BUTTARE GLI OGGETTI A CUI CI SI AGGRAPPA

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BUTTARE GLI OGGETTI A CUI CI SI AGGRAPPA. Le cose si amano. Quale errore! Spesso contengono la proiezione di qualcuno, di un momento, sono praticamente album di ricordi, gli si attribuisce un’anima un po’ come ai peluche, che si fatica a gettare anche se vecchio e non più utilizzato perché “ti guarda con quegli occhioni”. Ci sono anche altre cose che guardano con quegli occhioni, che non si fanno mai gettare, alle quali attribuiamo un significato troppo pressante, quasi pesante, tanto da rendere quelle cose il significato stesso, come dei transformer che divengono ciò che essi proiettano all’esterno, una sorta di trappola inconscia che rende l’uomo solo apparentemente più stabile in quanto può “reggersi” aggrappandosi a qualcosa di concreto e togliendosi da quel mondo tutta psiche nel quale, altrimenti, sarebbe immesso.

Ma a volte esagera. Oggettini, cosette, minuzie, esempio lampante le calamite sul frigo che portano i momenti del viaggio come fossero il viaggio stesso, le collezioni, i bigliettini. Le cose ci tengono attaccati alla realtà, ma non devono essere un ostacolo al ripopolamento del proprio inconscio con nuovi ricordi, nuovi momenti, nuove persone, nuove emozioni. Le cose, in effetti, ci attaccano al passato e anche il passato più bello diviene doloroso nell’accezione di “nostalgico”, si guarda indietro crepuscolari, si fa fatica a non voltarsi per procedere spediti sulla propria strada, sul motto di “chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quello che perde ma non sa quello che trova”. Gli oggettini ci attirano a loro come dei piccoli demonietti che ci vogliono solo per sé, invidiosi del resto, gelosi, insidiosi: io sono il tuo passato, rappresento un momento che faccio ripetere in eterno, non puoi andare via, rappresento una persona che grazie a me esiste ancora, rappresento la tua giovinezza, rappresento la tua infanzia, rappresento te stesso.

Buttare. Prendere e buttare tutto ciò che è di troppo. I ricordi restano, le cose impolverate non servono. Minimizzare e minimalizzare la propria vita, la propria casa, rendersi un contenitore di emozioni e prescindere dall’appoggio concreto a un passato che estende comunque i suoi raggi ad oggi e ci trasporta al domani. Buttare consente di arrivarci più puliti, di compiere un percorso psicologico sul nostro divenire, ci rende liberi. Eliminare le cose tanto belle quanto brutte, soprattutto queste ultime, quelle che riportano a dolori dai quali non vogliamo staccarci. Fare piazza pulita dà un senso di liberazione e consente di introdursi in nuovi stati dell’animo presente, fa sì che con intelligenza si possa creare giorno per giorno la propria vita non rinunciando alle emozioni che, in ogni caso restano; insegna a ricordare tutto senza dover toccare con mano ciò che già non c’è più, riporta alla realtà dell’oggi, permette di rivedere certe persone nella vita vera e smettere di appoggiarsi all’oggettino che arriva dal passato, rende tutto nuovamente presente, garantisce continuità all’essere.

Magari non tutto, ma buttare quasi tutto, dare una bella ripulita alla casa, comprare sacchi condominiali, far sì che si possa passare una mano sulla mensola senza dover spostare decine di cosette impolverate. Tutti questi demonietti, se scalzati dalla libreria e gettati, possono continuare a vivere dentro di noi con i loro significanti, che invece non sono gettati bensì rafforzati dal sentimento e della decisionalità di ricanalizzarli dentro di noi, dove invece hanno tutto il diritto di essere. Non moriranno perché tolti dal salotto o dalla cucina, renderanno però la casa più pulita e avranno finalmente la possibilità di divenire angioletti volanti che tornano in maniera sana. Qualche lettera la si può tenere, ma gettiamo pure la schiuma da barba dell’ex o la scatoletta del viaggio dei diciott’anni. Manteniamo per noi la forza del ricordo e l’intenzione di ricordare tutto.

Romina Ciuffa, 26 maggio 2025

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LA TERAPIA NON DEVE FAR MALE ALLA COPPIA

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LA TERAPIA NON DEVE FAR MALE ALLA COPPIA. Quando un rapporto si spezza, è un rapporto spezzato. Non è facile riportarlo in auge, di certo non come prima perché il prima non esiste più e spesso, nonostante sia stato forse stupendo, è ciò che ha causato la rottura. Sarà difficile non voltarsi più indietro per guardare gli errori, pesarli e farli pesare, perché a tutti gli effetti essi sono un peso. Consigliano la terapia di coppia, ma essa è in molti casi ancor più deleteria perché diviene un luogo di profondi dissidi che lo psicologo solitamente, pur volendo, tende a complicare. Ci si trova a dover affrontare logoranti ore “terapeutiche” di litigi forti. Presto atto che quello è il luogo “protetto” dove mostrarsi per far emergere le proprie dinamiche e complicazioni, potrebbe ben facilmente divenire l’incubatrice di un’angoscia, qualcosa di traumatizzante per i partner o per uno solo dei due, l’appuntamento con l’ennesima discussione. I partner non vogliono altro che tornare insieme, e amarsi, semplicemente amarsi.

Inoltre, una volta usciti dalla terapia, se lo psicologo non è stato in grado di smussare, alla fine dell’ora, gli angoli più dolorosi di entrambi i pazienti e riportarli a una visione comune, delicata, più dolce e costruttiva, si potrebbe creare una tensione che i due faticheranno a sciogliere. Non si può scambiare una seduta, che dovrebbe essere la panacea del bene per i partner che in essa sperano e mettono tutti loro stessi, per un terreno minato, un luogo di tortura, il Dissapore per eccellenza, quello che essi scalzano e per il quale, precipuamente, sono stati indotti ad andare in terapia. Quel luogo protetto non può divenire la Striscia di Gaza della coppia, località dove avvengono bombardamenti continui e dove la pace non si riesce a trovare.

Non necessariamente la responsabilità è dello psicoterapeuta, ma se è vero che in quell’ora le parti da considerare sono tre, allora almeno per un terzo – o un mezzo, se si considera la coppia come uno – lo psicoterapeuta diviene il soggetto che deve sì studiare le dinamiche tra i due ma anche mediare, se ciò è possibile, o comunque far sì che essi escano dalla terapia senza sentirsi cani bastonati, allora in tal caso è da valutare un cambio terapeuta finché non si trovi colui che faccia uscire dallo studio con un senso di leggerezza, non di pesantezza.

La psicoterapia, anche individuale, deve essere comunque un luogo dove la tensione scema. Vero è che è necessario scardinare anche i miti più antichi, andare alla ricerca dell’ago nel pagliaio, dolersi coraggiosamente, ma, sebbene intinti in grandi dosi di maggior consapevolezza e dovendo allontanarsi dalla seduta con dei dati da immagazzinare, delle emozioni da comprendere, un inconscio da affrontare perché possa esplicarsi nella sua totalità, i pazienti devono poter essere lucidi nei giorni seguenti e non temere quell’ora protetta. Altrimenti non ne gioverà né la terapia, né il singolo, e le paure aumenteranno. Occhio a chi non ha il cuore di cacciarvi con dolcezza.

Romina Ciuffa, 25 maggio 2025

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LE PASSIONI SONO I PRIMI AMORI

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LE PASSIONI SONO I PRIMI AMORI. Le passioni sono i primi amori, non è vero il reciproco. Sono quelle che ci allontanano dalle persone e ci avvicinano a noi stessi perché vanno a toccare la più intima parte del nostro essere, quella che ci consente di staccare da tutto e di attivare le nostre risorse. Si manifestano quando il nostro Io viene a galla amandosi, vedendosi, riconoscendosi, finalmente sapendo di se stesso. Vanno al di là delle convenzioni sociali perché una passione o si ha o non si ha, o si è o non si è, non si può prendere ed attaccare al corpo – se si ama la matematica si ama e basta, non la si ama perché qualcuno lo impone; certo, ci si può iscrivere alla Facoltà e proseguire anche brillantemente gli studi, ma o è passione o non lo è, questo parte da molto più dentro.

È per questo che quando la passione non si scopre ci si sente vuoti. Possono trascorrere anni, una vita intera, senza sapere “cosa si è” nel più profondo di sé, e qui faccio esclusivo riferimento a quel quadro di talenti ed amore verso cose ed azioni che non sempre è destinato ad emergere, piuttosto può essere totalmente sommerso dalle convenzioni famigliari e sociali. Si può amare la musica senza sapere di poter essere brillanti pianisti, e trascorrere l’intera vita senza pianoforte, senza saper suonare, senza aver ricevuto gli stimoli adatti, l’intera infanzia a fare corsi di tennis e ginnastica artistica senza mai incontrare un pianoforte e qualcuno che possa dire: sei davvero portato, perché non vai avanti? Ciò spesso è dovuto alla scarsa consapevolezza del genitore e all’eccesso di stimoli e motivazioni che rendono la vita impossibile.

L’amore verso una cosa è uno degli amori più leali che possano prendere piede nell’animo di una persona, destinato a salvarlo da ogni situazione, a volte può essere così devastante da fare anche male, per l’eccesso di zelo che vi si possa mettere, per l’ossessione che ne possa nascere. Sono tutti mali buoni che consentono all’Io di crescere nella sua più amplia accezione, quella di un se stesso grande, consapevole, eterno, tanto da divenire a volte obiettivo di vita, senso della stessa, motivo per alzarsi ogni mattina. Quando però la cosa che è dentro di noi non si palesa, quando la passione non fuoriesce, si potrebbe trascorre una vita sentendosi vuoti, carenti, a volte falliti per non essere riuscita nei campi dove si è tentato. Vi sono persone che, invece, non hanno passioni e stanno bene così, senza esplodere in un grande se stessi bensì tirando avanti come la vita richiede, giorno per giorno, con le passioni generiche che essa mette a disposizione, confondendo chi non ne ha: ad esempio, quella di fare un figlio, o di seguire il calcio, o di pranzare fuori il sabato. Passioni semplici che, se per alcuni sono reali, per altri sono la facile conquista di senso non interiorizzato.

Le passioni sono i primi e gli ultimi amori, quelli per i quali si vive e si muore, quelli che resteranno con l’individuo sino a che egli potrà sentire e capire; costituiscono uno dei suoi amori più patologici perché per esse egli sarà disposto a rinunciare a tutto o a qualcosa, a cambiare le sue risposte di vita, a declassare altro; e perché, se non coltivate, lo faranno sentire un inetto, gli daranno un senso di non completezza, saranno la cosa eternamente assente. Sono quelle che consentono di sempre dire: ciao, sono io.

Romina Ciuffa, 24 maggio 2025

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NON SI DICA CHE IL MALATO È SOLO LO “STALKERINO”

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NON SI DICA CHE IL MALATO È SOLO LO “STALKERINO”. E quanti mi piace ti ha messo, e quanti ne hai messi, e perché ti segue, e perché la segui, e perché sei online, e con chi sei su chat… Questi ed altri interrogativi nuovi hanno dato al tipico stalker la possibilità di controllare maggiormente, e fin qui tutto bene. Il problema è che internet, le chat e i social hanno creato nuovi stalker più alla base del sistema, i più addolorati, che non andrebbero a fare le poste sotto casa di lei o non la seguirebbero per strada per vedere dove va, non le manderebbero messaggi ossessivi ma sì che impiegherebbero tutti i mezzi alla loro portata, oggi, non necessariamente per divenire molestatori, per ossessionare forse ma, di certo, per ossessionarsi. E così, attraverso i nuovi media che oramai già tanto nuovi non sono, è stata cavata dalla popolazione una grandissima fetta di coloro che passano giornate e notti intere a controllare su internet qualunque mossa dell’altro.

Costoro non avrebbero mai pensato di aprire una lettera non propria, di spiare con il binocolo all’interno della casa dell’altro, di verificare quando l’altro alzi la cornetta, eppure è proprio ciò che stanno facendo virtualmente. Il reato di stalking, dunque, si è andato a popolare di nuovi intrusi ossessivi anche tra le fila della “brava gente”, un semplice innamorato che mai farebbe male all’altro ma che, in compenso, fa male a se stesso spiando di continuo le attività sociali di chi, effettivamente, insistendo sui social non fa che dargliene l’occasione mostrandosi a chiunque. Spesso lo spiato (non è il caso, per questa fascia di cui parliamo, parlare di molestato, poiché non si giunge nemmeno da lontano a concretare la fattispecie di quegli atti persecutori richiesti dall’articolo 612-bis del codice penale) non sa nemmeno di esserlo, perché il suo “stalkerino” (definizione mia per indicare uno stalker non giunto a maturazione tale da essere perseguito) in effetti non fa nulla di male, oltre ad ossessionarsi su cose che l’altro condivide pubblicamente.

Se le percentuali di stalker nel mondo sono tutte a favore di maschio, essendo i soggetti maschili oltre l’ottanta per cento, le donne al di sotto del venti, nel cyberstalking le percentuali tendono a variare. L’ossessivo diviene anche ossessiva, e lei cerca, attenta, ogni conferma che l’altro o l’altra stia attuando determinati comportamenti, confermandoli con rinforzi positivi, valutando molto meno le esclusioni, ossia, concentrandosi solo sul lato negativo di questa medaglia. Molto spesso le due persone sono una vera e propria coppia nella quale la fiducia manca o è venuta a mancare (lo stalking commesso dal partner è punito più alacremente). La patologia può raggiungere, in tutti i casi, alti livelli di gravità quando è lo stesso “stalkerino” a provare quel senso di ansia e disagio tale anche da cambiare il proprio stile di vita, che è invece richiesto dalla fattispecie del reato penale. Paradossalmente, dunque, lo “stalkerino” sta anche peggio dello “stalkerinato” che, in effetti, non per forza se ne accorge, e prova continue fitte allo stomaco, si ossessiona, non vive più, ha paura, avverte angoscia e una forma reiterata o continua di ansia, che niente può calmare. Questo disagio difficilmente va via con psicofarmaci o con una terapia psicologica, perché la “social-izzazione” (post, online, chat ed altro) prosegue e, finché non ci si sia allontanati sostanzialmente da quell’oggetto d’amore o di interesse, non sarà possibile allontanarsene anche formalmente, staccando computer e cervello.

Internet è stato un toccasana, ma ha creato malattie non curabili, tra le quali certamente l’assedio virtuale della propria insicurezza. A soggetti non candidabili per un reality show in quanto fino a ieri più attenti alla propria riservatezza viene praticamente inserita una telecamera in casa e, la cosa più assurda, è che sono essi stessi ad accenderla continuamente mostrandosi con post, chat, commenti, e una pallina verde “online”; così, chi vuole sapere di lui ha immediato accesso alla sua casa, al suo telefono, alle sue idee, ai suoi orari. Poi, però, non si dica che il malato è solo lo “stalkerino”.

Romina Ciuffa, 23 maggio 2025

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L’ABORTO È AMORE VERSO DI SÉ?

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L’ABORTO È AMORE VERSO DI SÉ? Rimanere incinta di qualcuno che non si vuole è un’esperienza drammatica che viene da molti confusa con quella splendida sensazione di matrice naturalistica che si chiama istinto materno. Aspettare un bambino che non si è chiesto è mortale, se non lo si voglia. Abortire è possibile nel nostro e in molti Paesi, non lo è invece in numerosi altri. Bisogna sentirsi in colpa per quel pensiero mostruoso? In nuce esso ha lo stendardo della libertà per quelle donne che sanno di essere solo un contenitore di cui l’intero mondo umano fa uso per fare figli, dimenticando però che non sempre la donna è lieta di procedere. La libertà diviene prigionia. L’aborto è sensato semplicemente quando la donna già non ami suo figlio per qualsivoglia ragione, non deve sacrificarsi per il sol fatto “peccaminoso” di essere rimasta incinta.

Poi ci sono donne dal grande istinto materno, l’esistenza delle quali non deve giustificare anni di battaglie delle donne per essere libere nel modo in cui lo vogliano intendere, che sia anche libere da quell’istinto materno che rende tanto felice le altre. Molte inseguono la maternità anche recandosi all’estero, comprando il seme o facendosi aiutare come coppia dalle cliniche della fertilità ormai sparse in tutto il mondo con regole più o meno libertarie. Non c’è la donna giusta e la donna sbagliata tra quelle che vanno a farsi mettere incinta e quelle che vanno ad abortire, esiste una cosa chiamata diritto e anche la donna “sbagliata” deve poterlo esercitare quando si tratta di se stessa, perché può mettere in campo un arsenale di diritti a partire dalla libertà fino alla disponibilità del proprio corpo senza doversi necessariamente sentirsi colpevole.

L’amore verso un figlio che ancora non esiste può essere molto forte, tanto da spingere molte donne a cercare una gravidanza a tutti i costi, ma potrebbe anche essere patologico sin dall’inizio e portare alcune di esse ad ingerire paure e a non volerlo. Non c’è nulla di cui vergognarsi. La riproduzione è qualcosa di talmente naturale da rendere naturale anche il suo opposto, il non riprodursi. Fuori da ogni morale e regola cristiana secondo cui avere un rapporto sessuale debba coincidere necessariamente con la questione riproduttiva, non volerlo fare è totalmente lecito ed ogni paura o dubbio debbono essere vagliati con grande attenzione e consapevolezza senza giudicarsi mai.

C’è un amore che è sacro, più sacro degli altri, ed è quello materno. Poi c’è un altro amore che è quello verso se stessi, che non è egoismo né amor proprio, ma è quello che fa sì che ci si dia ciò che il nostro cuore vuole, non di più, non di meno. L’amor sui, l’amore verso se stessi, può non coincidere con l’amore materno: nessuna donna è nata madre, nessuna dovrà nascere madre. Si nasce figli, poi si cresce e si decide per sé.

Romina Ciuffa, 22 maggio 2025

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SIAMO STATI TUTTI ABBANDONATI

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SIAMO STATI TUTTI ABBANDONATI. Siamo stati tutti abbandonati, dal primo trauma infantile: quello del distacco dalla madre al parto. Per questo siamo tutti portati a provare crisi abbandoniche. Si parla tanto, in psicologia, di madre buona e di attaccamento sicuro, ma questi due elementi non potranno garantirli né la madre buona né l’attaccamento sicuro, meglio detto: essi non bastano a se stessi. Qualunque cosa potrà sortire l’effetto, in infanzia. in adolescenza, di sentirsi abbandonati. Un bambino piccolo potrebbe avere crisi in tal senso tutte le volte che la mamma lo lasci al nido. Il solo fatto di togliersi dal radar del bambino può arrecare danno abbandonico. Anche il viziare può portare a questo, quando si vizia per non amare.

Così cresciamo, e non ricordiamo nemmeno più quell’angoscia mattutina di quando nostra madre ci lasciava alle maestre – di essa non ci rendevamo conto, ma era presente. Pur non ricordando, e pur avendo coltivato un attaccamento sicuro, possiamo da grandi continuare a soffrire dell’assenza dell’altro significativo, domandandoci perché non possa restare sempre con noi, al nostro fianco, costi quel che costi. È uno dei problemi più grandi dell’amore ed anche quello che lascia una coppia ferma su se stessa, senza il coraggio per i due di lasciarsi. I partner non vogliono provare quell’orribile emozione e tormento di abbandono e sono disposti a fare di tutto purché la relazione funzioni o torni a funzionare. In questa fase, appena l’altro posa gli occhi sul non-me, si sta subito male, si prova gelosia, possesso, terrore. Siamo tutti stati abbandonati e possiamo tutti comprendere cosa ci fa rimanere pur sapendo che andare sarebbe la soluzione a tutto il male.

Siamo tutti stati abbandonati, ma alcuni di più, e sono coloro che generalmente soffrono di attacchi di panico, ansia, angoscia frequenti o fissi, solitamente quando il partner non dà a sufficienza, è freddo, non ricopre di attenzioni il sofferente. Quest’ultimo, dal canto suo, non ricorda quanto in tutte le sue storie precedenti lui abbia sofferto quando la coppia si fosse sfaldata, e più relazioni abbia avuto – anche le meno importanti, le più brevi – più ha seguitato a logorarsi, ogni volta come fosse l’unica. Se solo riflettesse su quanto questo meccanismo lo abbia in pugno saprebbe che c’è sempre fine ad una crisi abbandonica, e avviene quando si trova il coraggio di abbandonare, finalmente. L’abbandono finisce quando si abbandona. Quella sensazione di libertà, dopo che si è sofferto tanto, è in grado di darla solamente un abbandono attivo.

Ricordiamo le nostre madri che, lasciandoci a scuola, ci lasciavano; ricordiamo padri distratti o troppo presi dal lavoro che dicevano svolgevano “solo per noi” (instillando anche sensi di colpa); ricordiamo notti nel lettone dei genitori come un SOS, una richiesta di aiuto. In quella che è l’esplorazione del bambino possono formarsi, se il caregiver assume atteggiamenti contrastanti, un attaccamento ambivalente o un attaccamento insicuro – queste forme di attaccamento ci condanneranno a vita. Sentiremo sempre un senso di abbandono che ci ricorderà nostra madre e ci consentirà di sentirla ancora vicina, paradossalmente. Ricorderemo quando lei tornava, quando ci accarezzava, e dimenticheremo la sua assenza.

Tornando alla coppia, chi soffre di crisi abbandoniche per qualsivoglia motivo non saprà lasciare, il suo amore somiglierà alla dipendenza ma, ancor di più vi somiglierà il suo non-amore, la fine dei suoi sentimenti sarà il trigger per una dipendenza ancora più tossica, malata. che non consentirà, spesso mai, di chiudere una relazione già finita. Grazie mamma, grazie papà.

Romina Ciuffa, 21 maggio 2025

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IL DIPENDENTE AFFETTIVO SIAMO NOI

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Più di quanto ci si possa accorgere le storie d’amore sono coniate dalla dipendenza, spesso malata, dall’altro. È malata quando si sta male, unica e semplice definizione. Il dipendente affettivo può giungere da una storia di vita nella quale gli sia stato negato qualcosa, o caratterizzata da un abbandono, da un forte lutto, da momenti metaforicamente o concretamente dolorosi verificatisi nei rapporti parentali, da un erroneo passaggio del bambino dalla fase di fusione a quella dell’individuazione attraverso un oggetto transizionale. Il dipendente percepisce l’amore come un obbligo che lo costringe ad essere sempre innamorato di diverse persone o della stessa, con connotati ossessivi; senza un oggetto d’amore qualunque si sente perso, privo di fondamenta, di identità. Prova sentimenti di colpa quando mette avanti a quelli dell’altro i propri bisogni, e tende a riparare con azioni a volte patetiche, spesso manipolative; si avvicina all’essere masochista perché soffrire è il suo modo per star bene; solitamente è un profondo egoista che riduce il partner ad oggetto attivo di conferma della propria esistenza, il «ti vedo» che era mancato.

Freddo manipolatore, sa gestire l’altro in maniera superba mentre lo consuma. Spesso l’amato non si accorge della manipolazione operata su di lui, altre volte anch’egli è codipendente o controdipendente (consapevolmente o meno) ed alimenta il suo estro di potere attraverso la vittima dipendente. Quando entrambi i soggetti abbiano connotati di dipendenza affettiva, la manipolazione sarà reciproca e la coppia si torturerà con continue, reciproche, richieste d’affetto, le più comuni delle quali sono le scenate di gelosia.

Il partner perfetto per il dipendente affettivo è il narcisista patologico o l’individuo sociopatico, figure che si incastrano bene con il desiderio di dare in continuazione, di corteggiare per essere visti, di amare anche senza amore pur di sentirsi vivi, di colmare il vuoto, note che il dipendente affettivo ha e di cui il narcisista può fare un egregio uso per alimentare il proprio ego. Al termine di una relazione, il soggetto dipendente soffre smisuratamente ma, a differenza degli altri che altrettanto soffrono, egli ha un obiettivo immediato: una volta lasciato solo in balia di se stesso, sentendosi privo di valore intrinseco, si mette subito alla ricerca di un nuovo partner per sostituire il precedente e colmare subito il vuoto ricreato, qualcuno che gli dica «aspettavo proprio te» dopo esser stato incantato con destrezza e disperazione.

Lo trova e con esso ritrova il senso di sé, dimenticando le pene subite per l’ex che tanto smisurate erano apparse: egli, infatti, non va alla ricerca di un partner, bensì di un «colmavuoto». Il suo tatuaggio riporta: chiodo schiaccia chiodo. Ciò è manifesto anche nelle relazioni sociali, ove tende ad essere particolarmente generoso per farsi accettare, spesso copiando gli altri e assecondandoli in maniera camaleontica per essere apprezzato, e svalutando la propria personalità che, da sola, non è affatto interessante – egli crede.

Chi non ha provato mai dipendenza o sentito la sua presenza all’interno di una relazione? Chi, nei dissidi con il partner, non si è domandato «perché non lo lascio?» rispondendosi «giammai»? Chi non ha amato a tal punto da sentirsi vincolato, stretto, apprensivo – chi, in breve, non ha mai provato, anche per un solo istante, la paura dell’amore tossico o l’amore tossico stesso? E chi, riconoscendolo in tempo, ha saputo mettere sé al primo posto, l’altro altrove? Eppure la tossicità rende l’amore una cosa immensa, primordiale, meravigliosa, piena di contraddizioni ma pur sempre piena. Colui che ha sperimentato l’amore tossico sa che sarà proprio quello l’amore che ricorderà. Essere proprietari legittimi di un amore tossico conferisce dei diritti sul dolore e sulla sofferenza, ma anche sulle emozioni più elevate, l’avvicinamento ad un sentimento celeste che rende giustizia allo sforzo umano di combattere avverso le difficoltà, senza rinunciare all’altro ma impegnandosi perché sparisca la dipendenza, la tossicità che riduce chi la prova ad un rubinetto che sgocciola, e resti solo quell’invidiabile, grandissimo amore, ma spurio.

Romina Ciuffa, 20 maggio 2025

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L’AMORE PER GLI ATTACCHI DI PANICO

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L’AMORE PER GLI ATTACCHI DI PANICO. Ci sono persone che si svegliano con gli attacchi di panico tutte le mattine o quasi. Imputano questa sensazione di sospensione, di angoscia, di dolore misto ad ansia, come prima attribuzione, alla (qualunque) storia d’amore che stanno vivendo. Si sta male perché la storia non funziona, perché non soddisfa, perché si sa che si sta sbagliando nel portarla avanti – ecco perché gli attacchi di panico, queste botte d’ansia, l’angoscia perenne. In molti casi, in effetti, l’amore non aiuta: c’è quella componente di sicurezza che viene a mancare e, mancando quella, viene meno tutto il castello di carte costruito sulla propria vita. Si crede che, se l’altra persona si comportasse diversamente o magicamente cambiasse, sparirebbe tutto e il mostro verrebbe distrutto in mille pezzettini.

Poi ci sono quei momenti in cui con l’altro va tutto a meraviglia, la sicurezza dell’amore è raggiunta ed accolta, si pensa “finalmente la persona giusta”, ci si adagia sulla chimera della storia conseguita dopo anni di passaggi dolorosi, un trofeo da mettere nella vetrina, un traguardo raggiunto che dissiperà tutti i problemi che si sono avuti sino ad ora, perché l’amore può tutto. Ma no, l’amore non può tutto, esso non può niente se non essere amore. Nella maggior parte dei casi, infatti, anche quando l’amore è attaccamento sicuro e certezza, comunque ci si sveglia la mattina con gli attacchi di panico e si sentono tutto il giorno le morse angosciose del “non so”, quella sensazione che non fa né vincitori né vinti, che rende la vita invivibile, che fa domandare “perché proprio a me, perché proprio io, mentre gli altri, tutti, sono sereni?”, che fa sentire diversi.

Non è l’amore a far star male, nemmeno nel soggetto più dipendente. L’amore è solo lo specchietto per le allodole, quello cui aggrapparsi quando ci si sente persi e dire che a causa sua si vive attanagliati è la cosa più semplice. È estremamente comodo che la storia d’amore vada male o non funzioni: in questo modo si potrà evitare di fronteggiare il vero problema, il reale sé, i dragoni di fuoco che poco hanno a che vedere con l’amore ma sanno di abbandono, dipendenza, attaccamento, e spesso sono – lo dico con noia – legati al rapporto con i genitori e all’ambiente di crescita, altre volte riguardano tematiche completamente distanti quali la storia lavorativa, l’insoddisfazione nella vita, le frustrazioni, le aspettative deluse, tutte cose che nulla hanno a che fare con l ‘amore.

Ci sono persone, come me, che si svegliano tutte le mattine o quasi con gli attacchi di panico e che devono continuamente fingere con gli altri di stare bene a) per non annoiare, b) per non mettersi in una posizione inferiore, c) per essere visti come affidabili e forti. Quelle stesse mattine, anziché afferrare il telefono e scrivere un messaggio all’altro cui si addebitano le angosce convinti di poter colmare quel vuoto, è d’uopo alzarsi, respirare con forza, camminare fino al primo caffè, mettersi seduti e fare una lista reale delle problematiche che tormentano, escludendo l’amore. Questa lista la si metta in tasca, si porti una penna, durante la giornata si pensi a ciascuno dei punti segnati e, una volta passati al vaglio, li si depenni l’uno dopo l’altro. La verità è che dei nostri attacchi di panico siamo profondamente innamorati e, senza di loro, non sappiamo cosa fare, come in tutte le storie d’amore, non li vuoi lasciare andare, essi ci guidano nelle nostre scelte, giustificano i nostri no, danno un valore alle nostre frustrazioni. Il dolore è proprio come l’amore, affascina e provoca dipendenza. L’amore è solo una grandissima scusa per non soffrire delle cose giuste.

Romina Ciuffa, 19 maggio 2025

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TI AMO – NON HO CAPITO, CHE HAI DETTO?

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 Ho scritto, nel mio libro AMORE MIO TU SOFFRI, nel capitolo riguardante l’amore incompreso, una parte riguardante la comunicazione tra amanti.

“La comunicazione è alla base dell’amore anche fosse non comunicazione, lo precisa anche il primo assioma di Palo Alto: «Non si può non comunicare». Ognuno, pur fosse da solo, comunica. Esprime in continuazione qualcosa. Il messaggio spesso deve essere spiegato. «Ogni comunicazione veicola un contenuto e una relazione», secondo assioma: quando si comunica, si esprime anche la relazione che si ha tra i comunicanti, che è importante per intendere il messaggio. Ciò che in una relazione sentimentale è, a volte, quasi più importante dell’amore, è proprio la punteggiatura della comunicazione che fa sì che non vi siano equivoci, ed è necessario parlare delle modalità di comunicare nei casi in cui i partner si ritrovino a non comprendersi: molte relazioni si sfaldano proprio a causa dell’assenza di questa metacomunicazione.”

Spesso infatti, due amanti che si amano finiscono per odiarsi solo per ragioni comunicative. Accade solitamente a chi è diverso, disomogeneo, che sfida la regola dell’amore del chi se somìa se pia e si immette in una relazione nella quale dalla mattina alla sera bisogna fare lo sforzo di comprendere. Ho distinto tre errori nella comunicazione che possono indurre litigate e, infine, anche la fine della relazione.

Ho immaginato tre tipi di errori. Questi:

“Comunicare è una capacità naturale dell’essere umano, eppure la più complessa. Include tre potenziali errori: un comunicatore, un ascoltatore ed un oggetto comunicato. Il primo, comunicando, potrebbe punteggiare in maniera erronea o non far trasparire il tipo di personalità delle sue che sta parlando: se un pessimista dice «finirà», è una cosa, se l’ottimista dice «finirà», è un’altra, essi intendono esattamente la cosa opposta e, se il parlante non è contestualizzato e non esprime apertamente il proprio atteggiamento, l’altro potrebbe fraintendere e capire cose diverse, dando luogo ad una comunicazione erronea e produttiva di effetti non voluti. 

Il secondo errore, quello del contenuto: spesso il messaggio si deposita sull’oggetto comunicato e non riesce a trasferirsi sull’ascoltatore – ad esso giungono le parole ma non tutte, ad esempio, o una lettera mai arrivata – e questo è un classico error in transmittendo. 

Infine, l’errore dell’ascoltatore: filtrare con la propria interpretazione il messaggio (error in accipiendo), dopo che esso è già stato passato al vaglio dell’interpretazione del trasmittente (error in comunicando) e toccata anche l’oggettività dell’invio. 

In un rapporto d’amore questi tipi di errori si moltiplicano a dismisura, coinvolgendo in toto il lato emotivo: è utile, pertanto – sempre, soprattutto dove la comunicazione sia particolarmente ardua per le due persone e personalità che si sono scelte, quando molto diverse – la regolamentazione dei filtri della comunicazione a quella coppia che, caratterizzata da difficoltà a comprendersi, ha paura di parlare, ha paura dell’altro, ha paura di tutto da un cuore dubitoso, non riesce a dire «domani», teme anche la parola «oggi» e usa spesso la parola «passato» per indicare un presentimento per il futuro, come se esso possa lasciare presagire ciò che verrà senza fare leva sul fatto che è possibile ritrovarsi attraverso la comunicazione totalitaria, che sia di linguaggio, d’espressione, paraverbale, verbale ma anche di tatto e contatto, avvicinamento, odore, sapore, ossia d’amore che osa.

L’error in comunicando non sempre è risolvibile, ma lo è molto di più dell’error in amando e, perciò, è necessario comprendere di quale dei due si tratti, quale osteggi la relazione, per poter passare all’azione e dire: sì, ti amo, purché l’altro non risponda: “Non ho capito, che hai detto?”.

Romina Ciuffa, 18 maggio 2025

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PAPA LEONE XIV COME TUTTI I MIEI EX

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Amore patologico dici. Un Papa è appena morto, un altro si è appena insediato e, tra i suoi primi atti dichiarativi, sostiene immediatamente che la famiglia è fondata sull’unione stabile tra uomo e donna. Leone XIV si schiera subito a sfavore di tutte le altre famiglie che sono oggettivamente tante e vive nella società, in questo modo escludendole senza guardarsi indietro (Francesco). Il concetto di famiglia è andato variando ed ora, a prescindere dall’appoggio agli omosessuali e agli altri tipi di gender, è assolutamente mutato, pertanto descriverlo come unione – peraltro stabile – tra un uomo e una donna rende gli innamorati di Papa Leone XIV molto pochi, considerando anche come sia venuta meno la stabilità della stessa famiglia, instabile per ufficialità dal 1970, anno in cui è stato garantito per via di legge il diritto a divorziare. Pertanto fuoriescono da questa rinnovata Chiesa moltissimi, probabilmente in numero assai maggiore di coloro che restano, compresi i migranti che Prevost ha indicato sentimentalmente tra gli ultimi, ossia i primi da difendere ed amare, poi però richiedendo assicurare agli immigranti la possibilità di rimanere nelle loro terre (mentre Bergoglio aveva parlato di diritto di migrare), rendendo così molto chiara la sua politica contro ogni vociferare che si era fatto in questi giorni rispetto ad un’apertura dell’americano sul mondo.

Si schiera così subito contro il morto Francesco che aveva pronunciato un grande chi sono io per giudicare? in riferimento alle persone omosessuali e che, con il suo operato, aveva fatto sì che il suo non giudizio per umiltà fosse esteso a tutto e tutti. È chiaro come Prevost non intenda, come aveva fatto il suo predecessore, amare il prossimo suo “come se stesso”, restituendo il più classico degli amori patologici di sempre: quello della Chiesa verso i credenti e, soprattutto, verso l’essere umano in qualunque versione, ivi inclusa quella di ultimi che lo stesso Leone XIV ha, tra le sue prime dichiarazioni, sostenuto avrebbe protetto riferendosi alla ritrovata centralità del Cristo e dell’Occidente. Un amore estremamente patologico che si dirama in un senso unico, quello dei credenti verso il Papa e la Chiesa e non il reciproco, in una dinamica di amore egoistico e narcisista.

Questo è l’amore del Papa – più di quello vivo, meno di quello morto, verso l’altro -, qualcosa che è solo prendere senza dare se non dichiarazioni scritte da un ufficio stampa, immesse nel filo conduttore della regia ecclesiastica che oggi torna ad essere più nera che rossa, un vero e proprio far credere (i creduloni) che fa sì che ad esso guardino tutti gli esclusi (moltissimi) nel mondo come ad un vecchio potere spirituale che oggi non ha più nessuna ragione di essere, soprattutto quando non ama il suo prossimo e distingue tra figli e figliastri. Papa, mi ami o no? È il caso di dire: perché, allora, mi ci fai credere? In Dio, e in questo amore. In questo modo mostri solo di non essere in grado di amare, come tutti i miei ex.

Romina Ciuffa, 17 maggio 2025

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