionali. Dobbiamo compiere un grande investimento, che è insito anche in quella sfida su cui io insisterò giorno per giorno finché avrò questa responsabilità: riuscire ad affiancare la contemporaneità al ruolo primario che ci ha dato la storia, quello di tutelare e valorizzare il patrimonio materiale e immateriale delle generazioni che ci hanno preceduto. È importante aver centrato la prima occasione di riconoscimento da parte del Miur dell’equipollenza del titolo accademico nel settore del jazz e della musica moderna: per noi è stata una grande richiesta, difficile e faticosa, che ha necessitato di tempo, e il nostro percorso è servito anche al sottoscritto per portare all’approvazione del Parlamento una norma che riconosce un percorso per ottenere l’equipollenza delle scuole che fanno riferimento ai beni culturali. Con una visione burocratica si poteva immaginare che una scuola che si occupa di danza, musica o letteratura potesse avere gli stessi parametri che servono alle altre scuole; abbiamo così approvato una norma che legittima i Ministeri Miur e Mivar a stabilire per decreto i criteri per cui le scuole che fanno riferimento al vasto campo dei beni culturali possano ottenere agevolazioni per il titolo. Il Centro Sperimentale di Cinematografia ad esempio, che forma da decenni grandi eccellenze, non aveva il riconoscimento della laurea, e ciò creava molti problemi a coloro che poi, avendo quel diploma, non lo vedevano riconosciuto nel proprio percorso professionale italiano o internazionale. Il bando del jazz è stato un forte segnale. Certo le somme potrebbero essere più notevoli, e vedremo se miglioreranno le condizioni della finanza pubblica e della quota riservata al mio Ministero, si tratta comunque di un segnale che inverte una tendenza. Su suggerimento delle associazioni del jazz, incluso il Saint Louis, abbiamo cambiato una regola che precludeva la possibilità di accedere ai fondi ordinari; oggi anche per la musica contemporanea come per il jazz ci sono possibilità vantaggiose di accedervi, ripeteremo il bando cercando di non distribuire i fondi a pioggia perché è chiaro che dobbiamo imparare a puntare sulla qualità. Ho letto allibito del Fus, Fondo unico per lo spettacolo, che fonda l’attribuzione su base storica: la tecnica principale è che chi prendeva continua a prendere, chi non prendeva non riesce a prendere. Le regole sono cambiate introducendosi una percentuale di qualità, e sono state approvate da tutti i Comuni. I quarant’anni del Saint Louis e l’inaugurazione della nuova sede avvengono a pochi giorni da quell’evento straordinario che è stato la serata del jazz a L’Aquila, una grande platea di migliaia e migliaia di persone interessate al jazz, grandi maestri e giovani di talento insieme, e il volto gioioso degli aquilani che hanno una sfida da gestire che non è solo quella di restaurare i palazzi, ma anche di far tornar vivo il centro storico. Abbiamo deciso di farlo tutti gli anni e spero che questo diventi un appuntamento straordinario con i grandi nomi del jazz italiano e internazionale. Sono contento che con il finanziamento del Ministero si sia fatta quest’operazione internazionale».

(ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Ottobre 2015




LUCA MUCCI: MODENA TERZO MONDO, UN’ASSOCIAZIONE CHE AIUTA MIGLIAIA DI BRASILIANI A SPERARE

Modena Terzo Mondo (Mtm) è un’associazione di volontariato e solidarietà internazionale presente in Brasile da circa 25 anni, fondata da alcuni privati guidati da Luca Mucci, con l’obiettivo di tutelare i diritti e promuovere l’emancipazione dell’individuo in tutte le sue dimensioni attraverso la sensibilizzazione di persone e coscienze sulle grandi tematiche legate alla condizione di sottosviluppo e discriminazione sociale, economica, culturale e religiosa cui è soggetta buona parte della popolazione mondiale. Mtm si pone come punto di riferimento tra gli altri ed opera come associazione coltivando rapporti cordiali, collaborativi e fraterni, aiutando concretamente i più poveri e inducendo i più fortunati a vivere, pensare ed agire secondo la giustizia e la carità. Comunque esulando da un discorso cattolico.

Tutto comincia nel 1991 con il primo viaggio di Mucci, elettricista, insieme ad altri amici volontari nel Nord Est brasiliano, precisamente a Joaquim Nabuco, nello Stato del Pernambuco, dove da pochi mesi lavoravano tre suore dell’ordine del Divino Amore. Mucci scopre che a Modena sono molti coloro che condividono uno stile di vita improntato sulla solidarietà, lontano dagli affetti più cari; così fonda l’associazione che presiede, della quale oggi fanno parte Stefano Lugli, Andrea Di Paolo, Danilo Ferrari, Lidia Caruso, Enzo Mazzoli, Romina Buttini, Luca Caselli, Elisa Chierchia, Giulia Farinetti, Cristina Ioele.

I mezzi attraverso i quali Modena Terzo Mondo persegue i propri fini sono gruppi di studio, incontri, letture e dibattiti, collegamenti e collaborazioni con realtà esterne quali associazioni, movimenti religiosi, laici, diocesi, centri missionari ed istituzioni varie. Tutte le attività e i progetti sono svolti prevalentemente tramite le prestazioni fornite dai propri aderenti (non retribuite in alcun modo): mezzi finanziari derivanti dai contributi associativi, dalle oblazioni private e dagli eventuali contributi pubblici; mezzi culturali propri o derivanti dal collegamento con movimenti simili, con l’apparato scolastico, con le istituzioni, con i centri culturali e con i mass-media; mezzi civili propri o derivanti dal collegamento con esperienze di formazione civile e di volontariato nel servizio di rilievo sociale; mezzi formativi propri o derivanti dal collegamento con tutte le istituzioni pastorali e comunitarie impegnate nell’educazione. Il numero degli aderenti all’associazione è illimitato ed aperto a tutte le persone di buona volontà desiderose di impegnarsi nella solidarietà e nel volontariato.

Luca Mucci spiega i progetti che, in tale modo, ha portato avanti l’associazione. Non pochi, non piccoli.

Domanda. Perché ha voluto fondare questa associazione?
Risposta. Venticinque anni fa, compimmo un viaggio in Brasile per andare a trovare una suora che aveva aperto un centro per bambini a Recife, e in quell’occasione ci rendemmo conto che le notizie che ci arrivavamo e che ci venivano raccontate erano molto diverse dalla realtà: falsate e modificate a regola. Da lì è iniziata la nostra storia: tornati in Italia fondammo l’associazione perché avevamo visto e non potevamo dire che non conoscevamo, quindi dovevamo per forza fare qualcosa per cambiare: cominciammo ad occuparci dei bambini, poi ci siamo dedicati anche ad altri settori come agricoltura, salute, acqua.

D. In che modo l’associazione vi ha visto operativi nei primi anni?
R. Abbiamo innanzitutto subito cominciato a coinvolgere amici, parenti e conoscenti per costruire il primo centro per bambini a Pernambuco; da allora ne abbiamo costruiti 36.

D. Con quali finanziamenti?
R. Molto autofinanziamento: amici, soci e volontari. Adesso siamo in tutto 450, ogni mese ognuno mette quello che può, ma mettiamo in atto anche tantissime iniziative in tutta Italia, anche perché i nostri volontari sono sparsi un po’ dappertutto: di Modena c’è rimasto solo il nome. Nessuno di noi fa questo tipo di mestiere, siamo tutti privati, io personalmente trascorro 4-5 mesi all’anno in Brasile ormai da 20 anni. Sempre a mie spese. Ma in tutto questo tempo abbiamo fatto moltissima strada.

D. Quali sono le mete del vostro lavoro in Brasile?
R. Ogni viaggio è diverso dall’altro, faccio il giro di diversi centri ogni anno e mi occorrono una quindicina di giorni per ognuno di essi: c’è da sbrigare molto lavoro burocratico perché di questi centri ogni giorno usufruiscono circa 4 mila ragazzi e per mantenerli occorrono ogni mese tantissimi soldi. Così mi do da fare, insieme ad altri, per cercarli.

D. Il Governo brasiliano vi sostiene?
R. Ci sostiene molto, negli ultimi anni è cambiato molto in senso positivo, sui temi sociali è tutta un’altra cosa rispetto a 25 anni fa, quando eravamo più malvisti che benvisti.

D. È merito del nuovo Governo?
R. I Governi del PT, il Partito dei lavoratori, sono totalmente diversi rispetto ai Governi di destra, e per i brasiliani è meglio: si pensi solo al progetto «Luce per tutti». In un Paese che ha avuto più di 50 milioni di cittadini senza corrente elettrica in casa, con il lavoro del Governo almeno 30 milioni di persone ora la hanno.

D. Dove avete trovato le situazioni più gravi?
R. Ce ne sono diverse, nel Maranhão, nel Pernambuco, nel Ceará. Il Nord-Est era un bacino di schiavi, di donne delle pulizie, camerieri, muratori, un Paese completamente dimenticato dai Governi precedenti: ma se si tolgono i nordestini da San Paolo la città si ferma. Lavoriamo anche molto a San Paolo, nelle periferie come Guaianazes, dove abbiamo sostenuto la costruzione del centro «Casa Dos Meninos»; e a Mariana, nel Minas Gerais, dove abbiamo sostenuto il centro di integrazione familiare «Espaço Livre».

D. Lavorate anche con la Chiesa?
R. Siamo un’associazione d’ispirazione cristiana ma non di Chiesa, e siamo aperti a tutti anche in ragione del fatto che abbiamo obiettivi umanitari. Dal canto suo la Chiesa modenese è presente in Brasile da circa 50 anni e con essa lavoriamo per la causa, come con chiunque abbia a cuore i problemi delle persone a prescindere da tutto.

D. La politica italiana vi aiuta?
R. Lasciamo perdere. Ma abbiamo lavorato molto con gli enti locali dell’Emilia Romagna: nonostante la crisi, i terremoti, le sciagure che sono accadute dalle nostre parti, il sostegno c’è sempre.

D. Ha incontrato molti personaggi impegnati nei vari campi, tra cui Padre Luigi Ciotti, Gianni Minà, Marina Silva ed altri: chi il più significativo per l’associazione?
R. L’ex presidente brasiliano Lula, che a Modena è venuto tante volte prima che diventasse presidente e i suoi viaggi in Italia li organizzavamo noi. Siamo rimasti in ottimi rapporti e ci vediamo ogni 2-3 mesi, abbiamo portato avanti insieme numerose iniziative.

D. È migliorato il Brasile?
R. Sì. Ad esempio è il Paese che ha più studenti universitari all’estero, il Governo paga tutte le spese e dà la possibilità a tutti di poter fare questa esperienza. Fino a 12 anni fa, i ragazzi di colore non andavano all’università, mentre ora ci vanno. Si sono avuti passi in avanti incredibili. Indubbiamente ci sono dei problemi, però meno di quello che si fa intendere. Molte cose sono orchestrate da una minoranza che non accetta di aver perso per la terza volta consecutiva le elezioni, e fa di tutto e di più per cercare di invertire un risultato che è evidente.

D. Condivide le azioni compiute dal Governo per i Mondiali e le Olimpiadi?
R. Ci sono state azioni negative, come gli sgomberi delle favelas, che non condivido per come sono stati condotti, spostando persone per centinaia di chilometri senza fornire loro le condizioni di vita minime, e questa è stata una delle poche cose pessime che sono state compiute. Ma dall’altra parte ne hanno sistemate altre: il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto, dipende dai punti di vista, ma il Brasile resta l’unico Paese che si è aggiudicato Mondiali di calcio ed Olimpiadi.

D. Per lei è un fatto positivo?
R. Se non ci fossero state problematiche molto grandi, sarebbe stato più che positivo. Un fatto che ha salvato tanta gente, ha portato soldi e creato molte infrastrutture le quali, oltre ad essere state impiegate per i Mondiali prima, per le Olimpiadi poi, resteranno.

D. Avrebbero potuto dare alfabetizzazione e sanità.
R. Ma non si può dimenticare che di alfabetizzazione ne è stata fatta tanta in questi anni, così come di progetti sociali.

D. E l’ambasciatore brasiliano in Italia, Ricardo Neiva Tavares, come si pone nei vostri confronti?
R. Anche lui è venuto a Modena diverse volte, ci sostiene e si dà da fare. Oggi con noi l’Ambasciata è aperta, dieci anni fa invece era molto chiusa.

D. Come funziona il volontariato?
R. Ci sono tantissimi ragazzi che chiedono di poter fare questo tipo di esperienza con i progetti, ognuno si paga le proprie spese, c’è un costo di mantenimento politico nelle strutture di 10 euro al giorno, e i volontari sono ospitati direttamente nelle case a ciò adibite o da famiglie che da molti anni mettono a disposizione alcune loro stanze.

D. Come si conosce la vostra attività?
R. Con un passa parola continuo. Non c’è bisogno di fare tanta pubblicità perché ogni anno quei 30-40 volontari che vanno via coinvolgono altre persone e ogni anno ci sono gli amici degli amici.

D. In Italia invece organizzate eventi e fate incontri?
R. Tutto quello che facciamo è sensibilizzare chiunque su quelle situazioni di ingiustizia che circolano nel mondo, e che purtroppo sono tante. Manca proprio la comunicazione dei mass media che è praticamente nulla, e si parla del Brasile solo per gli eventi sportivi, le favelas, o la corruzione o la foresta che sta per essere distrutta, ma non si parla del fatto che siamo noi che ordiniamo la legna, non si parla di queste contraddizioni.

D. Chi è che sceglie i progetti?
R. Nascono con i viaggi ma devono autosostenersi nel tempo: noi non andiamo a dire a casa degli altri cosa è giusto fare o meno, quello è colonialismo. Andiamo a vedere di cosa hanno bisogno. Siamo aperti alle proposte altrui e a valutarne la fattibilità che è prospettata.

D. Parliamo di alcuni progetti specifici. Aiutate le prostitute del Ceará?
R. Fortaleza è uno dei paradisi del turismo sessuale internazionale, ogni anno migliaia di minorenni vengono sfruttati approfittando della loro miseria. Come associazione, siamo impegnati a denunciare e contrastare questo fenomeno, a costruire due case di prevenzione dello sfruttamento con corsi di informatica, alfabetizzazione, sport, teatro, danza, capoeira, musica, un refettorio con cucina e molto altro, per dare loro la possibilità di un futuro migliore. Parte fondamentale sono le attività sportive: nel quartiere Bom Jardim e Farol di Fortaleza non esistono strutture aperte a tutti e i ragazzini chiedono un luogo dove trovarsi per fare attività di gruppo e non continuare a stare in strada. Un progetto del Governo brasiliano nel quale siamo impegnati, «Viravida», ossia «cambia vita», dà la possibilità di fare un corso professionale al termine del quale le aziende coinvolte garantiscono posti di lavoro: in questi ultimi anni sono stati assunti 25 mila ragazzi che hanno cambiato vita lasciando completamente la strada per svolgere una professione. Certo non abbiamo risolto il problema dello sfruttamento, ma coloro che entrano nel programma e ne colgono le opportunità fino in fondo possono cambiare vita. Esiste anche un’associazione delle prostitute del Ceará, l’Aproce, nata dopo il primo caso di Aids: riunite in assemblea prostitute, ex prostitute e volontarie il 13 novembre 1990 formalizzarono il desiderio di organizzare il gruppo, guidato da Rosarina Sampaio. Aproce è la prima associazione di prostitute che ha ottenuto la registrazione in Brasile senza usare un nome di fantasia. In seguito è stata creata la Federazione nazionale delle prostitute del Brasile.

D. Non è altrettanto importante sensibilizzare al fine di evitare a monte lo sfruttamento del turismo sessuale?
R. Abbiamo ottenuto dei servizi televisivi con «Le iene» di Italia Uno, anche perché gli italiani insieme ai tedeschi si contendono la palma d’oro per lo sfruttamento. Ci sono interessi economici legati al turismo sessuale, che non conosce crisi, e non solo in Brasile.

D. Cosa fate per i pernambucani?
R. Joaquim Nabuco è un paese rurale di 17 mila abitanti situato a 118 chilometri da Recife. È la prima città indipendente fondata alla fine dell’800 dagli schiavi. Il lavoro ruota attorno alle «usinas», fabbriche di lavorazione della canna da zucchero, che durante i sei mesi della raccolta danno impiego; nei restanti sei mesi il numero di personale impiegato viene ridotto dell’80 per cento. Ciò porta a condizioni di povertà estrema, molti finiscono in strada crescendo in una realtà di delinquenza, analfabetismo, prostituzione e droga. Dal 1991 le suore del Divino Amore svolgono una missione di solidarietà in quel comune e noi le abbiamo sostenute con affetto all’inizio della loro opera in Brasile. Per loro ha fatto tanto anche il gruppo di padre Luigi de Rocco di Belluno. Abbiamo quindi realizzato il primo progetto di solidarietà a distanza e dal 1992 ad ora sono state sviluppate diverse attività di sostegno umanitario, formazione personale e collettiva, creando fortissimi rapporti tra gli autoctoni e i volontari italiani. Attualmente la nostra associazione sostiene la Fondazione Giovani di Joaquim Nabuco per la vita con sede nella Casa dei giovani, acquistata nell’agosto 2004, resa abitabile e dotata di un computer con connessione a internet per dare modo a tutti i ragazzi di cercare lavoro e mantenere i contatti con amici e famigliari lontani. Oggi 450 bambini partecipano alle attività della casa.

D. Lo Stato del Piauì è uno dei più poveri (e sconosciuti) del Brasile. Le pessime condizioni di vita hanno portato alcune città, come Acaua e Guaribas ad avere il triste primato di città con la minor aspettativa di vita dell’ intero Brasile: 58 anni contro una media nazionale di ben 10 anni superiore. Come siete presenti?
R. Il Piauì, coprendo il 3 per cento del territorio nazionale, è il decimo Stato brasiliano in ordine di estensione, grande quasi quanto l’Italia. Il 70 per cento della popolazione fino a 10 anni fa era senza energia elettrica; i suoi abitanti, che sono circa 6-7 milioni, sono sparsi in tutto il Brasile. Abbiamo portato avanti un progetto di agricoltura per far sì che i ragazzi restino a vivere dove sono, nati senza dover migrare. Puntiamo al sostegno all’agricoltura familiare e alla scuola con formazione agricola della comunità di Tapera, alla realizzazione dell’orto comunitario, a programmi imperniati sull’autosufficienza e la sicurezza alimentare, sulla tutela e valorizzazione delle risorse umane, con un occhio di riguardo al ruolo delle donne e dell’infanzia. Altro progetto è quello del Centro di formazione Mandacarù, entità filantropica che aiuta le famiglie della zona del cosiddetto «Semi-árido» a migliorare la qualità di vita. Inoltre, problema ricorrente nel Piauí e principalmente nella regione di Pedro II, è recarsi in città, in media a 40 chilometri di distanza, senza nessun tipo di sicurezza, al sole e alla polvere: la creazione della scuola polivalente di Tapera, con l’appoggio delle istituzioni italiane, consente ai bambini della regione di studiare in una migliore struttura. E ancora: vogliamo rendere possibile e gratuito l’accesso all’acqua per migliaia di famiglie.

D. A Goiania, invece, che fate?
R. È una città che conta un milione e mezzo di abitanti: moderna, con eleganti grattacieli, che però è circondata da una popolosa periferia i cui abitanti vivono in povertà o in condizioni di vera miseria. Lì sosteniamo l’associazione Todos os Santos, ossia con tre asili-scuole che ospitano fino a circa 600 bambini compresi fra i tre e gli otto anni; abbiamo contribuito a costruire una scuola per il rinforzo scolare dei maggiori di 8 anni, che segue il P.E.T.I., programma di «sradicamento» del lavoro infantile, e supportiamo la scuola di informatica Bairro Capua.

D. Modena Terzo Mondo inoltre sostiene da anni moltissimi progetti in diverse città di Goiás. Può dircene alcuni?
R. Per la Radio Vila Boa Fm, con il sostegno di Modena Terzo Mondo, sono state costruite la sala d’incisione, la cabina di regia e sono state fornite le attrezzature per la trasmissione della musica: la radio oggi ha il 60 per cento degli ascolti. Il progetto Scuola Famiglia Agricola ha l’obiettivo di impedire che i giovani figli di contadini si sradichino della loro terra. Ancora: la Diocesi di Goiás, assieme alla Pastorale del Migrante, dopo aver assistito centinaia di persone povere costrette a un costante esodo, ha deciso di creare un centro di accoglienza, chiamato Casa del Migrante, che noi sosteniamo. Sulla spinta della richiesta di famiglie alla ricerca di trattamenti per alcolisti e tossicodipendenti con difficoltà ad entrare in centri di recupero, sono nati l’istituzione Chácara de Recuperação Paraíso e un progetto di reinserimento sociale per promuovere ricongiungimenti familiari e sociali. E molto altro. Ma, in genere, il lavoro non finisce mai.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Settembre 2015




BENEDETTO MARASÀ: ECCO COME L’ENAC STA RIFORMULANDO IL PRIMO REGOLAMENTO SUI DRONI

Il regolamento dell’Enac è a tutti gli effetti il primo in Europa e forse nel mondo ad occuparsi di «droni» o «Sapr» (che definisce mezzi aerei a pilotaggio remoto senza persone a bordo, non utilizzati per fini ricreativi e sportivi): veri e propri «robot telecomandati» come quelli che si vedevano nei cartoni animati in tempi non sospetti. Anche solo questo paragone rende chiara la complessità della materia che, oltreché nuova (dunque sconosciuta, dunque pericolosa), può chiamare in causa problematiche connesse all’uso improprio che di tali mezzi-strumenti può esser fatto in un continuum che va dalla negligenza, imprudenza, imperizia (colpa) al dolo vero e proprio del diritto penale. Tanto da essere coinvolte le Forze dell’Ordine. E richiama anche scenari fantascientifici di un futuro (ora quasi presente) in cui le strade sono dominate da velivoli.

E dai droni il regolamento Enac, emanato in attuazione dell’art. 743 del codice della navigazione, distingue immediatamente gli aeromodelli (specificando che questi ultimi non sono considerati aeromobili ai fini del loro assoggettamento alle previsioni del suddetto codice e possono essere utilizzati esclusivamente per impiego ricreazionale e sportivo). Il fatto di precisare sin da subito che siano due cose diverse (e diversamente regolate) rende conto del contrario: ossia della gran poca differenza che intercorre tra questi mezzi, entrambi pilotati remotamente, proprio come i robot della nostra infanzia. Ai sensi del regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio n. 216/2008, sono di competenza dell’Enac i Sapr di massa massima al decollo non superiore a 150 chili e tutti quelli progettati o modificati per scopi di ricerca, sperimentazione o scientifici. Inoltre, non sono altresì assoggettati alle previsioni i Sapr Stato di cui agli articoli 744, 746 e 748 del codice della navigazione; i Sapr che hanno caratteristiche di progetto tali per cui il pilota non ha la possibilità di intervenire nel controllo del volo; i Sapr che svolgono attività in spazio chiuso; i Sapr costituiti da palloni utilizzati per osservazioni scientifiche o da palloni frenati.

Ne parla Benedetto Marasà, vicedirettore generale dell’Enac.

Domanda. L’uso dei droni è, nel primo regolamento, distinto rispetto alla sua criticità, ossia pericolosità: come?
Risposta. Questo regolamento, formalmente del novembre 2013, è in realtà entrato in vigore quattro mesi dopo. Esso costituisce una prima elaborazione rispetto al nulla che c’era prima, lo abbiamo chiaramente strutturato considerando le criticità legate non solo al tipo di operazioni che si effettuano, ma anche al tipo di macchina che si usa. Registriamo innanzitutto 2 categorie per peso: droni sotto i 25 chili, a loro volta distinti tra operazioni critiche e operazioni non critiche, e droni superiori ai 25 chili, che consideriamo sempre al pari di operazioni critiche perché le dimensioni, il peso, la velocità, sono caratteristiche che includono di per sé la criticità, a meno che non vengano usati in aperta campagna o in luoghi disabitati, nei quali possono essere impiegati per riprese cinematografiche o per controllare le condizioni delle montagne, delle slavine. Le operazioni critiche sono quelle che si svolgono in ambienti congestionati, cioè dove ci sono persone, installazioni, centri abitati; quelle non critiche si svolgono su luoghi poco frequentati o quantomeno dove non ci sono rischi per la sicurezza e per l’ambiente.

D. Il diverso impiego del drone rende differenti le formalità cui ottemperare?
R. Al di sotto dei 25 chili teniamo anche conto del fatto che si tratta di macchine abbastanza semplici, quindi non richiediamo un certificato di navigabilità né la licenza del pilota, ma un’attestazione di competenza in un regime semplificato. Se l’attività non è critica essa viene autodichiarata dall’utilizzatore del drone e noi ne prendiamo nota anche perché, potendo l’impiego di tale mezzo non essere pacifico, dobbiamo sapere chi lo sta usando e in quale area. Per i droni che operano in aree critiche o superiori ai 25 chili, ci vuole un’autorizzazione formale rilasciata da noi; nel primo regolamento in effetti non avevamo previsto una licenza di pilotaggio, ma solo un’attestazione di conoscenze del pilota rilasciata da una scuola autorizzata, quindi noi autorizziamo la scuola, la quale svolge un programma di addestramento che dobbiamo riconoscere e che rilascia l’attestazione di competenza.

D. Verificate la competenza delle scuole una per una?
R. Lo facciamo a livello preventivo. La scuola che si proponga come centro di addestramento per piloti od operatori ci presenta un programma di addestramento, noi ne valutiamo la congruità, quindi viene pubblicizzata sul nostro sito. Oggi ce ne sono già circa 80.

D. Come si fa a scegliere una scuola dato che ce ne sono tantissime?
R. Onestamente non so dire; noi in questi casi siamo sempre combattuti se stilare un elenco ufficiale dove chiaramente poi convoglierà il mercato, oppure no. In tale ultimo caso chiunque si presenti all’Enac con il proprio programma, che sia valutato da noi positivamente, si immetterà nel mercato senza comparire in una lista Enac, e starà all’operatore o al pilota scegliere dove andare. Non è una vera e propria certificazione quella che noi diamo alle scuole di pilotaggio, è più un riconoscimento basato sui programmi che intendono svolgere e sulla serietà delle persone che vi fanno parte. E se molte di queste scuole sono anche centro di addestramento per persone navigate con una certificazione riconosciuta a livello europeo, ci sono anche scuole private.

D. Da un certo punto di vista si tratta di aeromodelli, dei quali si parla anche nel regolamento in una sezione apposita. Quali le differenze dal vostro punto di vista?
R. Gli aeromodelli oggi possono raggiungere anche delle velocità notevoli, e sono repliche di aeroplani in scala ridotta. Sono da tenere sotto controllo, ma più in termini di obblighi che di verifiche, e infatti per essi noi abbiamo inserito, nella terza ed ultima parte del regolamento, dei requisiti da rispettare, e devono volare in ambienti riservati, fuori dal possibile impatto con le persone, ma non vi sono verifiche da parte nostra, né dichiarazioni da presentare. Ma ora le cose stanno evolvendo a livello europeo e mondiale, e cominciano a spuntare non solo i regolamenti degli altri Paesi.

D. Quale sarà l’impatto dell’Europa nel settore?
R. Noi siamo stati i primi in Europa, e forse anche nel mondo, a fare questo regolamento. Ma oggi ne sappiamo di più, ci sono molte iniziative, la Commissione europea si è anche espressa in una dichiarazione durante una conferenza internazionale nel mese di marzo, e l’Easa, l’Agenzia europea della sicurezza aeronautica, ha emesso delle linee guida. Anche se in questo momento sono dei «concetti» e non sono dei veri e propri regolamenti, è chiaro che in qualche modo ci dobbiamo avvicinare alle indicazioni internazionali, perciò abbiamo predisposto due modifiche essenziali al nostro regolamento: innanzitutto vogliamo distinguere i droni al di sotto dei 2 chili che, in caso di perdita di controllo o impatto, non creano, sempre che lo creino, un danno eccessivo, soprattutto se si adottano criteri di protezione. Per questi piccolissimi droni abbiamo in mente una sorta di liberalizzazione nel senso di non prevedere nemmeno un’autorizzazione, a meno che non vogliano essere utilizzati in aree abitate. Abbiamo anche una riserva delle Forze dell’Ordine, con le quali stiamo discutendo per cercare di evitare un regime estremamente restrittivo giustificato dai timori sull’uso improprio. Un’ipotesi che faceva la Polizia era che addirittura per ogni volo di un drone essa fosse avvisata, e questo ci sembra eccessivo, per il rischio di bloccare un settore che comunque non vogliamo appesantire dal punto di vista dell’innovazione. C’è una grande paura che queste cose possano diventare armi, soprattutto in questi tempi, ma dovremmo limitare di aprire le finestre quando passa un corteo. Certo che determinate precauzioni sono importanti, ma non dobbiamo far diventare il drone uno strumento «criminoso» per definizione. Il nuovo regolamento dovrebbe semplificare l’impiego dei droni fino a 2 chili, tra i 2 e i 25 chili mantenere le caratteristiche attuali, per i droni superiori ai 25 chili strutturare un vero e proprio regime di sorveglianza con certificazione di navigabilità individuale, licenza da rilasciare al pilota, un’attestazione di sicurezza, ed un regime che bene o male è quello degli aeromobili.

D. Come stanno reagendo le grandi società dell’aviazione generale italiana?
R. Cominciano ad esserci anche iniziative importanti, ad esempio abbiamo aperto un «test center» a Grottaglie, in provincia di Taranto; nella stessa area, infatti, l’Alenia produce le parti del Boeing 787 in uno stabilimento che impiega più di 1.500 persone. Abbiamo nominato l’aeroporto di Grottaglie come test center proprio per avere un posto dove fare la sperimentazione con i droni. L’Agusta a luglio vi porterà un elicottero a pilotaggio remoto, che viene costruito in Polonia, che è chiaramente un drone anche se all’interno dell’elicottero c’è il «pilota di sicurezza», un pilota che sta a bordo ma solo per intervenire in caso di perdita del controllo remoto; e l’intenzione dell’Agusta è avere un elicottero di più di 750 chili non pilotato. La Piaggio ha già prodotto il P180, velivolo da 9 posti che in ambito militare è già in fase di sperimentazione a Trapani, e che in ambito civile potrebbe diventare un drone con una capacità di carico notevole di quasi mille chili.

D. Il trasporto passeggeri su un drone, con il pilota da terra e da remoto, è futuribile?
R. In futuro sarà così, ma non è qualcosa che si realizzerà nei prossimi 10 anni. I droni militari, a titolo di esempio, effettuano controlli da remoto da 8 mila chilometri e anche più di distanza. Dobbiamo prevedere che tra 20 anni probabilmente questa diventi una realtà anche in ambito civile. Tutte le iniziative in tema di droni, soprattutto quelle fatte da grandi aziende, non hanno lo scopo di riprendere matrimoni o fare film, ma si orientano verso un trasporto industriale. Le regole cominciano ad esserci, ma il settore industriale è più avanti delle regole. Oggi abbiamo la pressione dell’industria grande e piccola, e giornalisti che vorrebbero essere autorizzati a utilizzare droni da un chilo con telecamera istallata per fare riprese e scoop. Ma il problema non è tanto il singolo, quanto un insieme di droni che, alzandosi per aria, possono scontrarsi e cadere.

D. Si corre anche il pericolo che tanti droni si scontrino tra di loro in situazioni più movimentate.
R. La sperimentazione si sta muovendo in quest’ottica e segue alcuni criteri tecnologici, il primo è quello di un controllo che limiti il raggio d’azione in modo da creare una specie di schermo intorno, ed è chiaro che questo si può fare solamente con un controllo di tipo computerizzato. Il secondo criterio è quello di operazioni fuori dal campo visivo dell’operatore, cosa che in ambito militare è una realtà, ma che nel civile risulta più complessa: bisogna affrontare il discorso della tecnologia e del controllo satellitare. È chiaro che in questa fase iniziale e sperimentale è importante che le condizioni siano quelle dichiarate dai costruttori, ma c’è anche il problema dei materiali: cioè molti dei droni che oggi sono sul mercato non hanno affidabilità aeronautica, la vita delle pale dell’elica o del rotore nei droni che si comprano al negozio di giocattoli è di 5 ore, dopo si rompono; l’elica deve compiere centinaia di giri al minuto, e se non è costruita con caratteristiche aeronautiche è inaffidabile. Se si compra un drone online non è certo che esso abbia le garanzie che noi riteniamo necessarie per il volo aeronautico.

D. Non si può semplicemente comprare un drone e «farlo volare»?
R. La tendenza è questa, lo compro e lo faccio volare; perciò dobbiamo provare a non essere invasivi nel senso di non richiedere il rispetto di requisiti impossibili o troppo restrittivi. Ci stiamo muovendo in un’ottica di valutazione del rischio, e il rischio è nella velocità, nell’ambiente in cui si opera, nelle caratteristiche di sicurezza del mezzo, nella privacy, tutti argomenti nuovi per noi e assenti in tema di aeroplani. Siamo in un momento di maggiore consapevolezza e chiarezza, guardando a un settore che sta esplodendo da un punto di vista industriale con centinaia di iniziative direi non difficili da regolare ma difficili nel bilanciamento tra regole e sviluppo.

D. Avete anche affrontato il tema dei droni legati a un cavo: in quali casi i droni sono «messi al guinzaglio»?
R. Il cavo è un elemento di garanzia soprattutto quando il drone viene utilizzato in ambienti congestionati. Ancora oggi non abbiamo la certezza che i dispositivi elettronici siano talmente affidabili da garantirne il controllo totale, quindi in certi casi prescriviamo le operazioni con il cavo, e tutto questo quando non è dimostrata l’affidabilità totale del controllo del drone. Si tratta soprattutto dei casi di riprese cinematografiche, oggetto di molte richieste che ci pervengono. Il cavo garantisce che, nel caso di perdita di controllo in zone critiche, come può essere una piazza del centro di Roma, si riporti a terra il drone senza problemi.

D. Come si può punire l’abuso di coloro che usano droni senza essere in possesso dei requisiti richiesti?
R. Con le Forze dell’Ordine abbiamo rapporti quotidiani sotto questo punto di vista, ma noi facciamo le regole, poi è chiaro che esse devono essere rispettate e che per farlo ci vuole la coscienza civile. Una delle cose che stiamo facendo è lavorare per identificare coloro che utilizzano il drone, apponendo ad esempio targhette con codice a barre così che tali mezzi possano essere rintracciabili, oppure più semplicemente tenere un registro degli utilizzatori tale che all’occorrenza si possa individuare chi è che ha fatto danno. Ovviamente le sanzioni non dobbiamo stabilirle noi.

D. Posso prendere un drone, portarlo in un altro Paese e farlo volare lì?
R. No, in questo momento ci sono le barriere, non c’è riconoscimento. Con gli altri Paesi ci sono scambi continui di notizie, informazioni e regolamenti, ma non c’è un riconoscimento. Ognuno ha le proprie regole di volo. Nelle proprietà private l’operatore si assume la responsabilità, ma noi stiamo sempre parlando di ambienti pubblici. Per un drone straniero in Italia il discorso è lo stesso, e la buona norma vuole che si capisca che tipo di autorizzazione ha e così convalidarne il volo se presenta caratteristiche simili a quelle richieste. In futuro ci saranno condizioni di reciprocità, una volta che sarà emanata la regolamentazione europea, già in fase di sviluppo; l’Easa sarebbe pronta, a fine anno, con una prima bozza per i droni di semplice costruzione, e presto potremmo avere regole internazionali.

D. Ci sono limiti di velocità e di tempo per il volo?
R. L’utilizzo del drone, almeno in attività quali osservazione, rilevamenti e fotografie, non è lunghissimo, parliamo di un tempo di 15-20 minuti, dopodiché il mezzo deve tornare, anche perché ha delle batterie che ne limitano l’autonomia. Certo è che quando cominceranno a volare i droni a combustibile il problema si porrà, oggi l’autonomia è limitata ad una mezz’ora e niente più, e costa poco farlo scendere e cambiare la batteria.

D. La telecamera deve essere verificata?
R. No, non ci occupiamo della telecamera, l’importante è che sia istallata in maniera sicura, poi la sua tipologia dipende dall’uso che se ne voglia fare. Oggi ci sono droni con telecamere notevoli o con più telecamere. Per quanto riguarda la privacy, quando abbiamo fatto il primo regolamento abbiamo interpellato anche l’Autorità che ci ha suggerito una frase che abbiamo riportato nel regolamento, che fondamentalmente dice che l’operatore è responsabile di utilizzare il drone nel rispetto di tutte le norme della privacy, quindi non può andare a fotografare delle persone o guardare dentro le case, quindi chiaramente la privacy impone delle regole ma poi dopo è la coscienza e la moralità dell’operatore che ne deve fare buon uso.

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Luglio/Agosto 2015

 




VITO RIGGIO: ALL’ENAC SPETTA REGOLAMENTARE IL FUTURO, E AL FUTURO NON SI PUÒ DIRE DI NO

Il codice della navigazione, all’articolo 743 come emendato dal decreto legislativo n. 96 del 9 maggio 2005, definisce aeromobile «ogni macchina destinata al trasporto per aria di persone o cose. Sono altresì considerati aeromobili i mezzi aerei a pilotaggio remoto, definiti come tali dalle leggi speciali, dai regolamenti dell’Enac e, per quelli militari, dai decreti del Ministero della Difesa. Le distinzioni degli aeromobili, secondo le loro caratteristiche tecniche e secondo il loro impiego, sono stabilite dall’Enac con propri regolamenti e, comunque, dalla normativa speciale in materia». È dunque all’Ente nazionale per l’aviazione civile che spetta l’arduo compito di regolamentare «il futuro», ciò che era nei film fino a poco fa, città prese d’assalto da mezzi volanti e privacy, sicurezza, libertà messe in discussione: i mezzi aerei a pilotaggio remoto (Sapr), comunemente noti come droni, sono aeromobili caratterizzati dall’assenza di un equipaggio a bordo. Tanto basta per capirne sia le potenzialità, sia i rischi connessi al fatto che il volo di un drone è governato da diverse tipologie di «flight control system», gestiti in remoto da piloti a terra. Ma al futuro non si può dire di no.

Così l’Enac ha accolto le richieste delle quattro associazioni di settore – Assorpas, UASIt, Fiapr e AIDroni – e sta oggi rivedendo la normativa dedicata ai velivoli comandati a distanza, rendendone pubblica una versione preliminare, e alleggerendo tensione e regole. L’interesse per l’impiego di questi aeromobili negli ultimi tempi sta crescendo esponenzialmente in diverse attività per le potenzialità di impiego che si intravedono tra cui sorveglianza del territorio, rilevamento delle condizioni ambientali, trasmissione dati, riprese aeree, impieghi agricoli, compiti di ordine pubblico; ma resta complesso e pericoloso l’impiego di un dispositivo che supera anche i 25 chili, che può cadere, attraverso il quale possono essere compiute azioni lecite ed illecite (tratto dalla stampa: di recente un ingegnere indiano ha inserito a distanza un virus nel software del velivolo e lo ha dirottato).

L’Enac (e con lui l’Italia) è stato tra i primi enti in Europa a dare formalità alla questione: il regolamento «Mezzi aerei a pilotaggio remoto» viene incontro alle esigenze espresse da costruttori e operatori del settore di avere un quadro regolamentare di riferimento in grado di garantire uno sviluppo ordinato e in sicurezza di questa nuova realtà. Non esiste ancora un unico standard di riferimento europeo, e l’Icao (International Civil Aviation Organization) è impegnata a sviluppare le modifiche agli allegati per ricomprendere nella loro applicabilità anche questi mezzi. I Sapr possono essere utilizzati anche per applicazioni in ambienti ostili come monitoraggio di incendi, ispezioni di infrastrutture e di impianti, sorveglianza del traffico stradale. In questo contesto rappresentano anche un’opportunità di sviluppo per l’industria nazionale dei costruttori di Sistemi aeromobili a pilotaggio remoto.

Ne parla Vito Riggio, presidente dell’Enac.

Domanda. Già verso il secondo regolamento. Cosa dobbiamo attenderci?
Risposta. Siamo stati tra i primi in Europa a fare un primo regolamento, adesso elaboriamo il secondo tenendo conto di una serie di osservazioni che sono emerse in questo primo periodo. Al momento ci concentriamo sull’uso dei droni, più avanti verificheremo se ci saranno garanzie di sicurezza anche per l’impiego nei trasporti.

D. Un drone che trasporterà merci e persone senza pilota, ossia un vero e proprio mezzo telecomandato?
R. Questo è ancora in fase sperimentale.

D. Quali sono i punti che l’Enac ritiene più rilevanti?
R. Ci confrontiamo con problemi molto grandi: se fuori e in campagna gli amatori possono godere di una relativa tranquillità, ma tenendo sempre sotto controllo il comando del drone, per quanto riguarda la città sono molto cauto perché capisco le esigenze connesse all’uso di tale strumento, ma capisco ancora di più la sicurezza. In città e nei centri abitati il drone può cadere e provocare lesioni gravi o la morte di chi è colpito; i mezzi superiori ai 25 chili sono dei veri e propri aerei, è necessaria un’autorizzazione con relativo corso.

D. Si sta assistendo alla proliferazione dei corsi per droni. Sono tutte sicure e certe e, soprattutto, l’esperienza di questi pochi anni di attività dei droni può essere sufficiente a lasciare il mercato libero per le scuole?
R. In questo periodo ci sono una sessantina di scuole, mi sembra esagerato. Diciamo che è la moda del momento, ci si illude del fatto che adesso si è aperto un nuovo campo di lavoro e che tutti possono diventare piloti di droni. Speriamo sia così, ma con cautela.

D. Però sicuramente può portare lavoro.
R. Da una parte sì, ma non so quanto. Spero che il mercato si sviluppi, porti lavoro e si investa soprattutto nella ricerca e nella sicurezza. È chiaro che si apre un campo su cui dobbiamo lavorare, anche d’intesa con gli americani e con la Commissione europea, per cercare di sviluppare tutte le applicazioni possibili ed avanzate.

D. La sicurezza come la si può monitorare, oltre che prevenire?
R. Impedendo l’uso dei droni in città e nei luoghi affollati. Per operazioni in tali contesti si dovrà chiamare un esperto certificato dall’Enac, non chiunque: non ci s’improvvisi pilota di droni. Il drone non è un giocattolo, è questo il messaggio che deve passare, e anche se di soli 5 chili può recare grandi danni. Bisogna essere in grado di pilotarlo.

D. Ci sono problemi anche connessi alla privacy.
R. Questo lasciamolo al Garante, a cui spetterà stabilire delle norme, noi ci occupiamo della parte tecnica. La privacy ormai è ridotta al minimo, e il Garante fa molto poco per tutelarla: lasciamogli almeno i droni.

D. Quali sono le linee principali del regolamento?
R. La prima è che sopra i 25 chili ci vuole un vero e proprio brevetto da pilota, mentre per quanto riguarda i droni sotto i 25 chili stiamo rivedendo le norme. Sarà comunque necessaria la certificazione e l’autodenuncia per l’impiego del drone, e si faranno indagini sull’attendibilità di chi opera.

D. Anche prescrivendo un patentino, questo si prende con sole poche ore di scuola: quanto è congeniale?
R. Poche ore di scuola sono già qualcosa, poi se c’è bisogno di fare di più si farà di più, però già il fatto d’identificare il drone come un vero e proprio oggetto volante, e quindi un aereo sia pure pilotato a distanza, è un’affermazione di principio importante. Il pilota di droni è un pilota vero e proprio.

D. Tranne per il fatto, non di poco conto, che non rischia la propria vita ma la fa rischiare solamente agli altri, questa è l’unica differenza con i piloti regolari che salgono a bordo, forse con più responsabilità.
R. Non è una differenza da sottovalutare, dobbiamo trovare l’equivalente, non possiamo impedire lo sviluppo tecnologico perché provoca un danno, si tratta invece di prevenirlo e di regolarlo, e a questo penseranno gli esperti a livello internazionale.

D. Quali sono le differenze con gli altri Paesi?
R. Si sta cercando di armonizzare il tutto a livello europeo, ognuno però è andato un po’ per conto suo. È un problema nella Commissione parlamentare europea fare un regolamento, che prima si fa e meglio è.

D. Perché in Italia è intervenuto l’Enac invece che il Parlamento?
R. Il Parlamento italiano non c’entrerà mai, anche perché l’Enac ha piena autonomia sul piano tecnico e non ha bisogno del Parlamento perché applica i regolamenti. Quando interviene il regolamento europeo il Parlamento italiano cessa di avere autorità. Noi abbiamo delegiferato tutta la materia tecnica dell’aeronautica, e quando non ci sono regolamenti c’è l’autonomia tecnica dell’Enac; il Parlamento non riesce a fare le leggi importanti, figuriamoci una legge sui droni.

D. Come siete giunti alla definizione di queste norme, chi avete interpellato?
R. C’è stata una consultazione nella bozza del regolamento con delle associazioni che si sono appena costituite con gli utilizzatori di questo mezzo, ma ci fidiamo molto del fatto che noi siamo presenti in tutti gli organismi internazionali, soprattutto con il nostro vicedirettore generale Benedetto Marasà che fa parte, insieme al direttore generale, di tutti i comitati sulla sicurezza e di tutti gli organismi internazionali con ruoli di rilievo. L’Italia è considerata al sesto posto nel campo dell’aviazione civile nel mondo.

D. Perché avete ritenuto non necessario un certificato acustico?
R. Perché questi strumenti non superano le soglie consentite di rumore. Il vero rumore in città lo fanno le macchine, il vero problema è il disastro urbano.

D. Il drone ha dei limiti di altezza?
R. È evidente che dipende dal peso perché quelli sopra i 25 chili hanno una propulsione maggiore, quelli sotto i stanno in uno spazio vigilato, devono esservi meccanismi anticollisione e devono poter essere tracciabili nello spazio, come tutto quello che si muove. Ci sono droni di oltre 300 chili.

D. Dove pensa ci porterà questa evoluzione?
R. Penso che noi, in generale e non solo nel pilotaggio remoto, avremo il chilometro zero in tutto il mondo: nel prossimo futuro si arriverà in qualunque parte del mondo in 2 ore e non più in 24, faccio riferimento al volo superorbitale. Per i droni nello specifico non so dire, di certo aiuterà a vedere cose che a terra non sono visibili, importantissime dal punto di vista della tutela del patrimonio dei beni culturali, della vigilanza antincendio, della vigilanza sulle linee elettriche; si potranno prevenire incendi, rotture, guasti. Il resto deve ancora venire, può darsi che nel settore dei trasporti si riesca a consegnare la merce in un centro di smistamento in modo più sicuro e veloce di quanto accada adesso. È come le applicazioni, il drone è una grande «App», ovviamente c’è bisogno di gente che ci metta cervello e soldi per svilupparla. L’interesse c’è, e come tutte le App che hanno un rendimento economico, stanno sul mercato e sono finanziabili, si trovano i soldi: il mondo è pieno di soldi, sono le idee che spesso mancano.

D. Il drone notturno invece, ci sarà?
R. Ci stanno lavorando. Non è difficile dal punto di vista della tecnologia.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – Luglio/Agosto 2015




MAX DE TOMASSI: ECCO COME “CONDUCO” IL BRASILE DA CARDOSO A DILMA, DA GIL A CAETANO, DALLA ROCINHA A GAVEA

Schermata 2015-03-13 a 13.23.12di ROMINA CIUFFA

UNA CONVERSAZIONE TRA ROMINA CIUFFA E MAX DE TOMASSI SULLA NUOVA ERA BRASILIANA E L’EVOLUZIONE DEL BRASILE DEGLI ULTIMI 30 ANNI. Il padre gli regalò, per la maturità classica, un biglietto per il Brasile. Rimase 3 mesi a Rio de Janeiro. Durante la conduzione di un piccolo programma radiofonico a Roma, aveva già conosciuto la manager dei più grandi artisti brasiliani, che contattò una volta giunto a Rio; lei subito lo prese sotto la sua ala protettrice. Famosissima per essere stata la zia dei due rivoluzionari del movimento tropicalista, Gilberto Gil e Caetano Veloso, in quanto zia delle due cugine carnali che i cantanti sposarono, era conosciuta con il nome di Tia Léa, «zia Lea» appunto. Lui è Max De Tomassi, più unico che raro giornalista italiano specializzato nel verdeoro, esperto conduttore di «Brasil», programma di Radio Rai Uno a cura e per la regia di Danilo Gionta. Trasmissione nata nel 2001 quasi per scommessa, allora già in onda da tanti anni su altre emittenti, De Tomassi la propose alla Rai, e iniziò semplicemente coprendo lo spazio lasciato libero nel periodo estivo da un programma di satira. Per poi divenire il riferimento principale, per di più ad origine pubblica, della cultura brasiliana in Italia.

Schermata 2015-03-13 a 13.23.39Domanda. Il Brasile, per quanto grande, è una «nicchia». Come si spiega l’interesse della Rai a portare avanti una trasmissione come «Brasil»?
Risposta. Mi domando sempre qual è il fenomeno che fa sì che il nostro sia il programma musicale più ascoltato di Radio Uno, anche considerando che va in onda la notte della domenica solo a partire dalla mezzanotte, e che è un programma di nicchia all’interno di una programmazione musicale che copre i vari generi. Certo il Brasile propone una vastità di stili musicali di qualità encomiabile, e produce forse la musica più creativa del mondo. A livello di download e poadcast, ossia l’ascolto in streaming delle puntate, abbiamo cifre eclatanti, superiori a tanti programmi di Radio Uno pur essendo in onda solo una volta a settimana. Fino allo scorso anno andavamo in onda tutti i giorni con «Brasil – Suoni e culture dal mondo», ed avevamo alti numeri.

D. Prima del 2001, anno in cui iniziò la sua conduzione di «Brasil», era già coinvolto con la realtà brasiliana?
R. Non esattamente. Lavoravo nel mondo della comunicazione, avevo iniziato in tv nel 1985, ma fare televisione in Italia è difficile se non si appartiene a una certa lobby. Ho fatto il conduttore, il regista, l’autore, ho lavorato per 5 anni a Tele Montecarlo quando i brasiliani comprarono la rete, quindi altri 5 anni in una televisione tematica quando in Italia si cominciava ad andare sul satellite. La Telecom mise in piedi una struttura «stream» che poi venne venduta a Sky, lì realizzavo programmi di cultura, pur essendo assenti gli interlocutori di una televisione di spessore. La radio e la Rai mi hanno dato quello che ho sempre desiderato.

D. Quali sono i cambiamenti che ha percepito nel corso degli ultimi anni nei suoi molteplici viaggi in Brasile?
R. Solo quindici anni fa il Brasile era un Paese del terzo mondo, oggi è la quinta potenza mondiale: abbiamo un periodo storico temporale troppo limitato per poter individuare con esattezza questi cambiamenti. Ma il primo e più consistente è senz’altro l’arrivo al Governo di Fernando Henrique Cardoso, due volte presidente del Brasile dal 1995 al 2003, più sociologo che politico, il quale ha dato finalmente al Brasile gli strumenti per diventare un Paese progredito dal punto di vista sociale, economico e politico. L’ha fatto convincendo non la classe politica, ma i grandi proprietari terrieri e i ricchi del Brasile a guardare all’estero per guadagnare di più, attraverso l’esportazione o l’inclusione di partner stranieri. Giustificazione che ha permesso a un sociologo di operare affinché potesse avvenire un cambio sociale, realizzato poi in concreto dal presidente Lula con il Partido dos Trabalhadores (PT) nella prima decade del nuovo millennio attraverso le rivoluzioni sociali, le leggi ed altro messo in atto dalla corrente più a sinistra del mondo politico brasiliano, ma con gli strumenti già forniti da Cardoso.

Schermata 2015-03-13 a 13.24.31D. È Lula che ne ha preso i meriti?
R. Lula era un personaggio atteso da tantissimi anni, aveva avuto diverse candidature come presidente della Repubblica, e quando fu eletto in effetti le cose cambiarono; ma gran parte della spinta proveniva anche dalla nuova possibilità di dare ai brasiliani una dignità e un’indipendenza economica che prima non c’erano. Paradossalmente quello che gli imprenditori e i latifondisti si aspettavano era più un richiamo verso l’estero che una risorsa interna; le migliori risorse economiche non sono arrivate tanto dagli investimenti stranieri quanto dal maggior potere d’acquisto della società, mentre il valore del Real cresceva. Così il prodotto interno si è alzato.

D. Questo stesso meccanismo economico, unito ai fatti collegati ai megaeventi, ha però condotto a un innalzamento del costo della vita e, se le classi medie ne sono state toccate solo relativamente, il livello di povertà è aumentato insieme alla distanza creatasi tra i livelli più bassi della scala sociale e i benestanti, o coloro che hanno tratto vantaggio dalla crescita.
R. È chiaro che, una volta che il prodotto interno è schizzato in alto, è salito il costo della vita; ma credo che la povertà non si sia accresciuta, poiché anche le classi più povere hanno cominciato ad avere nuove e maggiori possibilità di lavoro. Con il consumismo immediatamente subentra la spirale del credito, e il guadagno concretizzato con contratti a tempo indeterminato o con occupazioni da libero professionista ha fornito una certa indipendenza economica e ha spinto a spendere; la rateizzazione ha fatto il resto, in larga misura responsabile di far spendere alla gente più di quanto non guadagnasse.

D. La rateizzazione del credito, molto in uso in Brasile tanto che nei negozi è più comune trovare i prezzi già divisi in rate che non il totale, creando l’illusione di un affare, non rischia in questi casi di essere un’arma a doppio taglio?
R. Non sono un consumista, e mi piacerebbe che tutti comprassero il minimo indispensabile perché sono convinto che la salute di una nazione e di un popolo non si misura da ciò che si produce né da ciò che viene venduto, bensì dal livello qualitativo della sanità, dell’istruzione, della cultura. Il meccanismo della parcellizzazione sulle carte di credito, che consente ai brasiliani di rateizzare il pagamento di qualunque cosa e che in Italia ancora non ha preso piede, porta l’inflazione e il consumismo a una versione «2.0», ossia aggiornata, ed io la considero una cosa intollerabile.

Schermata 2015-03-13 a 13.24.05D. Istruzione, cultura, sanità ed altro: è tutto molto carente ed è indubbiamente in questo che si misura il vero benessere di un popolo. Eppure il Brasile ha messo in primo piano investimenti di altro tipo, come turismo e megaeventi.
R.  Ma la classe politica meno abbiente ha usato la vetrina gigantesca che il campionato di calcio forniva per attuare dimostrazioni anche abbastanza eclatanti in piazza e reclamare quello che è giusto che il popolo brasiliano reclami, manifestando la necessità di avere un’economia meno frenetica e il desiderio di dare più attenzione alla sanità e al trasporto pubblico. Ricordiamo che il Brasile non ha una rete di trasporto interno su rotaia, ha esclusivamente una rete di trasporto aerea con le sue limitazioni, e su gomma, ma le strade non sono all’altezza delle nostre. L’intero Paese è esteso per 8 milioni e mezzo di chilometri quadrati, è quasi 30 volte l’Italia, è il quinto maggiore del mondo in estensione, ha 200 milioni di abitanti, è dunque una realtà gigantesca che da sola contiene il 22 per cento della terra coltivabile del pianeta, come fosse un immenso giardino dal quale il mondo riesce a cogliere l’alimentazione, quindi è un Paese che, dal punto di vista delle risorse, va trattato «con le pinze». E non parliamo di risorse economiche e tecnologiche, ma di quelle basilari. Il 12 per cento delle riserve di acqua dolce mondiale si trovano in Brasile: la prossima guerra non sarà quella sul petrolio, ma quella sull’acqua.

D. E il petrolio?
R. I brasiliani hanno scoperto il pre-sal, il più grande giacimento di petrolio che rende il Paese totalmente indipendente dal punto di vista energetico, con 600 chilometri di estensione a 2 mila metri di crosta salina sotto l’acqua. Solo grazie alla crescita del Paese sono riusciti a trovare internamente la tecnologia per bucare questo strato di sale ed arrivare ai giacimenti. Il petrolio poi è di una qualità eccellente.

D. Eppure il Paese si è rivoltato contro le «megaspese» per i megaeventi. È giusto investire quei capitali in questo modo, in questo momento?
R. Non riesco a capire se è giusto o sbagliato fare grandi investimenti sul Campionato mondiale di calcio o sulle Olimpiadi, perché non riesco a capire quale possa essere il volume di ritorno: questo potremo dirlo solo in seguito, quando sapremo se spendere soldi per gli stadi e non per gli ospedali o altro oggi possa innalzare le possibilità generali di domani.

D. Da tutto il mondo, l’Italia ai primi posti, c’è una migrazione verso il Brasile, non solo giovanili fughe ma veri e propri insediamenti societari. Conviene?
R. Italiani, inglesi, americani, australiani, giapponesi, cinesi, tutti. Il Brasile ha città gigantesche quali Rio e San Paolo, ma la densità di popolazione è bassa e aprire fabbriche e attività fuori dai centri urbani dal punto di vista strutturale è possibile, anche di fronte a costi di realizzazione molto bassi. Il Brasile continua ad essere un Paese abbastanza conveniente, è in città che i prezzi sono eccessivi.

D. C’è più lavoro in Brasile al momento, per i giovani brasiliani e italiani che non abbiano una base societaria?
R. Non so dirlo con esattezza, di certo il mondo delle professioni in Brasile è molto vasto, e le start up e le nuove iniziative sono sempre benvenute. Oltre a questo, secondo me si può contare sul fatto che il nostro è ancora adesso un Paese molto stimato dai brasiliani nonostante tutto quello che è successo in Italia, nonostante ciò che è stato fatto nell’attuale e nel passato Governo, nonostante i grandi equivoci che ci sono stati recentemente, un esempio per tutti il caso Battisti. Il Brasile continua a guardare con grande esterofilia molti Paesi del mondo, ma fra tutti l’Italia è particolarmente amata e forse sopravvalutata. Il made in Italy è sempre una garanzia.

D. Oggi è ancora più forte il collegamento tra Italia e Brasile, essendo il 2015 l’anno dell’Expo che si terrà in Italia su uno dei temi in cui il Brasile è tra i principali interlocutori mondiali: «Nutrire il pianeta, energia per la vita».
R. Il Brasile è il più grande produttore di soia e di arance del mondo grazie a questa immensa versatilità agricola, e non si può pensare al futuro del mondo senza pensare al futuro del Brasile.

Schermata 2015-03-13 a 13.24.53D. Lei è un esperto delle tematiche brasiliane, ma certamente tra le tante prevale la musica, quella di un Paese che ha pochi eguali, in fatto di gusto e notorietà, nel mondo. Come si è evoluto il mercato discografico nel tempo?
R. L’ho visto evolversi e decadere. Sono entrato in Brasile 33 anni fa, nel 1982, e si vendevano milioni di dischi. Il Brasile allora era il quinto mercato discografico mondiale. Adesso, con internet e YouTube, c’è una frammentazione del mercato musicale, ormai parliamo della vendita di «fonogrammi» non più sul supporto fisico ma su canali quali Spotify e piattaforme digitali, a volte il download è gratuito e sempre si ha la possibilità di guardare video online. Io non accetterei di «guardare una canzone» su YouTube.

D. Sembrerebbe un discorso elitario: le priorità sono mutevoli e al momento, o comunque non più come prima, non si spendono (o non si hanno) soldi per acquistare cd o tracce musicali se si ha l’alternativa gratuita.
R. La musica non può prescindere dal supporto per le informazioni e soprattutto per la qualità sonora, ma ora non siamo in grado di capire ciò che è meglio e ciò che è peggio, ciò che è giusto lasciare indietro e ciò che è giusto mantenere, è questa la grande incertezza umana che rispecchia il grande disorientamento sociale.

D. Il boom economico sperimentato dal Brasile ha contribuito al mercato discografico o ha concentrato la ricchezza solo su alcuni grandi nomi, anche considerata la costante tendenza brasiliana a mitizzare i propri grandi idoli, da Tom Jobim a Caetano Veloso e tutti gli altri?
R. A prescindere dalle vendite, il mercato musicale brasiliano adesso alla punta dell’iceberg non ha Caetano, Gilberto Gil o Chico Buarque de Hollanda, ma fenomeni diversi come la musica country, che è la maggiore venditrice di dischi, o altri generi musicali, i successi dell’estate, la musica usa e getta. Per fortuna, al contrario di quanto accade da noi che vediamo sparire i grandi autori e interpreti a favore dei reality, in Brasile c’è un WWF che difende i grandi autori in via d’estinzione.

Schermata 2015-03-13 a 13.25.30D. Quindi c’è spazio per il nuovo cantautorato e non solo per le interpretazioni dei grandi successi, cosa molto tipica in Brasile tanto da essere un «must» per chiunque faccia musica?
R. È anche vero che i grandi nomi della musica brasiliana continuano ad incidere e ad essere estremamente creativi, artisti come Ney Matogrosso che a più di 70 anni sperimentano ancora. Caetano Veloso potrebbe essere paragonato al nostro Gianni Morandi, ma quest’ultimo non ha mai fatto né fa la sperimentazione che fa Caetano. Quello di Mina, ad esempio, è un falso sperimentare, atipico e asettico, non essendo lei presente in prima persona nella sperimentazione. Un conto è ascoltare i nuovi autori, cosa che nessuno garantisce lei faccia davvero, un conto è confrontarsi, e lei è assente dalle scene. I brasiliani continuano ad essere i primi nella creatività anche perché sono aperti all’incontro anche casuale con i giovani, ai quali aprono molte strade.

D. Ha un’idea sulla pacificazione delle favelas operata dalle forze dell’ordine?
R. Non si può dire niente sulla pacificazione se non cose positive. Le favelas grazie alla pacificazione sono state rese più vivibili sia per coloro che le abitano, sia per coloro che vengono da fuori, fermo restando che stigmatizzo e non approvo l’atteggiamento dei turisti che prendono le favelas per zoo. Pensosamente, per comprare prodotti di cosmetica vado nelle favelas perché hanno un sistema di distribuzione più pratico rispetto ai negozi nel centro di Rio de Janeiro, mi trovo bene e pago con la carta di credito.

D. In quale favela in particolare?
R. La Rocinha.

D. Anche durante una semplice cena nella Rocinha, vedo in continuazione agenti armati, e le pattuglie passano con fucili spianati che escono da tutti i finestrini. Parlando personalmente con gli abitanti («moradores») della Rocinha, mi è stato da tutti riferito che da quando le unità di polizia pacificatrice (UPP) sono entrate nel territorio non si può più dormire con la porta aperta, i furti e le rapine sono all’ordine del giorno, la favela non è più sicura. Questo discorso è estendibile a tutte le altre comunità. Come giustifica questo e i numerosi e sanguinari scontri tra polizia e «moradores», non solo trafficanti, ma anche semplici residenti?
R. Non credo a una sola parola di quello che mi arriva, posso credere solo a ciò che vedo. Il dubbio è se la polizia brasiliana possa o meno difendere il diritto del cittadino. Sui social network si vedono video tragici in cui i poliziotti picchiano chiunque accomunandoli sotto il nome di delinquenti comuni. In generale diciamo che il Brasile, con le riforme sociali e con questo avanzamento economico, auspica un miglioramento dei servizi di sicurezza, della sanità e del trasporto, questo è il primo obiettivo.

D. Hanno sgombrato coattivamente le comunità, ossia le favelas, non dando alternative agli abitanti. È d’accordo?
R. Per carità, non è stata un’azione da elogiare, ma ci sarà stato un motivo per cui è stata compiuta, nella sua tragicità. Prendere una famiglia che ha una baracca, costruita con tanta sofferenza, e sradicarla da un posto solo perché da un punto di vista estetico non è elegante, è sbagliato; ma è pur vero che per la crescita in un Paese tanta gente si deve sacrificare, e i poveri sono quelli che cadono prima.

D. Uno dei quartieri più residenziali e ricchi di Rio de Janeiro è Gavea, che confina con la Rocinha trattandosi di una collina colonizzata in un lato dalla favela, nell’altro dalla città. È plausibile che Gavea via via si estenda dall’altro lato e si residenzializzi, sgomberandola, la Rocinha?
R. In realtà il procedimento è stato inverso: negli anni 90 le casupole della Rocinha erano appena sul cucuzzolo della montagna, adesso stanno scendendo e si stanno espandendo.    (Romina Ciuffa)

 

Anche su Specchio Economico – Marzo 2015
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TRATTAMENTI NEGLI ISTITUTI PENITENZIARI (PARTE DUE): L’EDUCAZIONE FORMALE IN CARCERE

La prima parte dell’articolo è contenuta al link: www.rominaciuffa.com/carcere-funzione-rieducativa

 

 

 

 

L’ISTRUZIONE IN CARCERE. Il verbo «educare» deriva dal latino e-duco, ossia «porto fuori». Si «portano fuori» norme, principi, valori, regole di comportamento. Anche nel caso di condanne molto lunghe, l’educazione formale è necessaria all’apprendimento di regole di civiltà da impiegare nei rapporti con gli altri detenuti, con gli operatori, nelle attività svolte all’interno del penitenziario, comunqhttps://www.rominaciuffa.com/wp-admin/post-new.phpue e sempre per valorizzare aspetti del sé non curati in precedenza. L’alfabetizzazione risulta essere carente all’interno dei luoghi di pena tanto per il basso livello sociale da cui provengono spesso i rei quanto per l’elevata presenza di extracomunitari; e, a monte, la sua assenza è tra le cause – fatte risalire a una più generale mancanza di educazione – che spesso conducono al reato. Un’istruzione formale è dovuta al carcerato secondo il senso più pregnante e diretto dell’articolo 27, comma 3 della Costituzione: rieducare vuol dire, prima di tutto, educare. Dunque, istruire.

Educare in carcere significa, prima di tutto, educare alla libertà: non solo quella del mondo libero, ma del mondo mentale. Il pensiero dev’essere costruito per divenire costruttivo, per capire il nesso eziologico di un’azione con la sua conseguenza. È necessaria un’educazione alla moralità, non intesa come valori di un ceto, di una classe politica o di una religione, bensì valori d’umanità, diritti dell’uomo, civiltà e regole, per la crescita del detenuto e la sua responsabilizzazione. Sulla religione, che è anche rieducazione ma che non va confusa con «moralità», sono sollevati problemi relativi alla multirazzialità e alla soggettività della scelta religiosa, anche in senso ateo.

La Costituzione del 1948, oltre a dettare la norma dell’articolo 27, statuisce nell’articolo 34: «1. La scuola è aperta a tutti. 2. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. 3. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. 4. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». La norma fissata dal Costituente impone al Legislatore di creare le condizioni per garantire l’istruzione in carcere, non più da intendersi come coercizione ma alla stregua di un’opportunità per i singoli detenuti.

Il termine «trattamento» era stato usato anche nella legislazione precedente, ma l’Ordinamento penitenziario ha provveduto ad una formale esplicazione. Questa visione più ampia rende necessaria la previsione di nuove figure di operatori, quali educatori, assistenti sociali, insegnanti, volontari (articoli 17 e 78 dell’Ordinamento stesso), psicologi, pedagoghi e psichiatri criminologi che, sotto il controllo interno del direttore dell’istituto e quello esterno del Magistrato di Sorveglianza, prestano la propria opera attraverso interventi singoli o di gruppo.

L’istruzione in carcere, oltre che un diritto costituzionale, è più che altro elemento del trattamento rieducativo del condannato: l’andamento e gli esiti influiscono sull’eventuale adozione di misure come permessi-premio o riduzioni di pena. Da cui se ne capisce l’importanza di un’attuazione a fianco della predisposizione di nuovi progetti: uno per tutti, quello di educazione ambientale del Centro di Educazione ambientale di Ferrara. Eppure, se nella quasi totalità delle carceri italiane viene garantito il diritto all’istruzione mediante corsi istituzionalizzati o gestiti da volontari, è di fatto impossibile consentire l’accesso alle lezioni di tutti coloro che ne fanno richiesta, i locali non sono idonei o non sono presenti, lo svolgimento delle attività è legato solo al senso di responsabilità e alla sensibilità dei singoli docenti.

L’ALFABETIZZAZIONE IN CARCERE. Il detenuto è un minore, un adulto, un extra-comunitario: richiede alfabetizzazione. Un’educazione permanente implica che se ne ripensi il contenuto in modo da tener conto di fattori quali età, differenze di sesso, lingua, cultura e status economico, handicap. È indispensabile che le procedure adottate in materia di educazione degli adulti siano fondate su eredità, cultura, valori ed esperienze pregresse degli interessati, e condotte per facilitare e stimolare la partecipazione attiva e l’espressione dei cittadini. Ma si è ancora lontani da una visione dell’educazione come sinonimo di scolarizzazione. Alfabetizzazione in carcere significa, dopo l’abc, informatica e biblioteca. Le prigioni devono esser dotate di tecnologia e personale, i mezzi garantiti da un elevato livello di sicurezza informatica per evitare manomissioni o «evasioni virtuali».

Si tratta, soprattutto, dell’apprendimento dei più comuni programmi informatici per l’avvio di una professione futura. La biblioteca carceraria deve offrire risorse documentarie e servizi paragonabili alle biblioteche del mondo libero e sviluppare una collezione «bilanciata» che rappresenti un’ampia gamma di punti di vista a disposizione degli utenti detenuti per una lettura senza vincoli ideologici. Ciò che la persona in stato di reclusione legge, dipende dalla qualità e dalla pertinenza della raccolta bibliotecaria. Con personale qualificato, una raccolta di opere che rispondono ai bisogni educativi, ricreativi e di riabilitazione dei detenuti e con uno spazio fisico invitante, la biblioteca può costituire una parte importante della vita carceraria e dei programmi per i detenuti e rappresentare una rilevante «linea di comunicazione vitale» con il mondo esterno, essere uno strumento di gestione efficace per l’amministrazione del carcere perché riduce l’ozio e incoraggia un uso costruttivo del tempo, e costituire la risorsa informativa vitale che fa la differenza tra il fallimento e la riuscita all’esterno del carcere per un ex detenuto appena scarcerato.

L’International Federation of Library Associations, Sezione Libraries Serving Disadvantaged Persons, ha stilato un documento allo scopo di fornire uno strumento per la pianificazione, l’implementazione e la valutazione di servizi bibliotecari rivolti ai detenuti, che riflettano un livello accettabile di servizio bibliotecario, raggiungibile in buona parte dei Paesi in cui le politiche nazionali e locali sostengano l’esistenza di biblioteche carcerarie. Oltre a costituire uno strumento pratico per la fondazione, il funzionamento e la valutazione delle biblioteche carcerarie, il documento funge da affermazione di principio del diritto fondamentale dei detenuti a leggere, apprendere ed accedere all’informazione.
In buona parte dei Paesi del mondo gli individui che costituiscono le popolazioni carcerarie hanno un limitato bagaglio sia di istruzione che di competenze sociali e non provengono da ambienti in cui la lettura è un’occupazione frequente o popolare; i detenuti e il personale non sono necessariamente utenti di biblioteca auto-motivati, perciò «dovrebbe essere prestata grande attenzione all’atteggiamento amichevole della biblioteca verso gli utenti». La cooperazione è un ingrediente necessario per garantire che i bibliotecari carcerari siano in grado di dispensare un buon servizio; e l’isolamento, si indica, può essere diminuito stringendo relazioni con altre biblioteche carcerarie in tutto il mondo.

IL LAVORO INFRAMURARIO E IL LAVORO EXTRAMURARIO. Il lavoro penitenziario mantiene la funzione di cardine del trattamento rieducativo: infatti, a norma dell’articolo 15, comma 2 dell’ordinamento penitenziario, a tali fini, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è addirittura assicurato il lavoro. Le forme di lavoro penitenziario e le modalità di esecuzione dello stesso sono classificabili in due grandi categorie: lavoro inframurario ed extramurario.

Il lavoro inframurario si caratterizza per la figura del datore di lavoro e il carattere poco produttivo dell’attività prestata. Anche detto dei «lavori domestici», è strutturato in attività solitamente non imprenditoriali, che si esplicano in servizi destinati all’istituzione stessa, come il servizio di cucina per detenuti e per operatori penitenziari o quello di pulizia dei locali comuni. La trilateralità di rapporti che caratterizza le altre forme di lavoro penitenziario – detenuto lavoratore, amministrazione penitenziaria e datore di lavoro – è qui assente, finendo questi ultimi due per essere inglobati nel medesimo ruolo, cosicché le esigenze rieducative del condannato risultano strettamente collegate ad elementi appartenenti alla normale disciplina del lavoro subordinato o autonomo.

Si differenzia da esso il lavoro inframurario alle dipendenze di terzi, anche detto delle «lavorazioni» – ad esempio, produzione di coperte, confezionamento del vestiario e della biancheria per gli agenti di custodia e per i detenuti, attività di falegnameria – caratterizzato da una maggiore produttività organizzata su base industriale e modellata sul prototipo dell’ambiente libero. Riguardo al lavoro extramurario, l’articolo 21, come novellato dalla legge n. 663 del 1986, e l’articolo 48 del decreto presidenziale 230/2000 (Reg. Es. O.P.) consentono al detenuto di avere accesso ad una normale organizzazione produttiva alle dipendenze di un imprenditore, con provvedimento discrezionale del direttore dell’istituto opportunamente motivato.

Negli ultimi anni il lavoro penitenziario ha perso l’originario carattere afflittivo e si è visto assegnare una remunerazione dagli articoli 22 e 23 dell’O.P., ha ottenuto il diritto agli assegni familiari e si è applicata la disciplina sul collocamento. Nonostante i passi in avanti, le attività di lavoro riguardano un numero di soggetti trascurabile, mentre resta rilevante il lavoro domestico intramurario, includendovi l’ordinaria manutenzione degli immobili penitenziari, con la sua scarsa imprenditorializzazione. Tranne poche eccezioni, l’Amministrazione penitenziaria è rimasta per lungo tempo l’unica committente delle proprie episodiche lavorazioni – tavoli, sedie, armadi, coperte ecc.- e ciò è stato imputabile all’impreparazione manageriale della dirigenza carceraria, alla carenza di manodopera esperta nelle lavorazioni, alla mancanza di maestri d’arte, all’inadeguatezza delle strutture carcerarie e alla difficoltà di introdurvi processi produttivi e tecnologici: il tutto a scapito del trattamento rieducativo del detenuto e della qualificazione professionale necessaria al successivo (re)inserimento sociale.

Sia la legge 12 agosto 1993 n. 296 recante nuove misure in materia di trattamento penitenziario nonché sull’espulsione dei cittadini stranieri, che la legge Smuraglia del 22 giugno 2000 n. 193 hanno delineato nuovi strumenti e aree per la creazione e gestione di lavoro intra ed extramurario, affidando al volontariato e alle cooperative sociali la funzione di soggetti maggiormente qualificati ad agire in tali spazi. Il problema, oltre alla difficile reperibilità della liquidità necessaria, è la difficile assunzione di responsabilità da parte dei soci lavoratori (detenuti) e la fatica a costruire livelli gerarchici in una cooperativa di soggetti da rieducare che non accettano di essere comandati da chi si trova nelle loro stesse condizioni, e l’accettano solo «da altri».

IL PROGETTO DELLA REGIONE LOMBARDIA PER LA PROMOZIONE DI INTERVENTI DI INCLUSIONE SOCIALE DEI CITTADINI DETENUTI. La stessa Amministrazione penitenziaria denuncia «l’inidoneità e l’inagibilità degli istituti penitenziari, le difficoltà d’accesso e di controlli, la mancanza di continuità o le eccessive pause nei colloqui familiari-educatori-avvocato o nell’ora d’aria, la scarsa professionalizzazione di detenuti, un regolamento contabilità dello Stato non adeguato che, determinando un eccessivo costo del lavoro, rendono problematica una positiva resa sul mercato a qualsiasi imprenditore nonostante gli sgravi fiscali previsti dalla Smuraglia. Sono ammesse anche colpe proprie dell’Amministrazione»: si tratta a tutti gli effetti della denuncia dell’approssimativa sistematizzazione della problematica, della mancata emanazione di linee guida, dell’assenza di verifica e di esportazione di positivi progetti realizzati, e di una inadeguata ricerca di partner. Non è tutto rose e fiori, in gabbia.

Per questo l’Amministrazione penitenziaria, distribuita in numerose realtà locali, compie un’attività di promozione, ricerca e organizzazione di attività lavorativa, anche in collaborazione con altre strutture pubbliche e private, avvalendosi delle novità introdotte dal Nuovo Regolamento di esecuzione dell’O.P. del 2000 e dalla legge Smuraglia. Presupposto essenziale è la predisposizione di politiche attive d’intervento capaci di coniugare l’aspetto trattamentale con le necessità imprenditoriali. Il punto non è solo o tanto la rieducazione, quanto la disponibilità di imprese ad assumere detenuti ed ex detenuti. Un progetto, «Responsabilità sociale di impresa: lavoro, carcere e imprese», si ripromette la promozione di interventi volti alla loro inclusione sociale. Obiettivo dichiarato è favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti nelle imprese profit e no profit lombarde, intervento che riguarda in primo luogo i diretti interessati e le istituzioni penitenziarie ma che, per diffondersi in modo significativo e proporzionale alle potenzialità e ai vantaggi per le imprese, necessita di promozione anche e soprattutto extramoenia.

Le testimonianze fornite da operatori e imprenditori sulle esperienze maturate hanno dato atto delle potenzialità e dell’attuale efficacia della collaborazione tra istituzioni regionali e locali, sistema camerale, mondo imprenditoriale e cooperativo. In Lombardia, l’inserimento lavorativo di detenuti conta su diverse esperienze di successo soprattutto nell’ambito delle cooperative sociali (95 imprese hanno dato lavoro almeno a una persona proveniente dal circuito penitenziario), mentre è ancora ridotto nelle imprese profit. Di queste esperienze possono avvalersi le altre Regioni nella predisposizione di interventi simili in territori diversi, la cui situazione è spesso resa assai più problematica dal contesto, dalle effettive opportunità lavorative, dalla povertà intrinseca al territorio, dalla differente visione dell’individuo e del suo background.

L’inclusione sociale dei detenuti rientra nelle prassi della responsabilità sociale d’impresa: il sistema camerale lombardo è impegnato a promuovere e accompagnare le piccole e medie imprese, informa sui vantaggi diretti derivanti da questa opportunità sia negli sgravi fiscali, sia nella responsabilità sociale. Il primo protocollo tra la Regione Lombardia e l’Amministrazione penitenziaria competente è stato siglato nel 1999 ed ha avuto ad oggetto l’insediamento di una Commissione, con l’obiettivo specifico di creare una rete di rappresentanza per la diffusione del rientro dei detenuti nella società e nei propri territori. La Regione stessa ha coinvolto soggetti diversi e stretto alleanze per diffondere la conoscenza delle opportunità normative e degli strumenti a disposizione nelle imprese lombarde. Il sistema camerale lombardo partecipa al tavolo della Commissione Lavoro Penitenziario istituita presso il Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria, per sviluppare iniziative dirette agli scopi dell’articolo 27 della Costituzione, in relazione al principio di eguaglianza sostanziale di cui all’articolo 3 comma 2 della stessa: il ruolo di cui si è fatto carico è quello di trasmettere le esigenze delle aziende e trasferire in ambito carcerario il know-how proprio dell’impresa.

L’impegno assunto dall’Unioncamere Lombardia è promuovere l’incontro della società delle professioni con la popolazione carceraria e sensibilizzare le imprese, accompagnandole nel processo di integrazione sociale. Svolgendo un ruolo di «interfaccia», le Camere forniscono alle imprese gli strumenti per conoscere la realtà carceraria e portano all’attenzione degli organi regionali e territoriali preposti all’Amministrazione penitenziaria le esigenze delle imprese, dalla rigidità degli orari ai controlli, all’accesso a sgravi fiscali e contributivi di cui le imprese non sono a conoscenza. Altro contributo allo sviluppo del progetto è l’individuazione dei settori economici di maggiore potenzialità, tra cui spiccano l’artigianato e quelle attività che puntano sul singolo individuo.

La convenienza non è solo riscontrabile per le imprese, che hanno a disposizione maggior manodopera, ma riguarda l’intera società: la riabilitazione attraverso il lavoro è tra le forme più efficaci di prevenzione del crimine. Il beneficio è calcolabile come la riduzione dei costi sociali che si verifica per la diminuzione delle recidive: un detenuto inserito nel mondo del lavoro a fine pena è meno portato a commettere nuovamente reati; la popolazione carceraria impegnata in progetti lavorativi ha la possibilità di sostenere la famiglia e di vivere l’esperienza punitiva senza preoccupazioni economiche; una volta scontata la pena, ha meno probabilità di tornare a delinquere per necessità.

La citata legge Smuraglia per le imprese profit e le cooperative sociali, insieme alla legge 8 novembre 1991 n. 381, contenente la disciplina delle cooperative sociali, prevede varie misure con le quali è favorita l’attività lavorativa dei detenuti e sono applicati sgravi fiscali e contributivi ai soggetti pubblici o privati (imprese o cooperative sociali) che assumono detenuti in esecuzione di pena. La Commissione regionale per il Lavoro Penitenziario, prevista dall’articolo 25 bis O.P., svolge un ruolo di coordinamento e di supervisione e si occupa di dare uniformità agli interventi in un circuito unitario. Potendosi avvalere delle agevolazioni previste dalla legge Smuraglia, l’Amministrazione Penitenziaria ha istituito una specifica Agenzia che, interagendo con le numerose agenzie e attività progettuali presenti nel territorio, costituisce una struttura di supporto ed operatività per la Commissione. L’Agenzia regionale per la Promozione del Lavoro Penitenziario ottimizza, con la collaborazione delle Direzioni degli Istituti penitenziari e degli Uffici di Esecuzione penale esterna, le modalità di inserimento nel mondo del lavoro; riceve i curricula di tutti i detenuti occupabili trasmessi dalle Direzioni, raccoglie le offerte di lavoro ed ha la facoltà di proporre, in base a queste ultime, anche il trasferimento in ambito regionale dei detenuti.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Luglio 2014

 

 

 

 




FUNZIONE RIEDUCATIVA DELLA PENA (PARTE UNO): IL RUOLO DELLO PSICOLOGO VA POTENZIATO

In un sistema democratico l’imputato si presume innocente fino alla sentenza di condanna, dopo la quale assume la condizione formale di condannato ed eventualmente, nell’entrare in un istituto penitenziario per espiare la condanna applicata dal giudice della cognizione, quella sostanziale di detenuto. Nella fase dell’esecuzione – competente ne è il Magistrato di sorveglianza – si aprono molte strade.

Esse sono tutte guidate da un unico strumento: il trattamento penitenziario, una serie articolata di interventi tesi a contrastare gli effetti negativi della detenzione e dell’internamento.
Pregiudiziale è l’attività di osservazione del comportamento e della personalità, per garantire la massima individualizzazione degli strumenti applicati. Di entrambi – osservazione e trattamento – è responsabile lo psicologo che, con altri operatori, è definito «esperto» dall’articolo 80 dell’Ordinamento penitenziario.

In questi articoli – il presente e quelli che seguiranno – individueremo le norme che consentono l’esperimento dell’attività rieducativa all’interno degli istituti penitenziari, sorte sotto l’egida del dettato dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione, e la rimarcazione delle lacune del sistema. Sarà descritto il trattamento rieducativo come il programma teso a modificare gli atteggiamenti del condannato e dell’internato, che sono stati la causa della sua mancata integrazione sociale, ed analizzate le varie dottrine che incidono sulla visione del condannato e del suo comportamento antisociale. Saranno analizzate le modalità alternative con le quali può essere eseguita la pena e se ne stabilisce il valore dal punto di vista della sicurezza sociale e della maggiore stabilità del sistema nel suo rapporto con la recidiva.

Si esemplificheranno, quindi, gli strumenti che l’Ordinamento penitenziario, introdotto nel 1975 e integrato negli anni, mette a disposizione del sistema carcerario per assicurare al condannato un processo cognitivo ed emozionale completo che gli consenta non solo di comprendere il valore della propria azione criminale, ma anche di inserirsi in un iter di ricostruzione attraverso l’educazione. Si indicheranno le strade dell’educazione formale – quella (più cognitiva) che si ottiene dall’istruzione, dal lavoro intramurario ed extramurario, dalla religione – ed informale – più emozionale, perseguita attraverso creatività e interazione, nonché un più profondo contatto con l’inconscio (è il caso dell’arteterapia, delle attività teatrali e musicali in carcere, dei rapporti con la famiglia e con l’esterno) – e si nomineranno altresì progetti di ricerca-intervento che hanno trovato accesso, diretto o indiretto, negli istituti penitenziari e, quando possibile, se ne valuteranno gli effetti. Nondimeno saranno individuati degli interventi che, realisticamente, prendono atto della difficoltà sociale, del pregiudizio, dell’effettivo reinserimento dell’ex detenuto nel sistema lavorativo ed affettivo e, allo scopo di non rendere vano il percorso evolutivo affrontato nel corso della detenzione, predispongono anelli di giunzione tra carcere e impresa.

La pena assorbe più funzioni, a seconda di come la si interpreti e la si sia interpretata nelle varie epoche storiche. Oggi l’articolo 27, comma 3, della Costituzione enuncia: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Sono la Scuola classica e la Scuola positivista ad aver determinato le due letture chiave: l’articolo 27 risponde ai postulati della Scuola positiva del diritto penale, che respinge la concezione afflittiva della pena postulata dalla Scuola classica («tanto male inflitto per tanto male arrecato») e dà alla pena finalità di difesa sociale nella sua funzione di riadattamento, in accordo con la concezione della responsabilità di fronte alla legge penale.

Prima la Scuola classica, basandosi su una concezione assoluta del diritto, aveva posto a fondamento del diritto penale i seguenti principi: a) il delinquente è un uomo qualunque senza particolari differenze da tutti gli altri; b) la condizione e la misura della pena sono commisurate in relazione alla presenza e al grado del libero arbitrio; c) la pena ha funzione etico-retributiva del male commesso, perciò deve essere assolutamente proporzionata al reato, afflittiva, personale, determinata e inderogabile.

La funzione rieducativa, volta a cogliere l’occasione della condanna penale per perseguire la risocializzazione e il recupero del condannato costituisce anche la ratio giustificatrice delle pene sostitutive (articolo 53 della legge n. 689 del 1981) e delle misure alternative alla detenzione (articoli 47-54 della legge n. 354 del 1975); queste ultime possono evitare al detenuto la permanenza in stabilimenti carcerari (affidamento in prova, detenzione domiciliare) o ridurre la durata della permanenza in carcere (semilibertà, liberazione anticipata per riduzione di pena), come descritto dalla citata legge dell’Ordinamento penitenziario n. 354 del 26 luglio 1975 recante le norme sull’Ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà e dal successivo Regolamento di esecuzione.

Quando si parla di Ordinamento penitenziario si fa riferimento all’apparato normativo che regolamenta il momento della privazione della libertà personale in esecuzione di una sanzione penale, in particolare della legge n. 354. Caratteristica della riforma penitenziaria del 1975 è quella di essere nata da sola, senza che l’opinione pubblica fosse chiamata ad esprimersi, né alcuna dottrina fosse ascoltata. Comunque il testo della legge resta fedele agli intenti rieducativi del terzo comma dell’articolo  27 della Costituzione e rifiuta la tesi dell’irrecuperabilità di taluni quando proclama l’applicabilità del trattamento «a ciascun internato o condannato» (articolo 13 comma 3).
Il ministro di Grazia e Giustizia dell’epoca, Mario Zagari, sintetizzava in cinque note le mete che la legge intendeva perseguire: l’umanizzazione del trattamento; l’efficacia del trattamento; il favorire i contatti con il mondo esterno; la giurisdizionalizzazione dell’Ordinamento penitenziario attraverso il magistrato di sorveglianza, figura indipendente dall’amministrazione cui affidare la supervisione dell’esecuzione penitenziaria; la riduzione della popolazione detenuta mediante l’introduzione di misure alternative alla pena detentiva.

Con queste norme, varate proprio mentre entra in crisi la concezione medico-clinica della rieducazione, il legislatore ha inteso dare importanza alla funzione risocializzatrice della pena soprattutto nella fase esecutiva, considerando il carcere non più come luogo di segregazione e di separazione dalla società, ma come momento di intervento per offrire le strutture materiali e psicologiche necessarie al reinserimento. I principi fondamentali sono elencati sin dal primo articolo della legge n. 354, intitolato «Trattamento e rieducazione»: innanzitutto, il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Esso è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni su nazionalità, razza, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche, credenze religiose. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Infine, il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti; si specifica anche: i detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome. L’ 431 del 29 aprile 1976 descrive il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà come «l’offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali», e aggiunge: «Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale».

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È possibile una modificazione degli atteggiamenti? C’è un suggerimento nell’articolo 4 sull’integrazione e il coordinamento degli interventi di ciascun operatore professionale o volontario: questi «devono contribuire alla realizzazione di una positiva atmosfera di relazioni umane e svolgersi in una prospettiva di integrazione e di collaborazione».

Il trattamento rieducativo è attuato in base all’articolo 1, comma 6, O.P. «secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti». La metodologia di realizzazione del trattamento è descritta nell’articolo 13 O.P. e consta di tre punti fondamentali: il punto di partenza è rappresentato dai bisogni, dalle carenze del soggetto e dalle cause del disadattamento sociale, il punto di arrivo è costituito dal reinserimento sociale, il tramite tra i due è formato dall’osservazione scientifica della personalità e dalla conseguente offerta di interventi che rappresenta per l’Amministrazione penitenziaria un obbligo di fare.

Il coordinato disposto dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione e delle norme dell’Ordinamento penitenziario delinea un sistema di gestione dinamica  dell’esecuzione della pena attraverso l’uso degli strumenti ordinari previsti a tale scopo, rappresentati dalla promozione della redazione e dell’attuazione dei programmi di trattamento per la definizione dei percorsi di reinserimento sociale, e dall’ammissione alle varie alternative alla detenzione.  (ROMINA CIUFFA, psicologa)

SEGUE. Parte due: https://www.rominaciuffa.com/carcere-educazione-formale/