DEPRESSIONE, GRATIS LA PRIMA SEDUTA DALLO PSICOLOGO E IL PIL SALE

di ROMINA CIUFFARoma, 4 ottobre 2022. Curare ansia e depressione non è semplice. Inoltre, è molto costoso. Genera costi per il singolo individuo (fisici, psicologici, economici) e per l’intera società, che non è in grado di sostenere un allarme così sottile, invisibile, e nel contempo ampio e generalizzato (si aggiunga: generatore di vergogna e silenzio). Intervenire tempestivamente sarebbe la regola n. 1, ma “tempismo” non fa rima con “comprensione dei sintomi, accettazione, reazione”. Anche solo l’individuazione e la diagnosi di quella che è una delle malattie più nude e crude dell’intero panorama psicologico, quando non somatico, è qualcosa di estremamente difficoltoso e costoso. Idem per la prevenzione, praticamente impossibile: la depressione è un male democratico, che colpisce tutti, oltre ogni classe sociale, ceto, ricchezza, benessere, oggettività. Non vale il motto, sempre ben espresso da madri, amici, spesso anche professionisti: “Ma se hai tutto!”. Anzi: quest’ultimo non fa che esacerbare la dinamica e la profondità dell’oscuro male, che scava, scava, fino a lacerare i tessuti fisici del soggetto, distruggendolo come un cancro incurabile, che non ha nemmeno la chemioterapia per sperare.

Certo, subentrano qui i terapeuti, più precisamente, gli psicoterapeuti. Ma con bassa riuscita (solitamente chi è in cura da uno psicologo per depressione, vi rimane per il corso della sua intera esistenza o fino a quando non si dichiara il fallimento della terapia, o del portafogli di contenimento). C’è anche chi canta vittoria, “sono guarito”, e poi vi ricasca. Sono spesso affiancate alla psicoterapia delle cure a base di farmaci: chi propende per SSRI, inibitori dei ricattatori di serotonina, chi va dritto all’antiepilettico (il Tolep, ad esempio), chi prescrive l’Haldol, chi fa un mix tra benzodiazepina e antidepressivo – ciò dipende esclusivamente dal medico curante (psichiatra), e in questo caso il paziente (che presso di lui si è recato sotto consiglio dello psicoterapeuta, una extrema ratio da impiegare mentre si prosegue nella terapia dialogica, per calmare la fame di angoscia, dolce compagna) è sottoposto a farmaci che, con buone probabilità (“effetti collaterali”) bloccheranno la libido, daranno modo di ingrassare, impediranno il vero e proprio riposo, recheranno agitazione e mancanza di sazietà biliare e mentale. In questo momento il paziente depresso ha già, più o meno, speso migliaia di euro tra psicoterapia e visite di controllo e cambiamento/aggiustamento farmaci. Ciononostante, si sente molto depresso, l’effetto che lo Zoloft o la Paroxetina nelle prime settimane sembrava suscitare diviene un ricordo, al punto tale da dover aumentare la dose, quindi aumentarla ancora fino a dover iniziare a scalarla, quindi scalarla, quindi azzerarla. E cambiare farmaco. Lo psicoterapeuta se ne sta lì, un’ora a settimana (o due), in presenza od online ormai (niente di peggio per un paziente depresso, niente di meglio per un terapeuta comodo), ad applicare protocolli o ad ascoltare cosa c’è che non va, con la formula di rito: “Come va questa settimana?”, e play.

C’è un progetto degno di nota che si è rivelato alla stampa e sul panorama italiano proprio ad ottobre 2022: con la premessa che “la pandemia e le molte incertezze di questo momento storico hanno contribuito a far aumentare i casi di ansia e depressione”, l’ENPAP, Ente di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi, ha finanziato il progetto “Vivere Meglio”, realizzato in collaborazione con SCUP (il Centro di Ateneo per i Servizi Clinici Universitari Psicologici) dell’Università di Padova, e con l’AIP (Associazione Italiana di Psicologia), mettendo a disposizione per sei mesi un numero di mille psicologi, selezionati e formati appositamente negli ultimi mesi con un bando regolare,  per permettere ad almeno “10 mila cittadini di accedere a trattamenti gratuiti attraverso il sito viveremeglio.enpap.it, attivo dal 1° di ottobre”. Basterà accedere al sito viveremeglio.enpap.it per effettuare, senza alcun costo, un test scientificamente validato e finalizzato a valutare se sono presenti le condizioni per intraprendere un percorso, anch’esso gratuito, che andrà da 10 a un massimo di 14 incontri con psicologi e/o psicoterapeuti selezionati da ENPAP e formati all’utilizzo di protocolli, aggiornati ed efficienti, con un solido impianto scientifico. Sul sito di Vivere Meglio si troverà anche una serie di opuscoli informativi di auto-aiuto, creati ad hoc sulla base delle più recenti conoscenze scientifiche, che forniranno consigli e indicazioni efficaci per gestire i segnali iniziali di disagio psicologico.

Secondo Felice Damiano Torricelli, presidente dell’ENPAP:

«Accanto a chi soffre di ansia e depressione ci sono i familiari, i caregiver e intere comunità che colgono e gestiscono il carico di questi problemi. Ansia e depressione, spesso, sono causa di assenteismo e di cali drastici nel rendimento, lavorativo e scolastico, e hanno pesanti ripercussioni sulla qualità della vita personale, relazionale e lavorativa. Ma, ancora oggi, nonostante i dati confermino tutte le ricadute negative di ansia e depressione, questi disturbi non ricevono risposte adeguate“. 

Lo stigma che ancora aleggia sul ricorso agli interventi professionali degli psicologi costituisce un freno a prendersi cura del proprio benessere emotivo e mentale, mentre il sistema pubblico investe in maniera drammaticamente insufficiente. Prosegue Torricelli:

In linea di massima, chi accede con più difficoltà alle terapie psicologiche sono proprio le persone meno abbienti, già in condizioni di difficoltà sociale ed economica, che vengono esasperate proprio da questi disturbi, e che ne riducono ulteriormente le possibilità di ripresa. Vivere Meglio vuole dare una mano a fronteggiare le difficoltà di questo momento storico, che sta provando tutti da troppo tempo e ha comportato un ulteriore aumento del disagio psicologico e dei disturbi collegati allo stress continuativo».

  Felice Damiano Torricelli, presidente ENPAP

Riporta l’ISTAT: i sintomi depressivi aumentano con l’avanzare dell’età (sfiorano l’8% fra i 50-69enni), fra le donne (poco meno dell’8 per cento), fra le classi socialmente più svantaggiate per difficoltà economiche (14 per cento fra chi riferisce molte difficoltà economiche) o per istruzione, fra chi non possiede un lavoro regolare (8 per cento), fra chi riferisce almeno una diagnosi di patologia cronica (13 per cento) e fra chi vive da solo (8 per cento). Tra i senior, una quota consistente di ultra64enni, pari al 21 per cento, riferisce sintomi depressivi.

“Vivere Meglio” utilizza un modello di intervento stepped care, per cui gli interventi vengono dosati in relazione al bisogno di ogni persona, in maniera molto mirata e graduale. Si ispira all’esperienza inglese di Improving Access to Psychological Therapies (IAPT), progetto che il sistema Sanitario UK realizza da più di 10 anni per erogare interventi psicologici brevi e mirati a chi ha disturbi emotivi comuni, nato in effetti più sotto una spinta economica che non solidale: diversi studi hanno rilevato i costi economici che ansia e depressione comportano, abbattibili con interventi di terapia psicologica ben strutturati. Lo IAPT permette a tutti i cittadini britannici di accedere gratuitamente ai trattamenti psicologici, anche a coloro che hanno meno risorse economiche, annullando i problemi di equità nell’accesso alle terapie psicologiche, offrendo sostegno, counseling e psicoterapia a oltre un milione di persone l’anno, consentendo di effettuare prevenzione, evitare i costi legati alle assenze dal lavoro e la correlata perdita di competitività del Paese, abbattere molti altri costi sanitari, ridurre la disabilità con un impatto sensibile sui costi per pensioni e sussidi pubblici.

Di certo, attraverso questo nuovo impegno, l’ENPAP dimostra di aprirsi al mondo e di farlo con uno sguardo lungimirante, di tipo preventivo. L’attivazione del voucher gratuito, però, non comprende l’intero intervento (che viene effettuato secondo un protocollo di dieci sedute al massimo, con una sorta di “garanzia” sul risultato, quella data dalla metodologia). Questo va comunque a vantaggio dello psicoterapeuta che, attraverso il nuovo sito ENPAP, può raggiungere più pazienti, sebbene abbia un rigoroso limite da rispettare nel numero delle sedute e nella deontologia. Il voucher può essere attivato altre volte, ove l’utente ne faccia richiesta in quanto non si trovi a proprio agio con lo psicoterapeuta che gli viene assegnato; questo passaggio, infatti, è effettuato quasi in via automatica dalla piattaforma che – sulla base degli orari, delle disponibilità, della localizzazione, delle competenze del professionista – procede al “match”, un po’ come su Tinder. Una regola ben precisa: il colloquio (e l’intera terapia) sarà effettuato de visu, escludendosi a priori il ricorso all’online. Da tutto ciò, emerge che ne guadagneranno tutti:

  • potenziali pazienti che potranno – oltre a condurre piccoli autoquestionari e seguire i consigli del bot – conoscere un dottore disposto a seguirli che non faccia pagare la prima visita, eliminando così il primo grande ostacolo alla (ennesima) consultazione di un professionista: il costo, e promettendo la risoluzione in poche sedute (il limite massimo consentito dal metodo adottato dall’Enpap). E si sa anche che, dov’è gratis, l’italiano va (dura lex);
  • il Paese: ove l’Italia fosse pronta almeno quanto il Regno Unito, e sia in grado di riconoscere la sintomatologia dello specchio di dolore invisibile che nutre ansia, depressione e correlati, ma soprattutto, accettarla, potrebbe generarsi un impatto sul PIL. Il progetto complessivo fornirà una mole importante di dati e sarà oggetto di uno dei più ampi studi realizzati in Italia sul trattamento di ansia e depressione; la successiva valutazione di impatto consentirà di verificare e comunicare i benefici in termini di risparmio di costi e risorse. Inoltre, sebbene la parte operativa del progetto duri sei mesi (da ottobre 2022 a marzo 2023) con un carico valutato in circa 10 mila cittadini, il portale e i materiali realizzati (come la procedura informatica di screening psicologico e gli opuscoli di auto-aiuto,) resteranno a disposizione;
  • gli psicologi, anzi, quei mille psicologi selezionati – che hanno ottenuto un corso di formazione gratuito, conosciuto una metodologia breve-strategica, aggiornato il database pazienti, sperimentato il nuovo, rinunciato al comodo online (e si sa anche che, dov’è gratis, l’italiano va: repetita juvant).

È impossibile, al momento, avere un binocolo per catturare un futuro in cui la depressione sarà risolta in poche sedute; ma non pagare la prima già consente di sperare nella seconda. Banale, ma schietto. (Romina Ciuffa)

 




HIKIKOMORI: DA PARETE A RETE

HIKIKOMORI: DA PARETE A RETE.
Studio e ipnosi di ROMINA CIUFFA
(www.psichelogia.com)

INTRODUZIONE ERICKSONIANA
“DA UNA STANZA ALL’ALTRA”

Chiesi a uno studente: “Come fai ad andare da questa stanza a quella stanza?”
“Prima di tutto mi alzo”, rispose. “Poi faccio un passo”.
Lo interruppi e dissi: “Dimmi tutti i modi possibili di andare da questa stanza a quella stanze”.
“Ci si può andare correndo”, rispose, “camminando, ci si può andare saltando, ci si può andare saltellando, facendo capriole. Si può andare a quella porta, uscire dall’edificio, entrare per l’altra porta dentro la stanza. Oppure se uno vuole può scalare la finestra…”.
“Hai detto che li avresti detti tutti, ma hai tralasciato un modo, che è il più importante”, dissi io. “Io di solito comincio col dire così: ‘Se voglio andare in quella stanza da questa stanza, io uscirei da quella porta lì, prenderei un taxi fino all’aeroporto, comprerei un biglietto per Chicago, New York, Londra, Roma, Atene, Hong Kong, Honolulu, San Francisco, Chicago, Dallas, Phoenix, tornerei indietro in macchina e entrerei nel giardino posteriore attraverso il passaggio di dietro, entrerei per la porta di dietro ed entrerei in quella stanza’. E abbiamo pensato solo ai movimenti in avanti! Non hai pensato di andare all’indietro, vero? Non hai pensato all’andare carponi”.
“E neanche a strisciare sulla pancia”, aggiunse lo studente.
È proprio vero che ci limitiamo così terribilmente in tutte le nostre forme di pensiero!

Milton Erickson [1]

L’HIKIKOMORI

Mi reco in Giappone nell’aprile 2019. Esco la mattina all’ora di punta, circa le 8 del mattino. La città di Tokyo è silenziosa come una faggeta. Non c’è traffico, pochissime automobili, molte biciclette e pedoni, comunque non sufficienti a dare il senso occidentale dell’ora di punta. Salgo sulla metropolitana, in particolare prendo la linea verde “Yamanote”: con quasi 4 milioni di utenti al giorno (poco meno dell’intero sistema di trasporti di New York), essa costituisce una delle linee metropolitane più grandi del mondo. Il suo percorso funge da circolare per la città di Tokyo e disegna un anello intorno al centro della città, incrociando gran parte delle altre linee dei trasporti di essa, più di 50. La folla è massiva, il silenzio tombale. All’interno dei convogli, sui quali si sale con grandi difficoltà ma altrettanto silenzio, si sta strettissimi. Eppure non si sente rumore, se non quello degli annunci riguardo la fermata successiva. Tutti i passeggeri sono fissi sul proprio tablet o telefonino, non si ha alcun contatto, la solitudine riempie la metro. Non si dovrebbe: guardo sui loro schermi, tutti in giapponese, voglio entrare in contatto con questo silenzio: sono videogiochi, non i social che l’occidentale si aspetterebbe. Dall’altra parte, non c’è nessuno. O meglio, ci sono dromedari e robot che altri utenti nel mondo stanno personificando. Molti portano la mascherina tipica, per una questione di igiene o di rispetto verso gli altri nonché di riservatezza: non si mostra, così, il rossore sul volto, se compare. Per indicare che la prossima è la nostra fermata, faccio “psiu” alla persona che mi accompagna in questo viaggio, lontana da me e, gesticolando e sussurrando, comunico timidamente: “Dobbiamo scendere”. Il mio sussurrio rimbomba nel vagone sovraffollato. Mi guardano tutti.


Romina Ciuffa, Kyoto

Hikikomori (引きこもり o 引き籠もりsignifica letteralmente, in giapponese, “stare in disparte, isolarsi” [2], dalle parole hiku “tirare” e komoru “ritirarsi” [3]). Il termine si riferisce a coloro che hanno scelto di appartarsi dalla vita sociale, cercando anche livelli estremi di isolamento e confinamento, per fattori personali e sociali di varia natura. In Giappone – dove per primo il fenomeno è stato definito – vi è, nondimeno, tra tali fattori, la particolarità del contesto familiare, che si dice caratterizzato dalla mancanza di una figura paterna e da una eccessiva protettività materna; ciò si aggiunge alla grande pressione della società verso l’autorealizzazione ed il successo personale cui l’individuo viene sottoposto fin da sempre.

Per scegliere una definizione che più si avvicina a quest’ultimo fattore, quella di Marco Crepaldi: “L’hikikomori è una pulsione all’isolamento fisico, continuativa nel tempo, che si innesca come reazione alle forti pressioni di realizzazione sociale, tipiche delle società capitalistiche economicamente sviluppate” [4].

Si tratta, infine, della difficoltà adattiva di trarre sensazioni positive e stimoli dalle relazioni interpersonali e, più in generale, dalle dinamiche sociali moderne.

Fino a “ieri”, in Italia si parlava di hikikomori come di un fenomeno “strambo”, “antropologizzato” dall’effetto distanza, che porta a ritenere – secondo la scrivente – che, più chilometri intercorreranno tra una cultura e l’altra, minore sarà il “contagio”. Se, infatti, la trasmissione – base della culturalizzazione e, di seguito nel tempo, dell’antropologizzazione – è un processo tramite il quale l’informazione passa da un individuo all’altro attraverso meccanismi quali l’apprendimento sociale, l’imitazione, l’insegnamento o il linguaggio, fino al momento dell’avvento di una rete capillare come quella web si poteva ritenere che tali elementi mancassero tra due Paesi che distano quasi 10 mila chilometri l’uno dall’altro. Come pensare di contrarre una malattia da una tribù africana o la tubercolosi da una favela brasiliana.

Aguglio scrive [5]: La cultura non va considerata come qualcosa di esterno all’individuo, ma come una struttura specifica di origine sociale che contiene e rende possibile il funzionamento dell’apparato psichico; Beguin già nel 1952 affermava che “si è folli in rapporto a una data società”. Non può esistere alcun processo psichico senza l’esistenza di un filtro culturale che ordini e fornisca gli strumenti necessari per l’interazione della persona con il mondo. Le sindromi culturali comprendono un insieme eterogeneo di malattie, l’importanza e l’attualità delle quali è stata riconosciuta anche nel DSM-IV TR 3; nell’appendice è infatti presente una classificazione delle “cultural bound syndrome” che ha lo scopo di integrare l’inquadramento diagnostico multiassiale e di delineare le difficoltà che si possono incontrare applicando i criteri del DSM-IV in un contesto multiculturale. Il DSM-IV TR le definisce come: “Modalità ricorrenti, caratteristiche di certe regioni, di comportamento aberrante e di esperienza disturbante che possono essere o meno collegabili a qualche particolare categoria diagnostica del DSM-IV”. Si potrebbe dire che queste sindromi siano un modo specifico di una determinata cultura per esprimere una condizione di disagio psichico. Mentre le basi scientifiche della cultura occidentale permettono di classificare i sintomi psichiatrici in quadri ben precisi, nei luoghi in cui le sindromi culturali si verificano vengono spesso accettate come eventi non patologici. Inoltre, il sistema medico occidentale opera una netta distinzione fra mali di ordine fisico e mali d’ordine psichico; nelle culture tradizionali invece questa distinzione si perde, sia per quanto riguarda le procedure terapeutiche, che spesso non si differenziano, sia per quanto attiene alla ricerca delle cause della patologia. (grassetto mio)

Se poi ci si concentra sull’elemento “linguaggio” – intrinsecamente culturale – è evidente che nella trasmissione del disturbo essa è basicamente assente, trattandosi di due ceppi linguistici e antropologici completamente differenti. Il giorno e la notte, anche in termini di fuso orario. Lo stesso valga per l’imitazione, praticamente impossibile in due Paesi tanto distanti con popolazioni tanto distinte.

Se la trasmissione culturale è una componente fondamentale dell’evoluzione, essa non è l’unica. L’hikikomori più avanzato infatti, oltre che da un parallelismo culturale (due rette che prima dell’era web non si incontravano mai, non sottoposte a contagio ma a sviluppo evoluzionistico), deriva da un disagio sociale che riguarda tutti i Paesi economicamente sviluppati, nei quali si delinea un atteggiamento competitivo e perfezionista in vari ambiti di vita. Proprio nel senso di fallimento sociale sono da rintracciarne le cause profonde: lì dove si crea un gap tra il proprio sé ideale e la realtà nascono le paure di fallire, di deludere, di perdere tempo e, come conseguenza, un senso di vergogna di sé. Al disagio e alla sofferenza sperimentata si sommano pensieri valutativi più complessi quali repulsione, sfiducia e delusione verso un luogo e verso le persone che ne fanno parte, i cui valori appaiono a un hikikomori troppo distanti dai propri [6]. Questo luogo, oggi, è infinito: questo luogo, oggi, è online ed è wireless, senza fili.

Il contagio dunque non è causa, bensì concausa accelerata dall’effetto-web. L’hikikomori non è “malattia” in sé, bensì e prima di tutto disturbo cui può essere associata una malattia strictu sensu, ossia un’entità clinica sostenuta da alterazioni lesionali fisiche (in questo caso corticale); ma in esso prevale l’interiorizzazione di esperienze e, delle stesse, l’esteriorizzazione successiva a seguito di rielaborazione. Con una puntualizzazione: l’hikikomori in quanto tale non è stato riconosciuto ufficialmente – né in Giappone né dalla comunità scientifica internazionale – come una psicopatologia. Il che, sia pur escludendo il fenomeno dalla categorizzazione nosologica, lo rende flessibile. Questo glielo si deve: di esso, l’unica variabile strettamente caratterizzante e generalizzabile è l’impulso all’isolamento sociale. Le altre dimensioni variano da soggetto a soggetto: da chi presenti un forte quadro depressivo non legato a fobia sociale, a chi soffra di una profonda crisi esistenziale, a chi sia colpito da apatia; da chi soffra maggiormente le pressioni di origine sessuale a chi sia esposto a quelle legate al confronto con i pari. In altre parole, l’isolato sociale volontario non apparenecessariamente depresso, fobico sociale, dipendente da internet o psicotico, e a volte, addirittura, esce. Fisicamente.

In sintesi, pur non essendo stato categorizzato, l’hikikomori ha uno sviluppo dimensionale. Il modo di agire della stessa imperatrice giapponese Masako è stato accostato a quello degli hikikomori ma, secondo le fonti ufficiali, avrebbe invece sofferto di depressione [7], tanto da meritare la nomea mediatica di “principessa triste”. Per la sua grande, tentacolare dimensionalità il fenomeno sembra essere di scarsa diffusione come tutti quei fenomeni dei quali è difficile la vista (lo stesso motivo per cui il transessualismo MTF – male to female – è conosciuto da tutti mentre, diversamente, quello FTM – female to male – da pochi: la variante, tra le altre, è la visibilità concreta e percepibile del fenomeno dall’esterno dello stesso [8]); esso è, così, poco considerato a livello di problema sociale e viene chiuso negli stretti margini del problema individuale.


L’imperatrice giapponese Masako, anche detta “la principessa triste”

Reclusi sociali, eremiti, ragazzi spariti non fanno notizia perché non esistono a tutti gli effetti. La famiglia è reticente, tende a non enfatizzare il problema o, a maggior ragione ed effetto, a non vederlo, riconoscerlo, considerarlo tale: a ben vedere, da sempre si è preferito avere figli che escono poco a figli che escono molto. Da sempre la discoteca è stata il catalizzatore di ogni difficoltà. Eppure, in questi casi lo è la stanza da letto. Quella arredata dai genitori, quella che garantisce protezione. Qui tale protezione diviene maleficio e gli effetti della chiusura possono condurre e, di fatto conducono, a depressione, suicidio, dissociazione, alienazione, insicurezza, “haterizzazione” (odio in rete), distorsione della propria immagine, comportamenti ossessivo-compulsivi, automisofobia e manie di persecuzione, “autismo selettivo” od “a contesto specifico”, mutismo selettivo, disturbo d’ansia generalizzata e molto altro.

La comfort zone si trasforma nella discoteca più pericolosa che esista, in cui è presente uno spacciatore di droghe dai cui effetti difficilmente si uscirà. Si tratterà, nello sviluppo della patologia, di una “adolescenza senza fine” [9]. I ragazzi, in alcuni casi, non riescono a immaginare se stessi adulti o hanno l’impressione di non stare crescendo. La mancanza di contatto sociale e la prolungata solitudine hanno effetti profondi sullo hikikomori, che gradualmente perde le competenze sociali, i riferimenti comportamentali e le abilità comunicative necessarie per interagire con il mondo esterno [10].

Ne sono colpiti anche gli adulti. In Giappone, dove sono presenti le stime più concrete, nel 2016 il Governo parlava di 541mila soggetti coinvolti con un’età compresa tra i 15 e i 39 anni, e di 613mila appartenenti alla fascia di età tra i 40 e i 64 anni, generalmente indicati come la prima generazione hikikomori, di difficile reinserimento in società da quando, superata la soglia dei 60 anni e rimasti orfani, perdano l’unica fonte di sostentamento a disposizione [11]. Un elemento culturale strettamente collegato al fenomeno è la categoria dei parasite single (パラサイトシングル parasaito shinguru), ragazzi che continuano a vivere coi genitori ben oltre la maggiore età, i quali sembrano possedere, in una certa percentuale di casi, stili comportamentali simili e sovrapponibili a quelli di uno hikikomori.

Il termine hikikomori fu coniato dallo psichiatra Tamaki Saitō, riflettendo sulla similarità sintomatologica di un numero sempre crescente di adolescenti che mostravano letargia, incomunicabilità e isolamento totale [13], ed uno stile di vita caratterizzato da un ritmo circadiano sonno-veglia completamente invertito [14], “con ore notturne spesso dedicate a componenti tipiche della cultura popolare giapponese, come la passione per il mondo manga e, soprattutto, la sostituzione dei rapporti sociali diretti con quelli mediati via Internet” [15].


Tamaki Saitō

È lo stesso Saitō a fare una analogia tra parasite single e “mammoni” italiani: “Oggi i Paesi colpiti da questo fenomeno sono il Giappone e la Corea, aree di cultura confuciana, le cui società hanno assimilato il concetto di pietà filiale, enfatizzandone molto il valore. I genitori accudiscono i figli per essere da questi accuditi in vecchiaia, nel rispetto dell’alternanza dei ruoli. In America e in Inghilterra, una volta diventati adulti, i figli lasciano la casa paterna; in Giappone invece rimanere in casa è normale. Qui li chiamiamo ‘parasite singles’, mentre in Italia si chiamano’ mammoni’”.

Questo a significare quanto non siano poi così lontane le culture. Aggiunge: “Nei Paesi in cui la famiglia ha una grande importanza ci sono più hikikomori. In Giappone è così, e lo stesso in Corea. La pietà filiale. Forse anche in Sicilia, nella parte meridionale dell’Italia, ce ne sono. No? Nei Paesi in cui i rapporti familiari sono importanti, anche se il figlio si emargina guarderà sempre i genitori con rispetto e dipenderà da loro. Poiché c’è il problema dell’amae (dipendenza parentale). In Giappone senz’altro è importante il giudizio degli altri. Un ragazzo hikikomori è motivo di vergogna per il genitore; per questo viene rimproverato. Anche il ragazzo si preoccupa molto di cosa possono pensare gli altri e si tormenta. Così facendo però si convince di essere sbagliato e si isola sempre di più. In Giappone non c’è un dogma religioso, la gente non ha un credo, crediamo agli occhi degli altri, ci preoccupiamo di come ci vedono. Siamo molto sensibili al giudizio altrui e ci fa male essere disprezzati. In questa condizione diventa difficile superare lo hikikomori” [12].

L’hihikomori, o come in Italia lo si voglia chiamare dopo quanto detto, incarna lo spirito di una società giovane che soffre a causa dei cambiamenti sociali e i cui membri non sono in grado di affrontare il duro sistema educativo, la crescente instabilità del lavoro e la grande pressione sociale a partire da quella stessa famigliare.

Da parete a rete. Molti di loro, di qualunque età, sia pure confinati nella loro camera, ne oltrepassano le pareti: si collegano alla rete, sul web, ed entrano in mondi lontani. Nell’impossibilità (psicologica) di far uso del loro corpo costruiscono un avatar con il quale intraprendono battaglie epocali e interagiscono virtualmente con milioni di utenti, di cui antesignano fu il Pacman.

Va però sottolineato come la dipendenza da internet, spesso indicata come una delle principali responsabili dell’esplosione del fenomeno, rappresenti invero una conseguenza dell’isolamento, non la causa: il fenomeno ha origine ben prima della diffusione del personal computer.Prima che esistesse internet, l’isolamento degli hikikomori era, però, totale.Ad oggi, solamente il 10 per cento degli hikikomori naviga su Internet, mentre il resto impiega il tempo leggendo libri, “girovagando” all’interno della propria stanza o semplicemente oziando, incapace di cercare lavoro o frequentare la scuola.

I primi casi in Italia sono stati “diagnosticati” nel 2007, per poi diffondersi ed essere sempre più individuati come tali [16]. Nel 2013 la Società Italiana di Psichiatria ne individua circa 3 milioni tra i 15 e i 40 anni [17]. Il disturbo può essere anche associato alle culture nerd e geek, o ad una semplice dipendenza da Internet, limitando il fenomeno a una conseguenza del progresso della società e non a una chiara scelta volontaria del soggetto[18]. Una stima riferita al 2018 parla di 100 mila casi di hikikomori in Italia.

Ne ho conosciuta una.
O meglio: ho ritenuto che la stessa definizione, per lei, di hikikomori FOSSE già la terapia. Ossia la diagnosi è, in realtà, la tecnica: definire qui è curare.
Il caso è coperto da segreto professionale. Seguono solo le mie riflessioni.

RIFLESSIONI POST TRANCE IPNOTICA SU UNA PAZIENTE “HIKIKOMORI”

Il percorso terapeutico, in questo caso, non si fonda sul considerare l’isolamento come un problema di socializzazione. In particolare, a mia paziente non presenta problemi nella capacità di interagire all’esterno, bensì nel movimento e nella motivazione al movimento. Lo stesso Saitō ha specificato che, prima che l’hikikomori fosse definito in questo modo, si soleva parlare di Sindrome di Apatia. E in effetti l’apatia (dal greco a-pathos, “senza emozione”) consta di una riduzione dei comportamenti finalizzati dovuto a un problema di espressione della motivazione.

Ciò che vale la pena sottolineare, nel caso della mia paziente, è la distinzione tra apatia e depressione: il paziente apatico non prova disagio per la propria condizione, mentre la depressione si correla spesso con stati ansiosi, un tono negativo dell’umore e assenza di piacere (anedonia) che può arrivare fino al desiderio di morire. Nell’oscillazione tra depressione ed apatia si trova la mia paziente.In particolare, il riferimento all’hikikomori mi è servito per parlare con il suo stesso linguaggio, un linguaggio di terre lontane quando non fantastiche, nel particolare caso il Giappone, da dove nasce una delle più floride letterature immaginifiche.

L’hikikomori, dunque, qui è una tecnica mascherata da diagnosi: usare questo esempio, infatti, trasporta già la paziente fuori dal proprio contesto e la sblocca nei movimenti mentali, proprio come in una ipnosi non formale, indiretta, che è quella su cui maggiormente ho condensato i miei interventi su di lei.

In questo tipo di ipnosi, la paziente si è trovata completamente a suo agio, e si è completamente lasciata andare, piangendo e ridendo e muovendosi fra mondi.

Nella ipnosi formale, ho voluto concretare il suo pensiero magico: l’ipnosi in questo caso, sia pure tecnica dello psicoterapeuta che può giungere in luoghi ritirati nel paziente, diviene vero e proprio oggetto, ossia qualcosa che lei è in grado di osservare in quanto appassionata di tematiche quasi fantasmiche, mondi da raggiungere “stando qui”, una sorta di Netflix incarnato nel proprio inconscio.In questo modo, ho smosso la motivazione alla sua stessa radice, e nonostante l’abbia collocata in un luogo più semplice per lei da raggiungere, lei si è recata in un ambiente desertico. La sua motivazione a muoversi è stata così messa in risalto dalla sua stessa volontà, più che dal mio concreto condurla e “accompagnarla”.

Descrivendomi i luoghi durante la trance ipnotica, piangendo, ha voluto rendermi partecipe di questo suo viaggio “oltre”. La ridefinizione, ad opera sua, della scala che le ho chiesto di visualizzare (da grande scalinata a scaletta da pozzo) mostra il suo desiderio di non tornare, e la sua difficoltà a gestire la risalita, che ha definito “faticosa”, ha rinforzato comunque il suo spostamento che, sebbene fosse un ritorno a casa, ha motivato un allontanamento eventuale, futuro, futuribile. Ha dato delle possibilità. Ha lasciato intravedere la forza di un’arrampicata complessa, che però compie. O compirà.

Romina Ciuffa

 

BIBLIOGRAFIA

[1] ERICKSON M., “La mia voce ti accompagnerà”, Astrolabio, 79.
[2] MARIANI A.,Hikikomori, nulla oltre il pc, Avvenire.it, 1 novembre 2012.
[3] ZIELENZIGER M., Non voglio più vivere alla luce del sole. Il disgusto per il mondo esterno di una nuova generazione perduta, Elliot Edizioni, 2008, 30.
[4] CREPALDI M.,Hikikomori. I giovani che non escono di casa, 2019.
[5] AGUGLIA E. et al., Il fenomeno dell’hikikomori: “Cultural Bound” o quadro psicopatologico emergente?, in Giornale Italiano di Psicopatologia, vol. 16, 2010, pp. 157-158.
[6] CREPALDI M., cit.
[7] La “principessa triste” torna a viaggiare, in TG1 Online, 28 aprile 2013:TOKYO – Sarà il primo viaggio all’estero, quello di Masako di Giappone: da sette anni, la principessa “triste” soffre di depressione, malattia che l’ha tenuta lontana dagli eventi sia nipponici, sia esteri. DESTINAZIONE OLANDA. La principessa, 49 anni, ex diplomatica, accompagna il marito per assistere alla intronizzazione del nuovo re olandese Willem-Alexander, il 30 aprile ad Amsterdam. L’agenzia imperiale ha precisato che, durante la visita di sei giorni, la principessa assisterà all’incoronazione, ma potrebbe non prendere parte ad altri eventi ‘‘a causa del suo stato’’. UN VIAGGIO FUORI DALLA NORMA. Per Masako, 49 anni, si tratta del primo viaggio all’estero dopo il 2006 quando trascorse due settimane proprio in Olanda su invito della regina Beatrice, ma per una vacanza familiare. Da circa 11 anni invece – dopo avere visitato l’Australia e la Nuova Zelanda nel 2002 – la principessa, che ufficialmente soffre di depressione dal 2004, non ha più partecipato a viaggi ufficiali. Secondo la stampa nipponica, la sua condizione è causata anche dalla forte pressione della corte imperiale, incluse quelle sulla nascita di un erede per assicurare la successione. La donna ha invece avuto solo una figlia, Akiko, di 12 anni”.
[8] CIUFFA R., Tra uomini e donne non ci sono confini, in Panorama, www.archivio.panorama.it/archivio/Tra-uomini-e-donne-non-ci-sono-confini e in Mutatis Mutandis, www.rominaciuffa.com/transessuali-izzo-tolu/, 2006.
[9] SAITŌ T., Hikikomori: Adolescence Without End, University of Minnesota Press, 2013.
[10] MANGIAROTTI A., Chiusi in una stanza: gli hikikomori d’Italia, in Corriere della Sera, 11 febbraio 2009.
[11] HOFFMAN M., Nonprofits in Japan help ‘shut-ins’ get out into the open, in The Japan Times, 9 ottobre 2011; Aging hikikomori children’s lifelong dependency on parents, in Japan Today, 14 agosto 2013 (senza firma).
[12]PIERDOMINICI C., Intervista a Tamaki Saitō sul fenomeno “Hikikomori”, su Psychomedia.it.
[13] PIERDOMINICI C., cit.
[14] AGUGLIA E. et al., cit., pp. 157-164.
[15] OHASHI N., Exploring the Psychic Roots of Hikikomori in Japan, ProQuest, 2008.
[16] SPINIELLO R., PIOTTI A., COMAZZI D.,Il corpo in una stanza. Adolescenti ritirati che vivono di computer, p. 304, 2015.
[17] NICOLETTI G., L’Hikikomori entra nel vocabolario e nella realtà italiana, in La Stampa, 17 ottobre 2012.
[18] GIAMMETTA R., Hikikomori: isolarsi per troppa vergogna e dire no al conformismo, su quipsicologia.it, 25 febbraio 2013.




MI SONO ISCRITTA AL CORSO DI “FELICITÀ” DI YALE

da BLABLAMIND, il Forum di Psicologia e Coaching @ www.blablamind.com. Apprendo che le università straniere (qui e là) tengono corsi di «Happiness», felicità. Anche online. Spesso le classi fisiche sono troppo piccole per i fruitori, e si verifica un «overbooking». Risponderò qui alle varie domande che possono spontaneamente o meno porsi, tra cui: la felicità è davvero insegnabile? Che ontologicamente fa rima con: la felicità è standardizzabile? Che nel marketing fa rima con: ci fregano?

Intanto una panoramica. Potrebbe pensarsi che tutto giunga dalla malfamata America, che vende anche la «madre d’artista» ai suoi figli. Ma leggo che anche, tra le altre, l’Università di Abu Dhabi (ADU) ha inaugurato, nei campus di Abu Dhabi e Al Ain, un corso di Introduzione alla Felicità e alla Psicologia positiva, in quanto «in linea con il programma di salute pubblica dell’università». Esso si concentra su definizioni, principi, strategie e implementazioni delle tematiche in oggetto, sul lato ottimistico della natura umana, sui modi più efficaci con cui gli individui possono raggiungere pieno potenziale. Deena Elsori, capo del Dipartimento di Scienze applicate e Matematica, ha dichiarato: “Il corso sulla felicità è un risultato fruttuoso di numerosi workshop e programmi di formazione rigorosi per i membri della nostra Facoltà sul concetto e sulla nozione di felicità”. 

Università di Abu Dhabi (ADU)

C’è un MOOC (Massive Open Online Courses) anche in California, Università di Berkeley, dal nome “The Science of Happiness”: esso insegna la scienza rivoluzionaria della psicologia positiva, che esplora le radici di una vita felice e significativa. Gli studenti si impegnano, da gennaio 2018, in lezioni provocatorie e pratiche, sperimentando come la ricerca all’avanguardia possa essere applicata alle loro vite. Creato dal Greater Good Science Center dell’Università, il corso si concentra su una scoperta fondamentale della psicologia positiva: quella felicità è inestricabilmente legata a forti connessioni sociali e alla possibilità di contribuire a qualcosa di più grande di sé. Inoltre, offre agli studenti strategie pratiche per coltivare la felicità, quali provare diverse attività sostenute dalla ricerca che favoriscono il benessere sociale ed emotivo ed esplorare come la felicità cambi lungo la strada. I docenti Dacher Keltner ed Emiliana Simon-Thomas sono noti nel settore della psicologia positiva; a loro si uniscono esperti di empatia, consapevolezza, gratitudine ed altro, quali Barbara Fredrickson, Paul Ekman, Sonja Lyubomirsky e Jon Kabat-Zinn.

Paul Ekman

Harvard non è da meno: Tal Ben-Shahar tiene uno dei corsi più popolari che l’Università di Boston (Massachusetts) abbia mai offerto, “How to get happy”, e si concentra su ciò che rende le persone felici piuttosto che sulle loro patologie. Gratis. Perché i soldi non possono comprare la felicità. Anche il corso “Happiness 101” di Yale (New Haven, Connecticut) è disponibile gratuitamente. Nell’ultimo semestre ben un quarto degli studenti di tutta Yale si è iscritto alla materia di “Psychology and Good Life”, in un numero di circa 1.200: la più grande iscrizione registrata per una singola classe nella storia di 317 anni della Yale University.

Me compresa. Mi sono appena iscritta. Mi sono chiesta, infatti: chi altri – oltre Yale, se non Yale – può avere la possibilità di rendermi felice? Così ora sono invischiata in 10 settimane di attento studio della mia felicità, cercando di deviarlo dalla concentrazione su: situazione sentimentale, vita sessuale, relazioni sociali, lavoro, famiglia, soddisfazione, salute, benessere, e buttandomi a capofitto sui libri.

Dopo aver – per anni e tuttora – rigettato coloro che propinano (costosi) manuali e lezioni di felicità senza scientificamente dimostrarmi:
  • il rigore del metodo;
  • l’analisi diagnostico-statistica che ne dovrebbe costituire il fondamento;
  • la loro felicità (evidenze probatorie oltre a foto di famiglia e corse sulla spiaggia col cane),
ho creduto e credo che – per la natura della mia struttura culturale e cerebrale – siano necessari:
  • un diploma universitario (quattro lauree, che ho, mi hanno reso già felice in effetti, per il sol fatto di progredire nella conoscenza);
  • la copertura della terza più antica istituzione di istruzione superiore negli Usa nonché di uno dei nove college coloniali istituiti prima della rivoluzione americana;
  • il fatto che la professoressa Laurie R. Santos sia una mia coetanea. Quindi “sa”.

Laurie Santos, Yale University, durante una lezione di “Felicità”

Passo subito a lei. Nata nel 1975, anche professoressa di Psicologia e Scienze cognitive a Yale, nella sua “monkeynomics” (economia delle scimmie) esplora le origini evolutive della mente confrontando le capacità cognitive di umani ed animali e testando i problemi della psicologia umana sui primati, le cui irrazionalità sono spesso (e non volentieri) a noi comuni. Direttrice del Canine Cognition Lab di Yale, è oratore TED (marchio di conferenze gestito dalla Sapling Foundation) ed è stata inserita dalla rivista Popular Science tra le giovani menti “Brilliant 10” del 2007, e dalla rivista Time nei “Leading Campus Celebrity” del 2013; nel giugno 2016 è stata messa a capo del Silliman College, una delle 14 università residenziali a Yale. Lo scopo del suo corso non è solo imparare cosa secondo la ricerca psicologica renda felici, ma insegnare a mettere in pratica strategie: la sua prima parte rivela l’erroneità di idee sulla felicità e le caratteristiche fastidiose della mente che portano a pensare come è comune pensare; la seconda si concentra su attività che hanno condotto a un aumento della felicità e su strategie per costruire abitudini migliori.

Yale University, New Haven

L’ho ascoltata. Ritiene che il corso sia necessario: gli studenti di Yale non sono davvero felici, dice. Devono mirare alla big picture, una visione a 360 gradi. Dopo aver terminato l’intero percorso, gli studenti potrebbero (lei dice dovrebbero) essere in grado di mettere in pratica le nuove conoscenze/competenze.

Se chiedi alle persone se sono felici, solitamente esse non si sentono a proprio agio nel rispondere, fa notare.

Come possiamo mettere la felicità sotto un microscopio? Afferma: ciò è possibile. Se potesse correggere una comune credenza erronea, la dottoressa Santos si concentrerebbe sulla seguente: si è soliti pensare che il cervello sia in grado di darci informazioni accurate su ciò che davvero vogliamo. Il punto più delicato, qui, è nel ritenere che alcune cose possano renderci felici, senza badare alle altre, che possono invece essere stabilizzate con la pratica. Ciò che noi riteniamo di volere, in realtà semplicemente non lo vogliamo. O possiamo non volerlo.
L’esempio che riporta è quello classico: il salario. È vero, può aiutare un po’. È qualcosa che crediamo in grado di renderci felici ma che, di fatto, non ci avvicina minimamente alla condizione sperata. La domanda da porsi è: per cosa vale davvero la pena vivere? Eppure, sapere approssimativamente ciò che può procurare la felicità non è la soluzione finale. Possiamo immaginare che lo stipendio non ci renderà felici, e sapere che la meditazione aiuta, ma fino a che non si mettano in pratica tali consapevolezze nulla accadrà, niente cambierà. Il corso prepara a questo: attuare ciò che si studia e si impara, durante lo svolgimento del corso stesso. Rivedere le proprie abitudini. Gli studenti non dovranno solo impegnarsi nello studio, ma anche e soprattutto nell’azione.

Quando a Laurie viene domandato: “Se oggi avesse 90 anni, cosa vorrebbe sapere del suo passato?”, lei risponde: Credo vorrei comprendere ciò che sta accadendo al nostro Paese in questo momento. Politica ed altro. Non so dire dove tutto ciò ci stia portando. Se avessi una palla di vetro e potessi chiedere alla mia futura me ‘cosa è accaduto?’, vorrei conoscere gli effetti delle azioni attuali sul nostro domani”.

A proposito dei suoi studenti di Yale, afferma: “Hanno molte esigenze. Mi rendono fiera perché si domandano cosa è giusto e cosa non lo è, ne ammiro gli elevati standard di giustizia sociale e ritengo che la loro identità debba essere protetta. Ciò che è frustrante, invece, è che li vedo perdere a Yale molto del loro tempo, ad esempio tra fogli e burocrazia, mentre potrebbero utilizzare tali ore per passeggiare, conversare con nuove persone, pensare. Non hanno il tempo per godere di questo spazio, e temo che fra 20 anni un giorno si sveglieranno e, ricordando il passato, si porranno questa domanda: a cosa stavo pensando allora? Vorrei scuoterli oggi e dir loro: divertiti, godi di questi giorni o li perderai!

Perché gli studenti dovrebbero iscriversi a questo corso? “Questa è una domanda facile”, replica. “Il mio campo di studio si pone una domanda: cos’è l’essere umano? Come dovremmo vivere la nostra vita? Sono domande che l’uomo si fa sin da quando è umano. Noi abbiamo il modo scientifico per rispondere a questo, siamo fatti per rispondere a tale interrogativo”.

Sono tre le ragioni che hanno portato la docente di Psicologia dell’Evoluzione ad aprire questa finestra universitaria sulla felicità.

  1. La prima: The science of Psychology has lots of new insights. La psicologia ha molte nuove intuizioni, il Governo può spingere le persone al cambiamento con programmi accurati, e, di fatto, essi sono funzionali e funzionanti anche grazie al progresso delle scienze psicologiche.
  2. La seconda: We need these insights pretty badly. Abbiamo un assoluto, estremo bisogno di tali intuizioni e suggestioni. Secondo uno studio del 2013, gli americani sono il popolo più infelice del mondo. Sono prescritti farmaci contro la depressione in proporzione di 400×1 rispetto a quanto avveniva 20 anni fa, specifici gruppi sono sempre più infelici e spesso di essi fanno parte i laureati. Da cui il secondo corollario della seconda ragione: Yale students need these insights pretty badly. Gli studenti di Yale hanno un assoluto, estremo bisogno di tali intuizioni e suggestioni.
  3. La terza ragione, quella più “personale”: I need these insights really badly too. Io stessa ne ho bisogno. Ossia, è la stessa docente a fare coming out. “Non voglio che si pensi che io abbia raggiunto tutti i miei traguardi: non è così. Sono solo a metà strada”.

Aggiunge: “Potreste pensare che la professoressa del corso di Felicità sia felice come un emoticon a faccina contenta (lo mostra ai suoi studenti durante la lezione). E che vada in giro tra gli studenti di Yale a dire: ragazzi, voi siete tristi, io vi renderò felici quanto me! Ebbene, non è vero”.

Personalmente, solo ad ascoltare Laurie sto meglio. Finito il corso di dieci settimane, darò mie notizie in tema di felicità. (ROMINA CIUFFA)




APRE IL MIO STUDIO DI PSICOLOGIA ED IPNOSI

ROMINA CIUFFA
psicologa (Iscrizione Ordine degli Psicologi del Lazio n. 22761)
ipnoterapeuta (Scuola di Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana diretta da Camillo Loriedo)

mail: info@rominaciuffa.com

MODULO DI CONTATTO RAPIDO
al link: https://www.psichelogia.com/consulto

Riceve negli studi di:
ROMA
(Centro Storico, Metro Barberini o Spagna)
CASTELLI ROMANI
(Monte Compatri)
MILANO
(Centro-Zona Navigli, Metro Sant’Agostino o Porta Genova) previo accordo ONLINE sulle consuete piattaforme
e in viaggio (METODO DROMO)

LINGUE > italiano, inglese, spagnolo, portoghese

PRINCIPALI AMBITI DI INTERVENTO

  • ansia, attacchi di panico, disturbi psicosomatici
  • ossessioni, dipendenze
  • LGBTIA, con particolare riguardo alla tematica omosessuale e di orientamento sessuale
  • dipendenza da farmaci e psicofarmaci
  • supporto all’età evolutiva (bambini ed adolescenti) in ambito scolastico, ripetizioni, aiuto nei compiti, socialità
  • disturbi da stress post-traumatico
  • terapia di coppia
  • insicurezze
  • ”mal d’amore”
  • ipnoterapia se necessario

Le sessioni di terapia psicologica seguono principalmente il modello di Milton Erickson. Sedute “classiche”, ma anche movimento, gite, passeggiate, compiti, e ciò che possa essere d’aiuto all’inconscio nello specifico, nella sua unicità: la classe dei cani non è essa stessa un cane. Si abbandona il letto di Procuste, ossia non si effettua alcuna forzatura (nella mitologia greca il brigante Procuste, anche conosciuto come “stiratore”, costringeva gli ignari viandanti in un letto scavato nella roccia, misurandoli: se troppo corti li stirava con l’incudine, se troppo lunghi e sporgenti li amputava fino a farli rientrare; le vittime, nei due sensi, morivano tra atroci torture). Il processo è naturale, si incoraggiano anche le resistenze, si promuove il cambiamento in un approccio naturalistico, si dorme sia corti che sporgenti senza stirare né amputare, grazie al dialogo con l’inconscio. Junghianamente riassumendo: alla parola viene affidato tutto ciò che non si è potuto ottenere con mezzi onesti.

MODELLO ERICKSONIANO. Il modello di Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana si fonda sull’esperienza dello psichiatra, psicoterapeuta ed ipnoterapeuta statunitense (daltonico, dislessico, tonalmente sordo, poliomielitico, paralizzato) Milton Erickson (1901-1980) che, imparando a guarire se stesso, seppe guarire gli altri. Scoprì sin da giovane la focalizzazione ideodinamica indiretta (ogni idea tende a tradursi in atto): seduto su una sedia a dondolo, completamente paralizzato, si esercitava a pensare di guardare la finestra e immaginava che la sedia dondolasse; facendo questo esercizio, via via riprese piena padronanza dei movimenti. Era autoipnosi. Il suo lavoro nel tempo rivoluzionò le stesse fragili fondamenta dell’ipnosi e si pose come base dei nuovi approcci della psicoterapia strategica (di cui è considerato il padre, e nell’ambito della quale collaborò con George Bateson, che gli inviava pazienti), della psicoterapia breve-strategica (Paul Watzlawick a Palo Alto, Giorgio Nardone in Italia), della programmazione neurolinguistica (PNL), del costruttivismo, del coaching/counseling.

L’inconscio è di per sé strumento di guarigione, già detentore delle risorse utili al percorso evolutivo dell’individuo. Il quale non sa accedervi. Lo psicologo è colui che – attraverso il dialogo diretto con l’inconscio stesso per via di storie suggestive e metafore più o meno percettibili come tali dall’ascoltatore, nonché di un linguaggio “vago” (Milton Model), ma sempre nell’ambito di un rapport unico con il paziente – pone questi in grado di utilizzare “se stesso” per trovare la sua via d’uscita. La trance è “solo” un ambiente dove imparare, dove modificare il proprio stato. E non è, come si crede, il “dormire”: si può essere in trance anche nel pieno esercizio delle proprie funzioni cognitive, senza rendersene conto. Ogni giorno si cade in trance spontaneamente quando, leggendo un libro, guardando un film, assorti nei propri pensieri, scarabocchiando su un foglio mentre si è al telefono (scrittura automatica), non si sentono i rumori, non si vedono i dettagli, si dimentica un’intera stanza, un’intera spiaggia, un’intera isola, un intero mondo. Si cade in trance quando si sta ricordando, quando si ascolta un interlocutore, quando si fa la doccia, in un déjà-vu.

L’ipnoterapeuta induce la trance e, nel modello ericksoniano, assume un ruolo di guida, riassunto nell’asserzione ipnotica di Erickson: la mia voce ti accompagnerà (“My voice will go with you”). In questo spazio suggestivo, gestisce le risorse in senso favorevole alla persona che già le detiene, focalizzandosi sul suo benessere psicologico e, ove necessario, fisico (è il caso dell’analgesia e dell’anestesia). L’ipnoterapeuta protegge il paziente, e ciò può fare possedendo gli strumenti della psicoterapia: chiunque svolga pratiche di ipnosi senza una istruzione adeguata ed un titolo che la certifichi, non è qualificato. Lo psicoterapeuta ha compiuto studi che attengono direttamente alla diagnosi e alla terapia dei disturbi psicopatologici; e poiché la clinica e la sperimentazione sono strettamente legate, lo psicologo ipnotista rigorosamente diretto alla sperimentalità deve avere pratica dell’ipnoterapia. Chi è abilitato all’ipnosi? La mia risposta è qui: www.rominaciuffa.com/ipnosi-soggetti-abilitati/.

Risulta fondamentale la qualità della “coppia” terapeuta-paziente, di tipo relazionale e speculare. Il terapeuta andrà plausibilmente in trance prima del suo paziente in un rapporto di complementare fiducia: l’ipnotista non farà ipnosi alla persona ma con la persona. Il rapport sarà basato sul tailoring, poiché esattamente come in sartoria sarà ritagliato il vestito adatto a ciascun individuo. Così come fece innanzitutto su se stesso Milton Erickson, trovando soluzioni che implementassero le sue risorse e ridimensionassero i suoi (molti) handicap: si cucì addosso un completo che fosse “completo” proprio perché suo, e che lo “completasse” là dove sembrava/era dato per scontato che lui non potesse arrivare. Nonostante la sua grave disabilità fisica, affrontò da solo un viaggio in canoa pur senza la forza nelle gambe necessaria per muovere la canoa fuori dall’acqua, nuotare, pagaiare; per tutta un’estate navigò lungo il Mississippi, nutrendosi dei pesci che pescava e delle piante che trovava, e percorse 1.200 miglia. Dopo questa esperienza, il suo torace era aumentato di 15 centimetri, poteva nuotare per un chilometro e mezzo e pagaiare dall’alba al tramonto. E non fu la sua unica impresa. Questa non è una potenzialità di Erickson: è la potenzialità di tutti.


Milton Erickson

ESPERIENZE. Romina Ciuffa, laureata in Psicologia all’Università La Sapienza di Roma (già avvocato, dopo aver conseguito le laureee in Giurisprudenza all’Università LUISS-Guido Carli nel 1999, e in Scienze Politiche all’Università ROMA TRE nel 2001), ha, tra l’altro, lavorato presso il Carcere di Rebibbia in sostegno ai carcerati del Complesso Penale prima (Ministero di Giustizia), quindi del SerT (Servizio Tossicodipendenze) nel Nuovo Complesso (alcol, droga, gioco d’azzardo), specializzandosi nelle dipendenze (Ministero della Salute), con la dott.ssa Anna Augusta Taddeo. Ha trascorso anni nella Favela della Rocinha (Rio de Janeiro) occupandosi delle problematiche della comunità, con principale attenzione alle dinamiche dell’infanzia e dell’adolescenza dei ragazzi di strada e, negli adulti, delle situazioni di malessere, povertà, malattia.

È specializzata in Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana presso la scuola di Roma, diretta dal prof. Camillo Loriedo, psichiatra, docente di Psichiatria presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, direttore della UOC di Psichiatria e Disturbi del Comportamento Alimentare presso il Policlinico Umberto I, autore di innumerevoli pubblicazioni. 

Ha collaborato come psicologa con il dott. Emanuele Mazzone nel Presidio di Riabilitazione NUOVA SAIR a Roma, attraverso l’applicazione agli adolescenti autistici dell’ipnosi indiretta. Il Presidio accoglie giovani autistici cui vengono erogate prestazioni riabilitative, attività di carattere ludico-ricreativo e ludico-sportivo e attività sanitarie di tipo medico-infermieristico. L’area di azione del centro è la periferia di Roma est, caratterizzata da un alto livello di disagio socio-economico e marginalità.

Giornalista con all’attivo molte pubblicazioni sul tema della psicologia, i suoi articoli sono pubblicati sulla rivista quarantennale SPECCHIO ECONOMICO, in una specifica rubrica che lei stessa cura, e sul suo sito MUTATIS MUTANDIS nella categoria PSICOLOGIA (www.rominaciuffa.com/category/psicologia/).

Opera anche su METODO DROMO, di sua elaborazione: www.dromobility.com/metododromo.

Messo a punto in anni di viaggi e dromomania dalla stessa Romina Ciuffa, il METODO DROMO prende atto della necessità di fuggire – tacciata dai più con un connotato negativo e grossolano – e la utilizza come risorsa per superare ericksonianamente l’empasse. Attraverso la terapia, l’ipnosi e viaggi mirati, sarà utilizzato il “tempo di fuga” da taluni problemi non come semplice (e pericoloso) stacco e distacco, bensì come crescita e velocizzazione del metabolismo emotivo attraverso il ricorso ai nuovi stimoli o il corretto impiego degli antichi. Sarà un viaggio alla ricerca di se stessi, in superamento di fobie, depressioni, attacchi di panico, ossessioni, ed altro. Particolarmente indicato per affrontare e/o risolvere i problemi di una coppia, ivi inclusi quelli attinenti il tradimento, di cui è punto di forza. Si sviluppa in un viaggio mentale ed effettivo, una partenza vera e propria “senza ritorno”. 

Per contatti diretti e chat: www.psichelogia.com

 




IPNOSI: ORA ALZATI E UCCIDI. PARTE 2: DAL REATO IMPOSSIBILE ALL’INCONSCIO TESTIMONE IN GIUDIZIO

Segue da https://www.rominaciuffa.com/ipnosi-soggetti-abilitati/

IPNOSI. ASPETTI GIURIDICI
di Romina Ciuffa*
psicologa ipnotista
avvocato

PARTE 2. L’IPNOSI NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO

Introduzione alla seconda parte

A me gli occhi. Ora alzati e uccidi. È possibile? Dò la risposta alla vexata quaestio che tormenta chi ha dubbi sul potere dell’ipnosi, tanto in negativo (“Su di me non ha effetto”), tanto in positivo (“Ma io ho paura!”). Ne dò la risposta analizzando l’ordinamento giuridico in questo mio personale studio, che nelle precedenti versioni del Codice penale italiano aveva fatto invece l’illustre (ben più di me) autore Guglielmo Gulotta, ma che ora va rivisitato per la nuova formulazione. Per un giurista, infatti, a tale domanda si affianca il più rilevante interrogativo: di chi è la responsabilità dell’azione compiuta e indotta in stato di trance? E, ancor prima: è possibile che l’ipnosi possa tanto? Perché, se sì, viva l’ipnosi. Pericolosa sì, ma potente. Mi sono domandata, così, accanto ad altri, se non si rientri nella fattispecie del reato impossibile (art. 49, comma 2, del codice penale): una risposta positiva (l’ipnosi configura una fattispecie di reato impossibile al pari di chi voglia uccidere e, per farlo, spari con una pistola giocattolo, o pugnali un fantoccio) depotenzia lo strumento ipnotico ma ci rende liberi; una risposta negativa (il reato è possibile, ossia si può indurre l’ipnotizzato a compiere un atto contro la propria volontà, anche criminale, così come abusare di lui) potenzia l’ipnosi e apre uno scenario immenso non solo nella psicologia e nella psichiatria, ma anche nell’ordinamento giuridico, anche alla luce della responsabilità penale personale che la Costituzione esprime. E pur sempre viva l’ipnosi.

Ciò detto vale (con le dovute specifiche qui sotto indicate) non solo per il dilemma penale. Nel codice civile, il punto interessante è quello della sanzione per l’atto compiuto in stato di ipnosi: nullità, annullabilità, inesistenza? Un giurista sa quanto la questione sia rilevante: indurre a scrivere testamento o a donare una proprietà in stato di trance, ad esempio, è possibile? E in che modo sanzionabile?

Ultima questione, l’utilizzabilità dell’ipnosi nel processo penale: è lecito e valido l’impiego di tale strumento per far riaffiorare ricordi? E che valenza probatoria detta escussione ha nel nostro ordinamento processuale? E negli altri Stati? Ne faccio una questione “sentimentale”: l’inconscio può testimoniare la verità?

 

PARTE 2. IPNOSI: ORA ALZATI E UCCIDI. DAL REATO IMPOSSIBILE ALL’INCONSCIO TESTIMONE IN GIUDIZIO

Nel nostro ordinamento, a livello di legislazione ordinaria, prenderemo in considerazione le quattro norme fondamentali (ovviamente collegate ad altre) applicabili all’ipnosi. Una di esse è di materia civilistica, due sono contenute nel Codice penale, la quarta nel Codice di procedura penale. Nell’ordine, le descrivo qui sotto.

 

  • CODICE CIVILE

In ambito civilistico, ciò che è importante ai fini della presente trattazione è la valutazione dell’efficacia di un atto che è stato compiuto in uno stato di trance ipnotica o di suggestione post-ipnotica. Sovviene l’art. 428 c.c., titolato “atti compiuti da persona incapace d’intendere o di volere”, il quale prevede che gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all’autore. La norma si riferisce alla cosiddetta incapacità naturale, ossia quella non risultante ufficialmente dai registri dello stato civile che è accertata in base a criteri sostanzali o procedimentali, comunque in grado di mettere il soggetto in una condizione, anche transitoria, di squilibrio contrattuale, dovuto a un vizio volitivo.

L’incapacità di intendere o di volere rilevante ai fini della norma deve essere verificata di volta in volta, in relazione allo specifico atto compiuto dall’incapace. Nel caso specifico dello stato ipnotico, bisogna verificare se esso possa configurare quell’incapacità naturale richiesta per l’annullamento di un atto compiuto in sua costanza; cito, una su tutte, la sentenza della Corte di cassazione n. 7344 dell’8 agosto 1997, secondo cui “nell’incapacità naturale è sufficiente che le facoltà psichiche del soggetto siano ridotte”. Le sue cause ricomprendono una menomazione della sfera intellettiva e volitiva, anche non patologica. Ed ai casi di ubriachezza o tossicodipendenza, età avanzata, infermità fisiche, stati passionali acuti, intenso bisogno di denaro, fino a suggestione, sorpresa, inesperienza e immaturità, il giurista Rodolfo Sacco aggiunge la suggestione ipnotica[6].

ANNULLABILITÀ. Secondo l’opinione dominante, nel concetto di inapacità naturale di cui all’art. 428 c.c. rientra anche l’ipnosi. Ma, secondo altra opinione, “la questione (…) sembra quanto meno discutibile perché, a rigor di logica, l’ipnosi dovrebbe esser considerata come una ipotesi di violenza fisica (o assoluta) e pertanto fuori dal campo di applicazione dell’art. 428 c.c.”[7]. Ciò che preme osservare qui è quanto la configurazione dello stato ipnotico come incapacità naturale porti effetti differenti rispetto ad una sua configurazione come assenza di volontà (non vizio): è la differenza giuridica che passa tra annullamento e nullità. Applicando l’art. 428 c.c. (l’ipnosi produce incapacità naturale) si rientra nella disciplina dell’annullamento, e dunque: il negozio annullabile in quanto concluso da un incapace di intendere e di volere è produttivo di effetti e li conserva sino alla sentenza; questa non è di accertamento ma costitutiva, poiché elimina una situazione giuridica esistente e gli effetti del negozio retroattivamente. L’annullamento può essere chiesto al giudice solo dalla parte nel cui interesse è stabilito dalla legge (annullabilità relativa) e solo in rari casi da chiunque vi abbia interesse (annullabilità assoluta).

NULLITÀ. Considerando, invece, lo stato ipnotico come uno stato in cui la volontà non è menomata, flebile, bensì totalmente assente in quanto prodotto da violenza fisica (vis ablativa) [8], si andrebbe ad applicare la disciplina della nullità, per cui l’atto compiuto in tale condizione non è mai sorto, non ha mai prodotto effetti, è insanabile (salvo che la legge non prescriva diversamente), può essere convertito solo a determinate condizioni (ripetizione); la legittimazione all’impugnazione è assoluta e l’azione di nullità spetta a chiunque, purché interessato; ha effetto anche nei confronti dei terzi. Tale approccio avvalla l’affermazione che nel caso dell’ipnosi manchi assolutamente un simulacro di volontà, pertanto il contratto sarà privo del requisito essenziale psichico per il consenso negoziale, e quindi, nullo ex art. 1325 n. 1 c.c.; la dichiarazione sarebbe soltanto materialmente riferibile all’agente, in quanto fisicamente costretto senza alcuna possibilità di opporvisi. Questo perché il soggetto sottoposto ad ipnosi “non ha altra volontà che quella che gli viene imposta dall’operatore; allo stesso modo egli non ha pensieri, se non quelli che l’operatore gli suggerisce; egli non presenta la minima ombra di spontaneità ed un movimento a lui impresso viene eseguito senza che la sua volontà sia capace di arrestarlo, l’atto è soltanto eseguito dagli organi dell’ipnotizzato, è da attribuirsi non alla sua volontà e coscienza, cioè alla sua personalità, temporaneamente soppressa, ma alla volontà e coscienza dell’operatore”[9].

INESISTENZA. Non manca una parte della dottrina, infine, che indica nell’inesistenza dell’atto la sanzione più appropriata, essendo carente di quei requisiti minimi utili alla definizione di un atto come negozio, sebbene nullo. L’atto, in poche parole, non è mai sorto.

Nonostante il soggetto ipnotizzato, per Di Cagno, divenga un automa in balia dell’ipnotista sulla base di una pretesa energia promanante dall’ipnotista che ricorda il magnetismo animale di Franz Anton Mesmer, egli sostiene che non è comunque possibile far rientrare nell’ipotesi di violenza assoluta gli atti compiuti nello stato post-ipnotico, ossia quando l’esecuzione del comando ipnotico avviene dopo la deipnotizzazione, “mancando l’estremo dell’immediatezza dell’esecuzione dell’atto quale risultato diretto dell’energia fisica impiegata”. Il medesimo problema si concretizza anche per gli atti compiuti in stato di ipnosi leggera. Qui la convinzione di una vis ablativa nell’ipnosi comincia a cedere. Le teorie indicate si riferiscono, ormai, ad una concezione dell’ipnosi che ha in parte significato. Infatti, “si ricordi che il grado di coinvolgimento dell’individuo nell’ipnosi varia da caso a caso e che col termine di profondità dell’ipnosi si allude proprio a questa gradualità di partecipazione del soggetto al fenomeno in questione”[10].

Il regime applicabile, invero, dipende dalla situazione verificatasi nella fattispecie concreta. Va, cioè, valutato ed accertato come e quanto, fattivamente, si sia concretata la perdita o la diminuzione di coscienza che, in uno stato di induzione, può variare su una scala molto vasta, soggettiva, e che non può essere generalizzata; accertamento, questo, indubbiamente complesso, ma che chiama in causa la neurologia dell’ipnosi e la forza che tale strumento può espletare, effettivamente, non su un soggetto bensì su quel determinato soggetto.

 

  • CODICE PENALE

Sono due le norme che, peraltro espressamente, richiamano l’ipnosi: gli artt. 613 e 728 c.p. Le descrivo di seguito.

 

a. L’ART. 613 DEL CODICE PENALE

L’art. 613 c.p. punisce chiunque, mediante suggestione ipnotica o in veglia, o mediante somministrazione di sostanze alcooliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo, pone una persona, senza il consenso di lei, in stato d’incapacità d’intendere o di volere. Reclusione fino a un anno, e due aggravanti al terzo comma: reclusione fino a cinque anni a) se il colpevole ha agito col fine di far commettere un reato; b) se la persona resa incapace commette, in tale stato, un fatto preveduto dalla legge come delitto. Il concorso delle due aggravanti non è ipotizzabile perché la prima richiede il fine di far commettere il reato, la seconda lo esclude. Se il fatto è commesso da pubblico ufficiale è applicata l’aggravante dell’art. 61 n. 9, se commesso da un medico che ha agito con abuso della professione la condanna non è aggravata, ma ai sensi degli artt. 30 e 31 c.p. è comminata l’interdizione temporanea dalla professione. Soggetto passivo è chiunque non si trovi già in stato di incapacità di intendere e volere.

Inoltre, la norma va interpretata in combinato disposto con l’art. 86 c.p. per cui: “Se taluno mette altri nello stato di incapacità di intendere o di volere, al fine di fargli commettere un reato, del reato commesso dalla persona resa incapace risponde chi ha cagionato lo stato di incapacità”.

La prima domanda: è questo un reato impossibile? (previsto espressamente dall’art. 49, comma 2, c.p.). Ossia: è possibile indurre in stato di trance qualcuno senza la sua volontà? È possibile far compiere atti criminosi all’ipnotizzato?

La risposta è, generalmente, negativa[11]. È possibile indurre una trance ipnotica senza consenso solo su chi è già assuefatto, come una profezia che si autodetermina, o su soggetti che, prestandosi per la prima volta all’ipnosi, implicitamente danno il consenso. Si può anche operare con soggetti riluttanti (Milton Erikson ammette che la riluttanza dei suoi pazienti era ambivalente, cioè contrastata dal desiderio del soggetto di esibirsi e di provare questa particolare esperienza), o attraverso tecniche dialettiche nelle quali le parole “ipnosi” o “sonno” non sono mai pronunciate. Altro è il problema se il soggetto ipnotizzato volontariamente perda il controllo del proprio comportamento mentre è in ipnosi, e soprattutto, con Orne, se esista corrispondenza tra l’esperienza soggettiva di libertà di scelta ed il comportamento dell’ipnotizzato[12]. “Si possono verifìcare in ipnosi diverse ipotesi: può aumentare il controllo dell’ipnotista sul soggetto per la diminuita capacità critica di quest’ultimo. È poi possibile che il soggetto elimini i suoi processi decisionali per la durata della trance ipnotica ed accetti la realtà in base alle istruzioni dell’ipnotista – che può anche alterare i dati di realtà – piuttosto che in base alle sanzioni concrete dei suoi organi di percezione. Un’alternativa completamente differente è che il soggetto in ipnosi possa essere forzato a commettere azioni contro la sua morale”[13].

Per la scuola di Nancy, i soggetti ipnotizzati divengono come automi che eseguono qualunque cosa sia loro comandata: l’ipnotismo può venire usato con propositi criminali. La scuola della Salpètrière ritiene, in opposizione, che l’uso antisociale dell’ipnotismo è possibile solamente quando nel soggetto siano già presenti tendenze criminali: l’ipnotizzato non potrebbe essere indotto a commettere azioni che si rifiuterebbe di compiere in condizioni normali. Per entrambe le scuole, però, la suggestione ipnotica può essere usata con successo per compiere i crimini sessuali sull’ipnotizzato[14].

Molti autori hanno sostenuto, con esperimenti, la possibilità di indurre il soggetto a nuocere a se stesso o a terzi; per altri, è invece mpossibile provocare ipnoticamente una condotta antisociale. Lo stesso Erickson istruì 50 soggetti in trance, selezionati da un gruppo di 500, a rubare piccole somme di denaro, a leggere la corrispondenza destinata ad altre persone, a commettere atti autolesivi, a dare false informazioni, a infrangere regole morali, a commettere atti lesivi dell’incolumità personale altrui ed altri atti antisociali. In nessun caso il soggetto tenne il comportamento che gli era stato suggerito[15]. Questa divergenza di risultati è spiegata in letteratura secondo tre criteri:

  • l’ipnotizzato compie atti antisociali perche in sé ha una tendenza criminale;
  • l’ipnotizzato compie atti antisociali perché percepisce la sperimentalità della situazione;
  • l’ipnotizzato compie atti antisociali perché l’ipnotista se ne assume la responsabilità.

Numerosi sono i fattori cui legare il comportamento[16], ad esempio, il fatto stesso che una determinata azione sia richiesta al soggetto da un professore, in un laboratorio universitario, altera considerevolmente il significato contestuale del comportamento. Se gettare l’acido addosso a qualcuno rappresenta un comportamento antisociale, compiere la stessa azione in una situazione sperimentale riveste un significato completamente diverso, in quanto il soggetto percepisce la non pericolosità del suo gesto, anche se apparentemente non sembra vi siano misure precauzionali. Molte variabili influenzano il comportamento del soggetto e tra esse si possono includere: le circostanze in cui il comportamento viene richiesto (in laboratorio, in privato, con testimoni, ecc), la posizione e la reputazione dell’ipnotista, il proposito che il soggetto attribuisce alle richieste dell’ipnotista”[17].

Oltre a tale problema, sussiste quello accennato del nesso eziologico tra causa ed effetto del comportamento, che non può essere interrotto pena la violazione della norma costituzionale di cui all’art. 27 che prevede la personalità della responsabilità penale. La teoria causale della conditio sine qua non considera causa ogni antecedente senza il quale il risultato non si sarebbe avverato: è cioè sufficiente che l’uomo abbia realizzato un antecedente indispensabile per il verificarsi del risultato perché si abbia il rapporto di causalità. Ma al nesso di causalità va aggiunto, per una corretta definizione penale, l’elemento soggettivo del reato, ossia il concorso del dolo o della colpa dell’agente (escluderei l’ipotesi di Pioletti secondo cui l’ipnotizzato dovrebbe sempre rispondere per colpa del reato commesso durante lo stato ipnotico per il fatto stesso di aver consentito di farsi porre in trance[18]). Tanto che la teoria della condicio sine qua non è stata molto osteggiata, e sostituita da quella più tenera della “causalità adeguata”, secondo cui perché esista il nesso occorre che il soggetto abbia determinato l’evento con un’azione adeguata, idonea in astratto a determinare l’effetto, secondo un giudizio ex ante in base all’esperienza di casi simili: non si considerano causati dall’agente gli effetti che al momento dell’azione si presentavano improbabili, cioè gli effetti straordinari o atipici dell’azione stessa. Per la teoria “nomologico-funzionale”, invece, un evento deve reputarsi effetto di un altro evento quando tra essi esiste un rapporto di successione costante, ossia quando dato l’uno, l’altro segue in modo ineccepibile. Per le tre teorie citate, l’ipnosi è comunque adeguata alla causazione dell’evento criminoso, e la risposta alla domanda: “Si tratta di reato impossibile?” è negativa. È possibile. Non è infatti quello dell’ipnosi il caso in cui la punibilità è esclusa quando, per l’inidoneità dell’azione o l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso.

E Granone risponde: “Sul terreno medico-legale, anche se da un punto di vista più teorico che pratico, questa eventualità non deve rigettarsi come vorrebbero coloro che ammettendola, temono di compromettere il buon nome dell’ipnotismo. Le difficoltà della sua attuazione pratica, sono, per buona sorte, notevoli e richiedono da una parte un criminale che sia contemporaneamente un assai esperto ipnotizzatore e dall’altra un soggetto succubo, che raggiunga gradi profondi di suggestionabilità e di ipnosi sonnambolica, come non è tanto facile incontrare. D’altro canto gli ipnotisti esperti sanno che l’amnesia derivante dall’ipnosi non è sempre assoluta; emergono spesso all’improvviso sprazzi di ricordi e questi, denunciati, possono far crollare il delitto meglio architettato con l’ipnotismo”[19].

b. L’ART. 728 DEL CODICE PENALE

L’art. 728 c.p. punisce chiunque pone taluno, col suo consenso, in stato di narcosi o d’ipnotismo, o esegue su lui un trattamento che ne sopprima la coscienza o la volontà, è punito, se dal fatto deriva pericolo per l’incolumità della persona, con l’arresto da uno a sei mesi o con l’ammenda da 30 euro a 516 euro. Aggiunge, nel secondo comma, che tale disposizione non si applica se il fatto è commesso, a scopo scientifico o di cura, da chi esercita una professione sanitaria.

La ratio dell’incriminazione delle pratiche ipnotiche va ricondotta all’art. 2 della Costituzione, dove si riconosce l’inviolabilità dei diritti dell’uomo in quanto singolo, nell’aspetto specifico dell’inviolabilità della libertà morale[20]. Anche qui, come analizzato in tema di incapacità naturale, il punto è il coinvolgimento del soggetto: si va da un grado minimo in cui il controllo della relazione da parte dell’ipnotista è modesto ed il senso della realtà dell’ipnotizzato non è intaccato, a un grado massimo in cui tale controllo è totale e il senso della realtà è fortemente compromesso.

La prima considerazione da fare sulla norma è formale e definitoria: il legislatore parla di ipnotismo, confondendo il metodo con lo stato. Più appropriato sarebbe stato parlare di “stato ipnotico”.

È richiesto il consenso di chi è posto in stato di incapacità nel senso sopraddetto (consenso che sia valido).

Del terzo comma si è accennato nel capitolo precedente (cfr. https://www.rominaciuffa.com/ipnosi-soggetti-abilitati/) relativamente all’esercizio dell’ipnosi da parte di chi non svolga professione sanitaria; tale norma introduce una causa di giustificazione per tali soggetti, estromettendoli dalla configurabilità del reato. Non escluderà, invece, la punibilità del non abilitato nel senso già descritto.

Quindi, è enunciata una condizione obiettiva di punibilità: che dal fatto derivi pericolo per l’incolumità della persona. Gulotta in particolare distingue pericoli per il soggetto, pericoli per l’operatore, pericoli per la medicina, pericoli per l’ipnosi stessa come metodo[21]. Non c’è prova che induca a ritenere che l’ipnoterapia possa avere effetti deleteri sui pazienti. Platonov, collaboratore di Pavlov, dichiarava di non aver mai osservato alcuna influenza dannosa dell’ipnosi sui pazienti, avendola usata per più di 50 anni su oltre 50.000 casi [22]. Cheek, poi, “ironizza ed afferma che i meccanismi con i quali l’ipnosi può produrre un effetto dannoso non sono differenti dagli strumenti usati da Lady Macbeth sul marito o da Jago su Otello; aggiunge che si produce un maggior danno dall’ignorare l’ipnosi che non dall’uso intelligente delle forme della suggestione”[23].

Diversamente dalle opinioni sulla pericolosità dell’ipnosi[24], il diritto non è opinabile, e questa problematica non può essere scissa dalla necessità di individuare un nesso eziologico, come richiesto dalla norma dell’art. 41 c.p., secondo cui “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento”: stabilire se la situazione psicologica pregressa del soggetto possa essere considerata una di quelle cause preesistenti o simultanee che non escludono il rapporto di causalità tra l’azione e l’evento è cosa oltremodo complessa, come si è già avuto modo di sottolineare, ma ancor di più lo è nel caso dell’ipnosi.

Un cenno meritano le conseguenze pericolose cui la soppressione di sintomi tramite ipnosi potrebbe generare, giacché prima che il sintomo venga soppresso, esse deve venire interpretato. Sono state raccolte comunque prove che la soppressione del sintomo è comunque utile per il paziente[25].

 

  • CODICE DI PROCEDURA PENALE

Non vi è alcun diretto riferimento all’ipnosi nell’impianto processualpenalistico italiano. L’istituto potrebbe essere, però, ben collocato nell’ambito dell’interrogatorio e dell’escussione probatoria ai fini di ricordare. L’art. 64, comma 2, c.p.p., collocato tra le regole generali dell’interrogatorio in sede predibattimentale (indagini preliminari, convalida dell’arresto e del fermo o udienza preliminare), contiene la prescrizione per cui non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interrogata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti. Tale norma esprime il principio della libertà morale e di autodeterminazione, che prevale su quello pubblico dell’accertamento della verità: non si può ricorrere all’ipnosi o alla narcoanalisi prescindendo dal consenso dell’imputato. Lo scopo è quello di evitare di ricorrere a modalità incompatibili con l’interrogatorio quale mezzo di difesa. Più avanti, nell’ambito dell’escussione dibattimentale, l’art. 188 detta la medesima previsione, mentre il successivo art. 189, nel regolare le prove “atipiche”, stabilisce che, quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona. Il giudice provvede all’ammissione, sentite le parti sulle modalità di assunzione della prova. La Relazione che accompagnava il Progetto preliminare del Codice faceva cadere l’accento su “narcoanalisi, lie-detector, ipnosi e siero della verità, che, a giudizio della Commissione, vanno banditi dalla sede processuale per la scarsa attendibilità che viene loro generalmente riconosciuta”.

È da premettere che, alla luce di quanto riportato anche in precedenza relativamente alla necessità di consenso e alla condizione che non vi sia pericolo per l’incolumità della persona, e alla luce dell’art. 499 c.p.p. che proibisce di porre al teste domande suggestive, il procedimento probatorio italiano mal si concilia con l’ipnosi (comma 3: “Nell’esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione del testimone e da quella che ha un interesse comune sono vietate le domande che tendono a suggerire le risposte”)[26].

Eppure, negli altri Paesi dell’ipnosi è fatta, in certi limiti, applicazione per scoprire eventuali simulazioni di malattie (un caso fu quello di una simulata paralisi alle gambe, che l’ipnotista indusse a muovere durante la trance), identificare le menzogne e controllare la verità (non sono rare le discordanze tra una risposta ideomotoria in trance e le risultanze del lie-detector)[27], ottenere confessioni[28], suscitare ricordi di avvenimenti passati coperti da amnesia e migliorare il ricordo di avvenimenti passati (una grande utilità è tratta per neutralizzare aspetti dell’affettività che possono incidere sui processi della memoria), indagare sulla volontà criminosa, investigare sull’eventualità che un crimine sia stato perpetrato su istigazione di un ipnotista criminale, diagnosticare la capacità di intendere e di volere dell’imputato; nonché l’ipnosi è impiegata quale strumento di indagine e di terapia in criminologia, e mezzo terapeutico in vittimologia[29].

In quest’ultima branca, che si propone lo studio della vittima, l’ipnosi costituisce una tecnica terapeutica di elezione utile nelle nevrosi traumatiche, alla stregua di uno strumento sociale di intervento per il trattamento dei danni psicologici derivanti da un crimine, idoneo ad ottenere risposte attive ed adattive a situazioni di stress cui il paziente non è capace di far fronte con successo.

Contano anche, sulla base degli esperimenti condotti, il grado di ipnotizzabilità delle persone sospette, i motivi di resistenza e di inganno, la profondità della trance, le tecniche impiegate[30]. L’ipnosi può, comunque (e come accennato sopra), non essere attendibile al fine di ottenere la verità da persone riluttanti; inoltre, anche se è possibile ipnotizzare qualcuno senza la sua volontà, questi può mentire intenzionalmente; ed il soggetto che accetti l’ipnosi volontariamente può comunque ricordare versioni distorte dei fatti accaduti. Non è, pertanto, in linea con il nostro ordinamento fondare un giudizio su dichiarazioni rilasciate dall’imputato/indiziato in ipnosi, dovendosi considerare troppi fattori difficilmente controllabili, oltre alla notazione (Schafer)[31] che la Giuria (in America) potrebbe essere troppo influenzata, sia positivamente che negativamente, dalle dichiarazioni ottenute con l’ipnosi indipendentetemente dal loro significato oggettivo. Si suole essere più propensi al suo impiego nel caso di indiziati o imputati amnesici, per il diritto di ciascuno di essere curato da una malattia; pur sottolineando come non siano infrequenti casi di pseudomemorie. E con un limite formale: le risultanze ipnotiche possono essere considerate accettabili solo se confermate da dati oggettivi e verificati.

In Italia mancano comunque esempi di riferimento sull’impiego dell’ipnosi ai fini della formazione della prova forense. Utile è però ricordare per analogia la condanna alla reclusione emessa nei riguardi di Don Giorgio Carli, parroco di Bolzano, per violenza sessuale ai danni di una parrocchiana all’epoca minorenne (sentenza della Corte di Appello di Bolzano del 16 aprile 2008), la quale si è basata sull’uso della distensione immaginativa per la riemersione del ricordo. Tale tecnica non sembra discostarsi molto dal modello ipnotico, a maggior ragione eriksoniano, in quanto utilizza un’atmosfera regressiva (permette alla memoria di allargarsi fino a rioccupare il terreno dal quale s’era ritirata) volta ad attivare animazioni fantasmatiche. Le caratteristiche intrinseche della modalità di recupero delle immagini presentate dal paziente, secondo la Rivista medica italiana di psicoterapia ed ipnosi e gran parte della dottrina, non possono costituire un fondamento attendibile in un contesto forense. Don Carli avrebbe violentato la vittima dai suoi 9 ai suoi 14 anni, e i ricordi dei fatti erano emersi solo nel corso di una terapia analitica cui lei si era sottoposta in quanto presentava sintomi non comprensibili; tali memorie erano dettagliate al punto da convincerla che contenessero la verità. In primo grado il prete fu assolto, in secondo fu condannato perché il tribunale del riesame accolse un diverso orientamento disposto a riconoscere la vicinanza tra sogno e realtà, tra materiale onirico e prove a carico. Per completezza di trattazione, si aggiunge che la Corte di cassazione ha in seguito decretato la sopraggiunta prescrizione del reato, ma con obbligo di risarcire economicamente la parrocchiana (Cass. pen., sez. III, 28 aprile 2009, n. 17846): il giudice di legittimità non si è pronunciato sul punto oggetto del presente lavoro, ma confermando le statuizioni civili della sentenza di merito ha implicitamente ammesso e convalidado l’uso della procedura sopracitata.

Se è vero che “gli psicologi asseriscono che non è la biografia o la storia che genera nevrosi, ma è la nevrosi a generare biografia e storia. Perciò i sogni e le fantasie si usano in analisi, non nelle aule giudiziarie”[32], lo stesso può dirsi dell’ipnosi: il suo impiego in ambito forense non può sottrarsi alla valutazione secondo i medesimi criteri adoperati per stimare l’attendibilità della prova scientifica. D’altronde nel caso di indiziati ed imputati il suo utilizzo non si accompagna necessariamente allo stimolo dell’interrogato ad una maggiore sincerità; mentre per il recupero di memorie in testimoni o vittime di reati esso può rilevarsi utile, ma non in assoluto, ai fini processuali, comunque restando ferma la riserva del giudice di attribuire volta per volta alle risultanze il giusto peso in relazione ai soggetti coinvolti e agli altri elementi di confronto oggettivo reperibili negli atti acquisiti. “In particolare, dopo aver selezionato i casi ed avere ottenuto il consenso scritto della persona che richiede, per il diritto alla salute, di essere sollevata dall’amnesia, si impiegheranno tecniche ipnotiche generiche, atte a far sì che una volta tornati allo stato di veglia i soggetti possano ricordare episodi o fatti per i quali soltanto in un momento successivo potranno essere interrogati in stato di coscienza vigile. L’impiego dell’ipnosi in questi casi dovrà, quindi, essere limitata unicamente ad allenare, per così dire, il soggetto, suggerendo, attraverso delle istruzioni post-ipnotiche, che ricorderà al meglio ciò che gli si chiederà in un secondo momento allo stato di veglia dopo la seduta, evitando, pertanto, di fornire suggestioni che potrebbero rappresentare fondamento su cui installare pseudomemorie”[33]. Sono comunque indispensabili videoregistrazioni complete.

Concludo con la domanda della letteratura: l’inconscio può testimoniare la verità?

 

CONCLUSIONI 

Andrei O. Popescu, “Solitudine, autoritratto dell’inconscio”

Con la presente trattazione ho dato solo avvio a quella che potrebbe essere una lunga disquisizione sulla rilevanza giuridica dell’ipnosi, nei termini esposti, in relazione alle molteplici fattispecie che possono concretarsi anche avuto riguardo alle altre norme in combinato disposto. Ne emerge anche, e con chiarezza, l’assenza di una posizione dell’ordinamento e dei suoi estensori, che è sinonimo dell’assenza di una definizione dell’ipnosi prima, dei suoi limiti dopo, e dunque della sua valenza al di fuori dell’ambito terapeutico e curativo, dove essa può avere degli effetti – quelli giuridici – che oltrepassano la “giurisdizione psicologica e somatica” e si riversano nel mondo reale come produttivi di conseguenze giuridiche.

Annullare un negozio in quanto perfezionato in stato ipnotico, o considerarlo nullo in nuce; emettere una condanna sulla base di dichiarazioni o comportamenti espressi durante la trance; essere perseguibili penalmente per aver “indotto” l’ipnotizzato a commettere “senza o contro volontà” un reato; ritenere quest’ultimo incapace di intendere e di volere; porlo in una condizione di pericolo per la sua incolumità: queste ipotesi sono da una parte in grado di fondare una base solida, anche solo per la loro postulazione, affinché lo strumento ipnotico sia inserito in un sistema più ampio. Dall’altra costituiscono tutte alternative ipotizzabili in via astratta, ma da convalidare nel concreto. E l’ipnosi, per sua stessa etimologia hýpnos, sonno, non rientra nel concreto se non negli effetti che ne derivano. Perciò è assai “blasfemo” considerarla al pari di una sostanza stupefacente, che obiettivamente e scientificamente interagisce con il corpo prima, con la psiche durante, ed è misurabile. Lo stato di trance non ha un valore quantitativo, bensì qualitativo; non è misurabile, bensì descrivibile. Ed anche nella sua descrizione è vincolato alle regole della soggettività e della narrazione, meglio detto dipende dal soggetto ipnotizzato, dalla sua percezione di quanto esperito, dal nuovo stato riscontrato dopo il risveglio (anche in momenti molto successivi, ed eventualmente coinvolgendo la valenza del comando post-ipnotico), e, con Erikson, dallo stesso ipnotizzatore e da quel rapport che tra questi e l’altro è creato, dipendente da entrambi, dal contesto, dalle loro soggettività e percezioni reciproche ed individuali.

Troppi i fattori che impediscono a noi, e al legislatore a maggior ragione, di definire scientificamente l’ipnosi. Lo stato alterato di coscienza cui essa mira può essere, a mio parere, inteso come una vera e propria actio libera in causa, l’assoggettamento consapevole ad uno spazio-tempo inconsapevole in cui muoversi, uno stato preordinato di incapacità di intendere e di volere. Lo stesso che, nel campo del diritto, è rilevante penalmente nel definire le azioni compiute nell’alterazione psichica che il soggetto si è procurato (ad esempio, mediante droghe o alcolici) allo scopo di commettere un reato o di prepararsi una scusa (art. 87 c.p.). Nonostante l’agente non avesse la capacità d’intendere e di volere al momento del fatto, il reato commesso in stato di incapacità preordinata è punibile e l’esecuzione del reato viene fatta fittiziamente risalire al momento in cui l’agente ha preordinato lo stato di incapacità (lascio per altra sede le considerazioni sull’elemento psichico – dolo o colpa – da valutarsi tanto al momento della preordinazione quanto al momento della commissione del fatto).

Così l’ipnosi. Attraverso essa, l’azione diviene libera dalla causa. Ma non per questo il soggetto diviene un automa non imputabile. L’inconscio è ben più attento di quanto non sembri. Resta ferma la nota frase alfieriana del “volli fortissimamente volli”, che viene affiancata ai successi o ai fallimenti dell’ipnosi (l’Alfieri la pronunciò in riferimento alla volta in cui si fece legare alla sedia per non avere distrazioni dallo studio si rasò i capelli solo su una metà della testa affinché il suo impresentabile aspetto lo dissuadesse dall’uscire di casa): ciò che fortissimamente si vuole, l’ipnosi fa fare. Ciò che “fortissimamente” non si vuole è, invece, opera di altri meccanismi o cause. Ciò che è certo è che, a fini terapeutici, non è sufficiente “ipnotizzare”, bensì essere formalmente psicologi, informalmente “bravi”, come non solo e non da ultimo anche Freud sosteneva. (ROMINA CIUFFA)

*Romina Ciuffa, psicologa, riceve in centro storico a Roma, ai Castelli Romani (Monte Compatri) e, su appuntamento, a Milano (info@rominaciuffa.com) 

NOTE

[6] SACCO R., Il consenso, in Tratt. contratti RescignoGabrielli, Torino, 1999, I, 419.
[7] CENDON P., Commentario al codice civile, Giuffré, 292. Cfr. BIGIAVI W., I vizi della volontà nella dichiarazione cambiaria, Sperling & Kupfer, Merano, 1943; DI CAGNO V., L’ipnosi e l’incapacità di intendere e di volere, in Riv. Trim. dir. e proc. civ., 1955, 808 ss.; PANZA G., Contratto compiuto in stato di ipnosi, Università di Bari, in Casi e questioni in tema di contratti, Bari, 1970.
[8] PUCCINI L., Osservazioni in tema di incapacità naturale a testare con particolare riguardo al caso di suggestione ipnotica, in Giur. Comp., Cass. Civ., 1953, I, 288.
[9] DI CAGNO V., 1956, 815.
[10] GULOTTA G., cit., 390.
[11] ORNE M. T., The Potential Use of Hypnosis in Interrogation, in BINDERMAN A., ZIMMER H., The Manipulation of Human Behavior, Wiley, New York, 1961.
[12] ORNE M., Antisocial Behavior and Hypnosis, in ESTABROOKS G. H., Hypnosis Current Problems, Harper and Row, New York, 1962, 146 ss.
[13] GULOTTA G., cit., 469.
[14] Avviene anche l’inverso, il caso dell’ipnotista che viene accusato dalla paziente di abuso sessuale. In tal senso GULOTTA G., cit. 553, “(…) Ho cercato di mostrare (GULOTTA G., Le vittime di aggressioni sessuali, in ERMENTINI A., GULOTTA G., Psicologia, psicopatologia e delitto, Giuffrè, Milano, 1971, 217) come talune false accuse da parte di donne, di avere subito aggressioni sessuali, possano derivare da una pseudologia fantastica, in cui proiettano il loro desiderio di avere rapporti sessuali con l’altro. Arons descrive come riuscì ad accertare, tramite ipnosi, che un’accusa di tal genere era calunniosa. L’ipnotista veniva consultato da un medico amico, accusato da una donna di quarantacinque anni, che egli aveva in cura, di comportamento seduttivo nei suoi confronti mentre ella si trovava in stato di ipnosi. Il medico tuttavia garantiva la propria innocenza. L’ipnotista consultato ascoltò la registrazione delle due sedute iniziali, dopo le quali il medico, sicuro della stabilità emotiva della paziente, non aveva più effettuato registrazioni. L’accusato assicurava che ogni seduta si era svolta con la massima correttezza professionale e sottolineava di essersi comportato con la paziente in modo formale, rifiutando anche di chiamarla per nome quando ciò gli era stato domandato dalla paziente stessa, declinando inoltre gentilmente alcuni inviti mondani da lei rivoltigli. Arons ricorse quindi ad una seduta ipnotica, presente l’avvocato nello studio del medico. La donna sembrava ansiosa di essere ipnotizzata per provare l’autenticità della sua storia. L’ipnotista eseguì test di vario genere (il soggetto era in posizione eretta, ma rilassata, gli occhi chiusi ed eseguiva movimenti di tipo ideomotorio richiesti): la donna si dimostrò particolarmente suggestionabile. Completati i preliminari, l’ipnotista si preparò a deipnotizzare il soggetto suggerendole prima: lei non si ricorderà di nulla di ciò quando io toccherò il suo posto, o quando conterò fino a tre, o quando mentirò. L’interrogatorio della paziente allo stato di veglia non si differenziò dai precedenti interrogatori: le risposte vennero date con lo stesso candore e la stessa prontezza. Tuttavia, ogni volta che la risposta aveva a che vedere con le presunte aggressioni sessuali, il suo dito indice si contraeva violentemente”.
[15] ERICKSON M. H., An Experimental Investigations of thè Possible Antisocial Uses of Hypnotism, in Psychiatry, 1939, 391.
[16] Orne ha sostenuto che la difficoltà principale dell’interpretazione della letteratura è costituita dalla mancanza di distinzione tra tre fondamentali tipi di comportamento: a) il comportamento che appare ripugnante al soggetto, ma che è legittimato nel contesto sociale in cui avviene l’ipnosi; b) il comportamento che l’individuo non terrebbe in condizioni normali, ma che assume a causa di forti desideri inconsci o consci che lo spingono a compiere quel determinato atto; c) il comportamento che il soggetto non desidera tenere, sia a livello conscio che inconscio e che egli rifiuterebbe nella relazione che precede l’ipnosi. È soltanto in quest’ultimo caso che, qualora avvenisse, si potrebbe senz’altro ritenere che l’ipnosi abbia determinato un atto antisociale (ORNE M. T., Can a Hypnotized Subject. Be Compelled to Carry Out Otherwise Unacceptable Behavior? A Discussion, in Int. J. of Clin. Exp. Hypnosis, 1972, 2).
[17] GULOTTA G., cit., 486.
[18] PIOLETTI U., Ipnotismo, in Nov. Dig. it., Utet, Torino, 1963, 38.
[19] GRANONE F., Trattato di ipnosi (Sofrologia), Boringhieri, Torino, 1972.
[20] CALLIERI B., FLICK G. M., I comportamenti indotti: aspetti psichiatrici e giuridici, in Riv. It. Diritto e Procedura Penale, 1973, 800; TAORMINA C., Narcoanalisi, in Enciclopedia del Diritto, XXVII, Giuffrè, Milano, 1977, 489.
[21] GULOTTA G., cit., 447.
[22] PLATONOV K., The Word as a Phsysiological and Therapeutic Factor, Foreign Languages Publishing House, Mosca, 1959.
[23] CHEEK D. B., Hypnosis: and Additional Tool in Human Reoriention to Stress, in Northwest Med., 1958, 177, in GULOTTA G., cit., 448.
[24] Mi sembra opportuno riportare il contributo di GULOTTA G., cit., 552: “Poiché la sperimentazione sull’uomo ha subito recentemente negli Stati Uniti notevoli restrizioni allo scopo di proteggere i soggetti partecipanti all’esperimento e l’ipnosi è stata giudicata una procedura soggetta a rischi, due autori hanno di recente riesaminato il problema (COE W., RYKEN K., Hypnosis and Risks to Human Subjects, in Am. Psychol., 1979, 673). Essi hanno confrontato su 209 studenti di psicologia (157 maschi e 152 femmine) divisi i cinque gruppi, gli effetti della somministrazione della scala Stanford forma C, con quelli seguenti alla: a) partecipazione ad un esperimento di apprendimento verbale; b) ad un esame universitario; e) ad una lezione universitaria; d) alla vita del College in generale. Il risultato a cui sono giunti è che l’ipnosi in nessuno dei casi è apparsa causalmente responsabile di produrre effetti e negativi di tipo emotivo o sintomatologico più che le altre situazioni confrontate, sia sotto il profilo della durata dell’effetto della sintomatologia, sia sotto il profilo della qualità di essi. È apparso per esempio che la partecipazione ad un esame, alla vita scolastica produce più ansietà, depressione e infelicità che la induzione di ipnosi con la relativa fenomenologia riferita alla scala adottata”.
[25] EYSENCK H. J., RACHMAN S., Terapia del comportamento nevrotico, Franco Angeli, Milano, 1971.
[26] TAORMINA C, voce Narcoanalisi, in Enc. del Diritto, Giuffrè, Milano, XXVII, 1977, 489.
[27] MUTTER C, Regressive Hypnosis and the Polyghraph: A Case Study, in Am. J. of Clinical Exp. Hypnosis, 1979, 47. Floch afferma che un atto, giudicato disdicevole da chi lo compie, può essere represso fino al punto che colpa ed ansietà associate con l’atto non possono essere scoperte dal poligrafo (FLOCH M., Limitations of the Lie Detector, in Journal of Crim. Law and Criminology, 1950, 651).
[28] Per ORNE T., The Potential Use of Hypnosis in Interrogation, in BINDERMAN A., ZIMMER H., The Manipulation of Human Behavior, Wiley, New York, 1961, 169, esistono difficoltà tecniche.
[29] Per una casistica americana, WORTHINGTON T., The Use in Court of Hypnotically Enhanced Testimony, in Int. J. of Clin. Exp. Hypn., 1979, 402, e WARNER K., The Use of Hypnosis in thè Defense of Criminal Cases, in Int. J. of Din. Exp. Hypn., 1979, 417.
[30] FIELD P. B., DWORKIN S. F., Strategies of Hypnotic Interrogation, in Journal of Psychology, 967, 47 ss.
[31] SCHAFER W.D., RUBIO R., Precedence and Suggested Rules in Criminal Investigations, presentato al congresso della Society for Clin. Exp. Hypnosis, dicembre 1973.
[32] SPETTU M., Aspetti legali di ipnosi in www.scuoladiipnosi.net, Omni Hypnosis Training Center of Slovenia.
[33] SPETTU M., cit.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

BINDERMAN A., ZIMMER H., The Manipulation of Human Behavior, Wiley, New York, 1961

CALLIERI B., FLICK G. M., I comportamenti indotti: aspetti psichiatrici e giuridici, in Riv. It. Diritto e Procedura Penale, 1973, 800

CENDON P., Commentario al codice civile, Giuffré, 292. Cfr. BIGIAVI W., I vizi della volontà nella dichiarazione cambiaria, Sperling & Kupfer, Merano, 1943

CHEEK D. B., Hypnosis: and Additional Tool in Human Reoriention to Stress, in Northwest Med., 1958, 177

COE W., RYKEN K., Hypnosis and Risks to Human Subjects, in Am. Psychol., 1979

DI CAGNO V., L’ipnosi e l’incapacità di intendere e di volere, in Riv. Trim. dir. e proc. civ., 1955

EYSENCK H. J., RACHMAN S., Terapia del comportamento nevrotico, Franco Angeli, Milano, 1971

ERICKSON M. H., An Experimental Investigations of thè Possible Antisocial Uses of Hypnotism, in Psychiatry, 1939

ERMENTINI A., GULOTTA G., Psicologia, psicopatologia e delitto, Giuffrè, Milano, 1971

FIELD P. B., DWORKIN S. F., Strategies of Hypnotic Interrogation, in Journal of Psychology

FLOCH M., Limitations of the Lie Detector, in Journal of Crim. Law and Criminology, 1950

GRANONE F., Trattato di ipnosi (Sofrologia), Boringhieri, Torino, 1972

GULOTTA G., Ipnosi. Aspetti psicologici, clinici, legali, criminologici, 1980, Giuffré

MUTTER C, Regressive Hypnosis and the Polyghraph: A Case Study, in Am. J. of Clinical Exp. Hypnosis, 1979

ORNE M., Antisocial Behavior and Hypnosis, in ESTABROOKS G. H., Hypnosis Current Problems, Harper and Row, New York, 1962

ORNE M. T., Can a Hypnotized Subject. Be Compelled to Carry Out Otherwise Unacceptable Behavior? A Discussion, in Int. J. of Clin. Exp. Hypnosis, 1972

ORNE M. T., The Potential Use of Hypnosis in Interrogation, in BINDERMAN A., ZIMMER H., The Manipulation of Human Behavior, Wiley, New York, 1961

PANZA G., Contratto compiuto in stato di ipnosi, Università di Bari, in Casi e questioni in tema di contratti, Bari, 1970

PIOLETTI U., Ipnotismo, in Nov. Dig. it., Utet, Torino, 1963

PLATONOV K., The Word as a Phsysiological and Therapeutic Factor, Foreign Languages Publishing House, Mosca, 1959

PUCCINI L., Osservazioni in tema di incapacità naturale a testare con particolare riguardo al caso di suggestione ipnotica, in Giur. Comp., Cass. Civ., 1953, I

SACCO R., Il consenso, in Tratt. contratti RescignoGabrielli, Torino, 1999, I

SCHAFER W.D., RUBIO R., Precedence and Suggested Rules in Criminal Investigations, presentato al congresso della Society for Clin. Exp. Hypnosis, dicembre 1973

SPETTU M., Aspetti legali di ipnosi in www.scuoladiipnosi.net, Omni Hypnosis Training Center of Slovenia

TAORMINA C., Narcoanalisi, in Enciclopedia del Diritto, XXVII, Giuffrè, Milano, 1977

TAORMINA C, voce Narcoanalisi, in Enc. del Diritto, Giuffrè, Milano, XXVII, 1977

WARNER K., The Use of Hypnosis in thè Defense of Criminal Cases, in Int. J. of Din. Exp. Hypn., 1979

WORTHINGTON T., The Use in Court of Hypnotically Enhanced Testimony, in Int. J. of Clin. Exp. Hypn., 1979

 




IPNOSI: CHI È CHE VA IN GALERA? PARTE 1: SOGGETTI ABILITATI ALL’IPNOSI

IPNOSI. ASPETTI GIURIDICI
di Romina Ciuffa*
psicologa ipnotista
avvocato

PARTE 1. SOGGETTI ABILITATI ALL’IPNOSI. TUTTI?
(segue in PARTE DUE: https://www.rominaciuffa.com/ipnosi-alzati-e-uccidi/)

Introduzione alla prima parte

Il presente lavoro intende dare un inquadramento prima facie della normativa applicabile all’ipnosi, meglio detto delle sue contraddizioni giuridiche sia nell’inserimento ad opera del legislatore (nazionale e comunitario), sia nell’interpretazione ad opera della giurisprudenza, della dottrina e degli stessi interessati. Infatti, avallare l’una o l’altra lettura delle norme implica la possibilità di impiegare lo strumento dell’ipnosi in maniera più o meno ampia e in settori distinti; per questo, sono soliti darne una lettura aperta coloro che non esercitano una professione sanitaria e che praticano l’ipnosi in quanto abilitati da un titolo straniero che l’ammette ovvero dopo aver frequentato una scuola in Italia differente da quella di specializzazione. La lettura restrittiva, che ne fa la scrivente, delega l’esercizio dell’ipnosi alle categorie sanitarie – iscritte ai rispettivi Albi – del medico, nei limiti delle finalità curative, dello psicologo e dello psicoterapeuta, nei limiti delle loro competenze di cui alla legge n. 56 del 18 febbraio 1989. L’ipnosi da “intrattenimento”, sebbene non giovi alla categoria, è comunque legittima se fuori tali ambiti; mentre l’ipnologo esperto, non medico e non psicologo, può utilizzarla liberamente in qualità di libero professionista solo ai fini della crescita personale del cliente, per il suo sviluppo e la presa di coscienza, per la riscoperta di risorse e l’insegnamento di tecniche atte al dissolvere disagi e per il miglioramento personale e relazionale.

Non gioverà però a tali ultimi soggetti la condizione obiettiva di non punibilità data dall’art. 728 del Codice penale, che punisce chi ponga taluno, col suo consenso, in stato d’ipnotismo (…), o esegue su lui un trattamento che ne sopprima la coscienza o la volontà, se dal fatto deriva pericolo per l’incolumità della persona, esentandolo invece dalla pena se il fatto è commesso, a scopo scientifico o di cura, da chi esercita una professione sanitaria. Nel medesimo Codice si rinviene anche la norma dell’art. 613, che punisce chiunque, mediante suggestione ipnotica (…), pone una persona, senza il consenso di lei, in stato d’incapacità d’intendere o di volere, e aggrava la pena se il colpevole ha agito col fine di far commettere un reato o se la persona resa incapace commette, in tale stato, un fatto preveduto dalla legge come delitto. In relazione alle due norme sopracitate, si analizza in questo testo anche la configurabilità del reato impossibile di cui all’art. 49, comma 2, c.p., attraverso l’analisi della concreta possibilità che lo strumento ipnotico sia in grado di produrre tali gravi conseguenze, rispondendo alle domande: è possibile indurre in stato di trance qualcuno senza la sua volontà? È possibile far compiere atti criminosi all’ipnotizzato?

Si tratterà anche della materia civilistica, valutando le teorie che vedono nell’atto negoziale compiuto da chi è stato indotto in trance un atto annullabile, nullo od inesistente; in questo senso partendo dalla norma dell’art. 428 del Codice civile e assimilando la condizione dell’ipnotizzato a quella dell’incapace naturale (nel testo si descriverà meglio la questione anche sul piano definitorio), per giungere all’opposta teoria secondo cui il soggetto in trance è sottoposto ad una vis ablativa, la stessa presente nella violenza fisica che esclude del tutto la riferibilità dell’atto al soggetto coartato (ma escludendo comunque si tratti di vis compulsiva, per il diritto intesa come quella violenza psichica integrata dalla prospettazione di un male ingiusto).

Infine, con riferimento al Codice di procedura penale, si analizzeranno le ipotesi in cui l’ipnosi possa essere impiegata a fini processuali nell’interrogatorio dell’indiziato o nell’escussione probatoria dell’imputato, e di altri soggetti quali i testimoni o la vittima. Si tratterebbe comunque di una prova innominata, atipica, che il giudice ha la facoltà di ammettere ex art. 189 c.p.p. se idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudicante la libertà morale della persona. Si risponderà, così, a questa domanda: la prova assunta attraverso ipnosi coarta tale libertà, anche nel caso di soggetto consenziente o richiedente un’escussione attraverso ipnosi? E si valuteranno le varie ipotesi in cui tale procedura possa essere considerata ottimale (come nel caso della vittimologia), utile (come nel caso delle amnesie e del ricordo di avvenimenti passati), oppure fuorviante (come nel caso di soggetto riluttante).

SOGGETTI ABILITATI ALL’IPNOSI – QUESTIONI

 Il fatto che vi sia una questione aperta sull’ipnosi allo stato giuridico della letteratura non fa che definire l’ipnosi in senso positivo, ossia darle legittimità. Invero, essa è presente direttamente solo in due articoli del Codice penale italiano (l’art. 603 e l’art. 728) e indirettamente nell’art. 188 del Codice di procedura penale. Ciò, da una parte rende giustizia alla sua identificazione, dall’altra – per genericità e incompletezza, nonché sinteticità nel suo inserimento – la declassa tra istituti non chiari, sui quali è dovuta (e deve) intervenire la giurisprudenza al fine di dare una spiegazione attuale all’ipotesi del legislatore penale del 1930 (che modificava il precedente Codice Zanardelli, datato 1889) e a quella del legislatore procedurale del 1988 (successiva alle codificazioni del 1865, del 1913 e del 1930). Anni in cui, certamente, non solo l’ipnosi, ma tutta la materia psicologica era considerata al di fuori di una struttura scientifica: questa constatazione di cronologia storica non fa che confermare la necessità che all’ipnosi sia data una definizione più certa e adeguata ai tempi che l’hanno vista evolvere e riconoscere quale possibile metodologia a supporto del medico e dello psicologo nelle materie di loro competenza.

Materie che non hanno avuto facile convivenza prima, collocazione dopo. Con l’entrata dell’Italia nell’Unione europea (definitivo fu il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1º novembre 1993, al quale gli Stati aderenti giunsero dopo un lungo percorso intrapreso dalle Comunità europee precedentemente esistenti e attraverso la stipulazione di numerosi trattati di integrazione). Un primo, rilevante punto è quello relativo alla libera circolazione delle persone nei Paesi membri, che include la possibilità di esportare il proprio titolo conseguito nello Stato di provenienza. in attuazione dell’art. 117, comma 3, della Costituzione e nel rispetto dei principi dell’Unione europea in materia di concorrenza e di libertà di circolazione. Integrando la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio COM n. 119 del 2002, relativa al riconoscimento reciproco delle qualifiche professionali tra i Paesi membri, approvata l’11 febbraio 2004, la legge n. 4 del 14 gennaio 2013 – emanata in attuazione dell’art. 117, comma 3, della Costituzione (potestà legislativa concorrente) – disciplina le professioni non organizzate in ordini o collegi, e in esse può esser fatta rientrare quella dell’ipnologo, se assimilata a quella del libero professionista intellettuale. Assimilazione che è compiuta con leggerezza e forzatura, oltre che scarsa quando non assente cognizione di causa, da chi ha interesse ai suoi effetti giuridici.

La tesi per cui la professione di “ipnotista” debba essere garantita sic et simpliciter senza necessità di essere inserita in un ambito più ampio e declinato (come quello della professione medica o psicoterapeutica) è sostenuta informalmente da molti, formalmente solo da alcuni Paesi, la Svizzera o la Gran Bretagna ad esempio. Con riferimento a quest’ultima, la British Medical Association nel 1955 riabilitava ufficialmente l’ipnosi; la Commissione di studi designata si ispirò per molto tempo al rapporto presentato da Husson[1] all’Académie Royale de Medécine nel 1831 (comunque non accolto dal plauso dei suoi tempi), e dichiarò che le conclusioni di suddetto rapporto erano “fortemente anticipatrici e per la maggior parte ancora valide”. Ciò, però, non avveniva in altri Paesi, tra i quali spicca la Francia, nonostante gli studi compiuti da Jean-Martin Charcot (fondatore della clinica psichiatrica presso l’Ospedale della Salpêtrière di Parigi, il primo a utilizzare l’ipnosi come cura nel fenomeno del “grand hypnotisme” negli isterici) ed i lavori compiuti dal suo allievo Pierre Janet (“La Médecine Psychologique”), e nonostante l’alternativa versione di Hippolyte Bernheim, fondatore della Scuola di Nancy (che intendeva l’ipnosi come una sorta di sonno o stato alterato di coscienza prodotto dalla suggestione, con implicazioni terapeutiche ed un fondamento più psicologico che neurologico).

Né tale riabilitazione avveniva altrove, salvo rare eccezioni tra cui spiccano gli Stati Uniti (nel 1958 l’American Medical Association inserì l’ipnosi nella terapia medica, precisandone le condizioni d’impiego), che riconoscono la professione indipendente di ipnoterapista dal 1979, e la cui American Medical Association ha recentemente deciso che, dal 1° gennaio 2004, anche gli ipnotisti non terapeuti (non-licensed) possano operare nella Sanità[2].

Tornando in Europa, il principio della libera circolazione delle persone negli Stati membri farebbe dedurne la constatazione che – in mancanza di una regolamentazione italiana della professione di ipnoterapista e di una previsione che la vincoli al conseguimento di un diploma o all’appartenenza ad un determinato ordine professionale – si sia ottenuto un lasciapassare per gli “ipnotisti” inglesi e svizzeri (o altri aventi simile riconoscimento) ad esercitare in Italia, senz’aggiuntivo titolo se non quello conseguito nello Stato di provenienza. Così anche affermava (5 gennaio 2005) l’ufficio legale europeo, motivando: “Se la professione di cui si tratta non è regolamentata nello Stato di accoglienza, allora non è necessario richiedere il riconoscimento delle qualifiche; è possibile cominciare a svolgere tale professione in questo Stato alle stesse condizioni che si applicano ai cittadini nazionali e con gli stessi diritti e gli stessi obblighi”.

È oltremodo evidente come il mancato riconoscimento nel nostro ed in altri Paesi europei del titolo riconosciuto di ipnologo/ipnoterapista – conseguibile (in Gran Bretagna ad esempio) previa frequentazione di corsi aperti anche ai non laureati, e con la correlata possibilità di stipulare la relativa assicurazione di indennità professionale – produca presso di noi una confusione foriera di gravi effetti giuridici, a partire da quelli drastici di cui all’art. 348 del Codice penale italiano che prevede, per chiunque abusivamente eserciti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, una pena della reclusione fino a sei mesi o una multa da 103 a 516 euro. La Corte di cassazione ha chiarito che incorre in tale reato “chi è sfornito del titolo richiesto (laurea, diploma) o non ha adempiuto alle formalità prescritte come condizione per l’esercizio della professione (ad esempio, l’iscrizione all’albo) o ne è stato sospeso o interdetto”. Lo stesso giudice ha chiarito, con sentenza n. 34200 del 6 settembre 2007, che non ha importanza ai fini della configurabilità del reato che il paziente sia più o meno cosciente della carenza del titolo abilitativo. La vexata quaestio è: si tratta, nel caso dell’ipnotista riconosciuto altrove, di esercitare abusivamente in Italia la professione ex art. 348 c.p., ovvero è applicabile la copertura UE?

La risposta è duplice e contraddittoria, sempre fondata su considerazioni di parte e interpretazioni disfunzionali, ricordando come lo stesso “concetto” di ipnosi, oltre che il metodo, sia soggetto a valutazioni differenziate a seconda che esso si contestualizzi in un ambito curativo-terapeutico, ovvero con finalità spettacolari, o infine volte al solo miglioramento delle condizioni della persona senza chiamare in causa i presupposti di diagnosi e guarigione. Non da ultima la questione del proliferare di “professionisti” in ipnologia e scuole ad uopo costituite, un intero sistema alias un giro d’affari che, prima di chiamare in causa il paziente, punta al lucro di chi lo costituisce: in Italia potrebbe essere integrata la fattispecie del reato di abuso della credulità popolare di cui all’art. 661 c.p. nel caso di coloro che istigano all’esercizio della professione medica e dell’ipnosi persone non qualificate, ossia scuole, corsi, meeting, organizzati con l’intento di abilitare alla pratica clinica dell’ipnosi. Niente di molto diverso di quanto avvenga nella polemica sul coaching, così come in molti altri campi nei quali lo strumento è impiegato. Senza considerare l’assenza, per costoro, di un codice deontologico e di un Albo ad uopo.

Analogicamente, in tema di investigazioni, l’International Society of Hypnosis allarmisticamente sottolineava in due risoluzioni (ottobre 1978 ed agosto del 1979) la tendenza degli agenti di Polizia, con un training minimo in ipnosi e senza una vasta competenza professionale, ad usare l’ipnosi per facilitare presumibilmente il ricordo di testimoni e vittime circa gli accadimenti in relazione a qualche crimine. La Società si oppone all’uso da parte della Polizia di questa tecnica, suggerendo che tali attività debbano eventualmente essere effettuate con l’aiuto di psichiatri e psicologi, esperti nell’uso forense dell’ipnosi, che costoro siano sempre presenti durante l’interrogatorio e che delle sedute sia sempre fatta una completa videoregistrazione. Direttive anche imposte all’FBI dal Dipartimento della Giustizia,.

Tornando all’Italia, la premessa necessaria la fanno l’art. 1 e l’art. 3 della legge n. 56 del 18 febbraio 1989 sull’ordinamento della professione di psicologo. Il primo definisce la professione di psicologo, e lo legittima all’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità, oltre che alle attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito, ma solo dopo aver conseguito l’abilitazione in psicologia mediante l’esame di Stato ed essere iscritto nell’apposito albo professionale (art. 2). In virtù dell’art. 3, invece, l’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai sensi del D.P.R. n. 162 del 10 marzo 1982, presso scuole di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti: questa norma non è sormontabile. L’affermazione che l’ipnosi sia competenza dello psicologo o dello psicoterapeuta, per la giustizia della rappresentazione della normativa, è legata alla finalità per cui tale strumento è impiegato. Una volta espresso il vincolo tra ipnosi e psicoterapia, la prima assumerà il ruolo che le spetta: quello di un metodo specifico avente finalità terapeutica.

Nel caso del medico, egli potrà utilizzare l’ipnosi senza aver conseguito la specializzazione da psicoterapeuta, ma solo nell’ambito curativo che è proprio della sua professione e per il quale ha conseguito l’abilitazione, come è nei casi di analgesia o anestesia; gliene sarà invece inibito l’uso nel senso di sollevare il paziente da problemi psicologici. Esattamente come costituirebbe abuso quello dell’ostetrica che inducesse la trance ipnotica nella partoriente, o dell’infermiere che lo facesse per calmare il paziente ospedalizzato. Tale abuso potrà cioè perpetrarsi nel caso in cui il medico improntasse un intervento ipnotico con finalità psicoterapeutiche, psichiche e non fisiche. Il Codice di deontologia medica del 1978 imponeva ai medici di ispirarsi alle conoscenze scientifiche (art. 4) e di non favorire in qualsiasi modo chi esercita abusivamente un’attività sanitaria ivi compresa l’ipnosi-terapia (art. 93), con un espresso riferimento, dunque, alla materia oggetto del presente lavoro.

Riferimento contenuto anche nell’art. 128 del Regolamento del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza, che consente al medico provinciale di autorizzare chi non eserciti la professione sanitaria a trattenimenti di ipnotismo, con ciò affermando la liceità dell’ipnosi solo a titolo di intrattenimento pubblico (spettacolarizzazione) ma non nel caso di fini scientifico-terapeutici. Infatti, tale norma non si riferisce ai medici (“a chi non eserciti la professione sanitaria”); e se il medico provinciale può accordare l’autorizzazione a trattamenti di ipnotismo nei casi “non sanitari”, non potendosi consentire ciò che è vietato dalla legge, se ne deduce che – per il principio di non contraddittorietà dell’ordinamento giuridico – è ammessa in nuce l’ipnosi quando utilizzata per finalità scientifiche.

Proprio attraverso tale norma Guglielmo Gulotta risponde alle seguenti domande: “(…) Può un non medico utilizzare l’ipnosi senza finalità curative? Può un non medico ipnotizzare con finalità curative? Lo psicologo a questi riguardi può considerarsi differentemente da tutti gli altri non medici ed essergli consentito ciò che agli altri non medici non è consentito?”[3]. Nessun dubbio, per lui, di una risposta affermativa nel caso del mero esercizio dell’ipnosi senza finalità terapeutiche anche da parte di chi non sia medico (anche se è sempre sconsigliabile–aggiunge–che una persona non preparata utilizzi questo mezzo a scopo dimostrativo o di divertimento).

Risponde a tali domande anche attraverso l’analisi della sentenza della IV Sezione della Corte di cassazione del 10 luglio 1969, per cui “non può contestarsi che la terapia ipnotica sia riservata agli esercenti la professione sanitaria regolarmente iscritti all’albo professionale: è sufficiente in proposito ricordare l’art. 728 comma 2, c.p., il quale consente, a scopo scientifico e curativo, il trattamento idoneo a sopprimere la coscienza e la volontà altrui, mediante narcosi o ipnosi, soltanto agli esercenti la professione sanitaria, vietandola a chi ad essa non è abilitato” (dell’art. 728 c.p. e degli altri che richiamano l’ipnosi in ambito penalistico, che tratterò nel capitolo seguente). A ben vedere, ed oppositivamente a tale pronuncia del giudice supremo, la norma di cui all’art. 728 c.p. – volta a punire chiunque ponga taluno, col suo consenso, in stato di narcosi o di ipnotismo, o esegua su di lui un trattamento che ne sopprima la coscienza o la volontà se dal fatto deriva pericolo per l’incolumità della persona – è costruita dal legislatore non al fine di vietare al non medico l’attività di ipnotismo, bensì per escludere, in suo capo, la causa di giustificazione che invece applica all’esercente una professione sanitaria che abbia commesso il medesimo fatto a scopo scientifico o di cura. In sintesi, il non medico non potrà fruire dell’esenzione, ma non gli è per ciò solo vietata la pratica dell’ipnotismo. L’esempio lampante è quello della “suggestologia” bulgara, che utilizza tecniche di tipo ipnotico a scopi di insegnamento delle lingue straniere.

Resta fermo il fatto che un non medico non possa utilizzare l’ipnosi a scopo terapeutico, e sono imputabili del reato di cui all’art. 348 c.p. il “guaritore” e chi esprime giudizi diagnostici e, valendosi del metodo della psicoterapia suggestiva, consigli cure ai malati che si rechino a consultarlo: è, infatti, necessario il controllo medico per evitare i pericoli di mancanza di diagnosi o del mancato accertamento dell’eventuale guarigione o peggioramento. Ossia: non esiste divieto di ipnotizzare a scopi non terapeutici, ma resta ferma la responsabilità dell’agente se ciò possa procurare pericolo all’incolumità della persona[4].

E lo psicologo può? Gulotta risponde così, con una spiegazione concreta e razionale: “Soprattutto nell’ipnosi è da dire che la differenza tra l’aspetto sperimentale e quello clinico rende indispensabile la funzione dell’ipnotista psicologo, dato che nelle facoltà mediche non si insegna la sperimentazione del comportamento umano. E poiché come sempre la clinica e la sperimentazione sono strettamente legate, anche lo psicologo ipnotista rigorosamente diretto alla sperimentalità deve avere pratica dell’ipnoterapia. Ciò soprattutto perché il clinico poi possa avvantaggiarsi di ciò che lo sperimentalista gli mette a disposizione. Non a caso la Società internazionale d’ipnosi è chiamata d’ipnosi clinica e sperimentale[5]. La psicoterapia non è di pertinenza medica: in entrambi i casi del medico e dello psicologo dev’esservi un’adeguata preparazione (Freud sosteneva fermamente questo). Lo psicologo specializzato ha però compiuto, rispetto al medico, studi che attengono direttamente alla diagnosi e alla terapia dei disturbi psicopatologici, salvo che il medico non abbia approfondito adeguatamente la materia. Se ne deduce la possibilità di impiegare l’ipnosi come strumento alternativo, tra i vari in possesso dello psicologo.

In conclusione, l’ipnologo esperto, non medico o psicologo, non può praticare l’ipnosi per finalità cliniche, diagnostiche o terapeutiche, ma può utilizzarla liberamente, in qualità di libero professionista, ai fini della crescita personale del proprio cliente, per il suo sviluppo e la presa di coscienza, oltre che per la riscoperta di risorse e l’insegnamento di tecniche atte al dissolvere disagi e per il miglioramento personale e relazionale. (ROMINA CIUFFA) (…)

*Romina Ciuffa, psicologa, riceve in centro storico a Roma, ai Castelli Romani (Monte Compatri) e, su appuntamento, a Milano (info@rominaciuffa.com) 

 

NOTE

[1] Nel 1831 Husson presentò all’Accademia un dettagliato resoconto finale, volto a sottolineare da un lato la realtà dei fenomeni di magnetizzazione e la loro applicazione clinica, dall’altro la necessità di un intervento dell’Accademia per garantire l’impiego esclusivamente medico della magnetizzazione. Il resoconto finale nonostante le pressioni di Husson non venne discusso dall’Accademia, che si trincerò su posizioni di chiusura, opponendosi alla pubblicazione del rapporto.
[2] Tra gli Stati americani che ammettono l’uso delle tecniche ipnotiche a scopo investigativo o giuridico: California, Texas, Alabama, California, Pennsylvania, Alaska, Michigan, Utah, Arizona, Minnesota, Virginia, Connecticut, Missouri, Washington, Delaware, Nebraska, West Virginia, Florida, New York, Indiana, Hawaii, North Carolina, Iowa, Illinois, Oklahoma, Kansas. Codici deontologici e rigide linee guida governano l’uso dell’ipnosi a scopi forensi, e non è ammesso l’uso della trance ipnotica nei confronti degli imputati o dei sospettati. In altri Stati come Georgia, South Dakota, Wyoming, Mississippi, Louisiana, Colorado, Nevad,a North Dakota, Idaho, New Mexico, Oregon, Ohio, New Jersey, Tennessee, Texas, sono richieste procedure di salvaguardia e verifica incrociata affinché le testimonianze rese in stato ipnotico siano ammissibili.
[3] GULOTTA G., Ipnosi. Aspetti psicologici, clinici, legali, criminologici, 1980, Giuffré, 425.
[4] GULOTTA G., cit., 435.
[5] GULOTTA G., cit., 436.

 




NON BASTA INFORMARE: È LA PSICOLOGIA AD INCORAGGIARE I COMPORTAMENTI ECOLOGICI

«Una persona sana di mente non preferirà mai la vista di un cumulo di foglie morte a quella dell’albero da cui sono cadute», scriveva nel 1985 il filosofo e psicologo Edward O. Wilson, teorico della biofilia, ossia la tendenza umana verso la natura. Da quest’ultima l’uomo proviene e a quest’ultima accede attraverso comportamenti differenziali che possono proteggere l’ambiente o indebolirlo, se non deformarlo o distruggerlo.

Il rapporto uomo-natura è l’oggetto di studio degli psicologi ambientali soprattutto in ragione delle distorsioni che l’hanno viziato e che hanno condotto al deterioramento di entrambe le parti dell’equazione ecologica: la natura, che vive una situazione di estrema emergenza causata dall’errore antropocentrico, e l’uomo, la cui qualità della vita si è ridotta, in quanto strettamente collegata alla qualità dell’ambiente e, attraverso di essa, alla qualità dello sviluppo economico.

Alla base del difficile e conflittuale rapporto tra uomo e ambiente stanno il diverso modo di funzionare del «tecnosistema» umano – in particolare di quello economico – in relazione con l’ecosistema, e la tendenza delle società industrializzate ad affrontare la natura come sfida ambientale e non come dimensione entro cui adattarsi. Affrontare la crisi ecologica impone innanzitutto di scoprirne le fondamenta: infatti, la crisi ecologica si profila sostanzialmente quale crisi del rapporto fra il mondo naturale e il mondo umano, segno di un equilibrio distrutto. La delicata situazione presente sottolinea la necessità di tornare a far proprio il concetto di «limite», perché quello adottato sino ad oggi non è l’unico modo possibile di vivere, si offrono anche percorsi diversi: al centro della questione vanno ricondotti l’uomo e lo stile di vita che ha deciso di adottare.

La perdita di biodiversità è frutto di scelte indipendenti di miliardi d’individui che fanno uso di risorse e servizi ecologici: il comportamento umano deve essere guidato nel senso di uno sviluppo sostenibile che, lungi dal costituire una definitiva condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento che mette l’una di fronte all’altra le generazioni. Il punto di partenza della progressiva presa di coscienza ecologica è l’avvio del programma dell’Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, le Scienze e la Cultura, denominato Mab ossia «Man and Biosphere», varato agli inizi degli anni Settanta, un osservatorio privilegiato per affrontare con mezzi e competenze adeguati i diversi problemi dell’ecosistema: nel binomio uomo-biosfera, l’uomo è proposto al centro della Terra come elemento centrale e attivo nei processi bioecologici, e il sistema ecologico è la nuova unità di analisi.

Nel 1987 il concetto di sostenibilità fu lanciato per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica e degli studiosi dal rapporto Brundtland, conosciuto anche come «Our Common Future», della Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo; esso è divenuto un obiettivo dichiarato delle politiche economiche e ambientali dei vari Paesi e degli accordi internazionali aventi per oggetto materie ambientali a partire dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992, cui parteciparono 172 Governi, 108 capi di Stato o di Governo, 2.400 rappresentanti di organizzazioni non governative e oltre 17 mila persone.

In quell’occasione fu firmata la Convenzione sulla diversità biologica, finalizzata ad anticipare, prevenire e combattere alla fonte le cause di significativa riduzione o perdita della diversità biologica in considerazione del suo valore intrinseco e dei suoi valori ecologici, genetici, sociali, economici, scientifici, educativi, culturali, ricreativi ed estetici, oltre che a promuovere la cooperazione tra gli Stati e le organizzazioni intergovernative. Un nuovo meeting a Rio si è svolto nel 2012, il «Rio+20», e le dichiarazioni a margine sono state scoraggianti: «Questo è un momento unico in cui il mondo ha bisogno di una visione comune, di impegno e di una forte leadership. Ma il documento che abbiamo per le mani in questo senso è un fallimento», dichiarava Mary Robinson, ex presidente della Repubblica irlandese ed ex alto commissario dell’Onu per i diritti umani; Jeremy Wates, segretario generale dell’Ufficio per l’Ambiente europeo, ha definito il meeting un flop, e Fernando Cardoso, che nel 1992 era presente all’Earth Summit e dal 1995 è stato anche presidente del Brasile, affermava che «la divisione tra ambiente e sviluppo è anacronistica e non porterà alla soluzione dei problemi che stiamo creando ai nostri discendenti diretti. La soluzione è nella crescita sostenibile, non nella crescita a tutti i costi».

L’interesse verso i temi trattati dalla Psicologia ambientale ha richiesto un inquadramento della materia a livello istituzionale e accademico. In Italia non solo è stato compiuto un grande passo in ambito universitario verso il riconoscimento formale della disciplina, ma è stato anche creato, nel 2005, il Centro interuniversitario di ricerca in Psicologia ambientale (Cirpa) per la promozione e lo sviluppo della materia, un consorzio tra le università italiane e gli enti di ricerca, nel quale risultano fino al momento più consolidati gli interessi della ricerca psicologica in questo senso. Sotto la direzione di Mirilia Bonnes e la vicedirezione di Marino Bonaiuto, provenienti dall’Università Sapienza di Roma, il Cirpa vanta un comitato scientifico nel quale sono presenti ricercatori dalle Università di Padova, di Roma Tre, di Cagliari, di Napoli.

«Sostenibilità» fa riferimento alla necessità di venire incontro ai bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri: le variazioni apportate all’ambiente dalle attività umane devono mantenersi entro limiti tali da non danneggiare irrimediabilmente il contesto biofisico globale e permettere alla vita umana di continuare a svilupparsi. Ciò significa fare in modo che il tasso di inquinamento e di sfruttamento delle risorse ambientali rimanga nei limiti della capacità di assorbimento dell’ambiente ricettore e delle possibilità di rigenerazione delle risorse secondo quando consentito dai cicli della natura, per evitare la crescita dello stock di inquinamento e dell’elettrosmog nel tempo, l’effetto serra, l’estinzione di specie naturali, la deforestazione, la desertificazione, la distruzione della foresta amazzonica, e molti altri dei danni irreparabili che l’uomo provoca e ha provocato con il proprio comportamento non «biosferico».

È sull’uomo che si deve incidere per compiere l’improcrastinabile e necessaria inversione di marcia: solo attraverso la modificazione dei comportamenti individuali è possibile salvare il pianeta. Ciò non è cosa facile: il comportamento è frutto di meccanismi spesso incontrollabili o difficilmente trasformabili. Inoltre, la profonda sfiducia del singolo nel sistema rende l’impresa ancora più ardua, dovendo intervenire non solo sugli aspetti cognitivi del comportamento, ma più spesso sulla sfera motivazionale ed emotiva che guida il comportamento umano ed è parte integrante del «making plan» decisionale. Di tale impresa si stanno occupando gli psicologi ambientali con studi e ricerche sul campo e utilizzando metodi quantitativi e qualitativi, attraverso «case studies» che mettono al centro l’uomo – da solo e nella sua componente sociale – con le credenze, i valori, il sistema normativo, le motivazioni, in generale tutti quegli elementi che muovono il comportamento individuale e che vanno a comporre lo stile di vita.

Un comportamento ecologico può essere realizzato in modo intenzionale (prendere la bicicletta al posto dell’auto per un fine ambientale) o non intenzionale (prendere la bicicletta al posto dell’auto per risparmiare i costi della benzina), ma essere comunque efficace sul punto dell’impatto ambientale. È ecologico, o più ecologico di un altro, anche un comportamento che, pur non arrecando beneficio all’ambiente, si pone su un piano neutrale. La maggior parte dei comportamenti rilevanti sono espressione di abitudini, nelle quali l’intenzionalità è pressoché nulla, azzerata da meccanismi di risparmio cognitivo, e l’unità di analisi è più lo stile di vita che non il gesto singolo: le abitudini sono stringhe comportamentali nemiche dell’ambiente ed è soprattutto su queste che devono intervenire gli psicologi ambientali, risvegliando i singoli sulle conseguenze di azioni non ponderate e fornendo delle motivazioni differenti per gli atteggiamenti e la condotta routinaria. Oltre a ciò, la differente direzione motivazionale dei comportamenti colloca, accanto a valori altruistici ed egoistici, valori «biosferici» che sottendono ai comportamenti ambientali e li guidano, e che devono essere stimolati nell’ottica di un cambiamento globale.

La psicologia ambientale ha, inoltre, preso atto di un fenomeno in grado di dare una netta sferzata al comportamento, le «epifanie ambientali», che si presentano all’individuo come una rivelazione improvvisa, repentina, che lo avvicinano al senso della natura, e lo inducono a modificare il proprio stile di vita in funzione di un’ecologicità cosciente. Si verifica, in questi casi, quel ritorno alla natura che gli psicologi ambientali auspicano, si ricuce il rapporto uomo-natura in funzione di quest’ultima e si prende atto della sua presenza, prima invisibile.

Vi sono anche casi, affatto rari, in cui l’uomo nasce con una spiccata predisposizione verso l’ambiente o in cui, avendo l’occasione di vivere in un contesto naturale, matura non solo convinzioni, abitudini e stile di vita ecologici, bensì un’identità ambientale che può eventualmente evolversi nel senso di un impegno costante per la salvaguardia della natura. Per Wilson, «le persone preferiscono stare in ambienti naturali, in particolare nella savana o in un habitat simile a un parco. Amano poter spaziare con lo sguardo su una superficie erbosa relativamente piana punteggiata di alberi e cespugli. Vogliono stare vicino a una massa d’acqua: un oceano, un lago, un fiume o un ruscello. Cercano di costruire le proprie abitazioni su un rilievo, da cui poter osservare in sicurezza la savana o l’ambiente acqueo. Con regolarità quasi assoluta, questi paesaggi sono preferiti agli scenari urbani brulli o con poca vegetazione. In una certa misura, le persone mostrano di non amare le immagini di boschi in cui lo sguardo non può spaziare, la vegetazione è complessa e disordinata e il terreno è accidentato: in breve, le foreste con alberi piccoli e fitti e un denso sottobosco. Prediligono caratteristiche topografiche e aperture che consentono una visione più ampia».

Con il termine di biofilia si è definita una predisposizione dell’uomo verso la natura che per Wilson ha origini genetiche, e ciò si sintetizza nell’innata affiliazione emozionale dell’uomo agli altri organismi viventi, quel rapporto emotivo che da sempre lega gli esseri umani alle altre forme di vita che l’hanno accompagnato nel viaggio dell’evoluzione. «Biofilia–dice Wilson–è la tendenza innata a concentrare il proprio interesse sulla vita e sui processi vitali (…). Fin dall’infanzia, con animo felice, noi concentriamo la nostra attenzione su noi stessi e sugli altri organismi. Apprendiamo a distinguere la vita dal mondo inanimato e a dirigerci verso la vita come una farfalla attratta dalla luce di una veranda».

L’affinità dell’uomo con la natura, e con tutti gli esseri viventi, sarebbe dunque un prodotto della selezione naturale. Il concetto di verde appare come un punto di riferimento molto coinvolgente, archetipico e quasi viscerale. Il fatto che soggetti di differenti culture mostrino preferenze analoghe avvalora l’eventualità di una base genetica delle preferenze umane per l’habitat, che costituisce indubbiamente per tutti gli organismi il primo e cruciale passo per la sopravvivenza. Gli effetti benefici per la salute psichica e fisica dell’uomo derivanti da un contatto diretto con la natura sono ampiamente documentati da un’estesa letteratura scientifica: l’espressione «restorativeness» si riferisce agli effetti positivi che l’ambiente naturale ha per il benessere psicologico dei soggetti.

L’identificazione con il tema ambientale può sorgere, in misura più o meno ampia, anche nelle aree verdi degli ambienti urbani – se presenti, se note, se accessibili – o essere guidata da un’educazione ambientale attenta e mirata. La sola informazione, però, non è sufficiente a produrre un cambiamento nei comportamenti, o comunque un cambiamento stabile, come non sono sempre utili le strategie impiegate dalla politica, ad esempio tasse ambientali e incentivi monetari, in grado addirittura di spiegare un effetto inverso riducendo la motivazione morale delle persone a comportarsi in modo pro-ambientale.

Gli interventi sono distinti in strategie «soft», quelle informative, che hanno lo scopo di incrementare la conoscenza, la consapevolezza, le regole e le abitudini delle persone, come le campagne di sensibilizzazione sulla raccolta differenziata; e «hard» o strutturali, aventi lo scopo di cambiare le circostanze in cui sono messi in atto i comportamenti decisionali; fornire servizi per il riciclo dei rifiuti ne è un esempio. È importante individuare quei comportamenti che possono migliorare, in modo significativo rispetto ad altri, le condizioni ambientali, per indurre più massicciamente i primi; gli interventi devono essere dotati di un buon fondamento teorico e ad ogni intervento deve seguire una valutazione corretta delle sue conseguenze. Dove bisogna gettare un tovagliolo di carta? In quale dei contenitori: indifferenziato, umido o carta? L’azione informativa è utile a colmare il deficit di conoscenza; subito dopo deve intervenire l’azione strutturale, ossia la predisposizione, da parte delle autorità troppe volte sorde, di servizi per la raccolta, perché il comportamento compreso possa essere concretamente attuato. Da ciò consegue la forte necessità di educare la politica prima di tutto.

Sebbene sia sempre più possibile riscontrare una dichiarata consapevolezza ambientale, quest’ultima non risulta accompagnata da una matura azione quotidiana di sostenibilità ambientale, e i lavori realizzati dagli psicologi mostrano il ridotto riscontro delle campagne massicce volte a promuovere comportamenti ecologici responsabili. L’eccesso di informazione e le propagande morali non sono sufficienti a produrre processi di cambiamento di questo genere; secondo gli «ecopsicologi» della branca della «Ecopsicologia» è erroneo ritenere che la sensibilità ambientale possa maturare principalmente attraverso campagne di informazione e di comunicazione, o attraverso interventi di educazione ambientale nelle scuole, senza piuttosto l’esperienza di natura che tende a favorire l’emergere di un nuovo atteggiamento verso l’ambiente naturale, coinvolgendo non solo il sapere razionale ma anche la riflessione astratta, per modificare le immagini mentali e cambiare, riaccendendo un senso di profonda connessione con la Terra, nella consapevolezza che i valori non si modificano in un corso di formazione più o meno convenzionale, bensì attraverso azioni di formazione in cui la persona abbia modo di disimparare credenze che aveva dato come immodificabili nel passato.

In tempi recenti le società europee hanno acquisito la consapevolezza della necessità di comportamenti più responsabili e delle conseguenze delle azioni individuali e collettive sull’ambiente, e l’educazione ambientale ha assunto un ruolo centrale e diverso rispetto alla tradizionale accezione che la confinava nell’ambito dell’educazione naturalistica o negli spazi destinati alle campagne informative o di sensibilizzazione, o nelle aree protette.

La pura didattica o la semplice informazione non sono più in grado di fornire gli strumenti necessari ad agire in modo responsabile ed autonomo e garantire un grado di sviluppo sostenibile della nostra società; l’educazione ambientale deve sempre più configurarsi come educazione alla sostenibilità (ambientale, economica, sociale o dello sviluppo in senso lato): un impegno e un’opportunità in grado di coinvolgere tutti gli attori sociali, chiamati a diversi livelli e con competenze pluridisciplinari a definire obiettivi, strategie, azioni per attività integrate, utili a produrre una crescita culturale tale da riflettersi, mediante modifiche permanenti di atteggiamenti e comportamenti, sulla qualità ambientale e sulla nostra società, per preparare gli individui all’intenzione di prendere decisioni consapevoli rispetto all’ambiente.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Aprile 2014




SOLETERRE (DAMIANO RIZZI): PSICO-ONCOLOGIA, IL CANCRO NON DEVE ESSERE UNA «TERRA SOLA»

Il cancro è una malattia a base somatica, che colpisce il corpo. Ma non risparmia la mente: l’abbattimento psicologico che si verifica a causa delle difficili cure e dell’aspettativa di vita, spesso declinata in negativo, ha una componente molto forte sulle possibilità di guarigione, a partire dall’influenza sullo stile di vita cui il paziente oncologico aderisce. La famiglia è coinvolta integralmente nel processo psicologico. La Sipo, Società italiana di psico-oncologia, ne prende atto sin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1985: sorta come associazione integrante le figure professionali (psicologi, oncologi, psichiatri e altri operatori sanitari) che lavorano nell’ambito dell’oncologia e dell’assistenza alle persone malate di cancro e alle loro famiglie, promuove la conoscenza, il progresso e la diffusione della psico-oncologia in campo clinico, formativo, sociale e di ricerca.

Iniziativa di rilievo l’indizione di una giornata nazionale di psico-oncologia, quest’anno (22 settembre) alla sua seconda edizione. Vi ha partecipato la Fondazione Soleterre-Strategie di pace onlus, organizzazione umanitaria che opera per garantire i diritti inviolabili degli individui nelle «terre sole», con progetti e attività a favore di soggetti vulnerabili in ambito sanitario, psico-sociale, educativo e del lavoro, per l’affermazione di una cultura di solidarietà. Oltre che in Italia (a Pavia), è attiva in Ucraina, Costa d’Avorio, Marocco, El Salvador, Congo e Uganda, dove adotta metodologie di partenariato e di co-sviluppo per promuovere la partecipazione dei beneficiari degli interventi nei Paesi di origine e in terra di migrazione, e garantire la loro efficacia e sostenibilità nel tempo.

È presieduta da Damiano Rizzi che, dopo aver collaborato con organizzazioni umanitarie internazionali, nel 2001 ha, con altre 5 persone, creato Soleterre. Ha così lavorato e coordinato progetti di sviluppo umano in Bosnia Erzegovina, Kosovo, Costa d’Avorio, Albania, Romania, Marocco, Moldavia, Ucraina e Italia. Per le iniziative a favore di bambini poveri e malati di cancro in Ucraina ha ottenuto la targa d’argento della Presidenza della Repubblica italiana.

Domanda. La seconda giornata nazionale della psico-oncologia: chi coinvolge?
Risposta. Coinvolge a livello nazionale, regionale e provinciale diversi professionisti e associazioni che garantiscono ai pazienti malati di tumore e ai loro familiari sostegno e supporto psicologico e sociale, con una visione che considera le dimensioni complesse della malattia oncologica.

D. Quali sono i suoi obiettivi?
R. L’intenzione è quella di offrire un’assistenza attenta a una migliore qualità di vita durante tutto il percorso di malattia. Una caratteristica fondamentale del modello dell’oncologia pediatrica, sviluppato in Italia all’interno dei centri Aieop, Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica, è proprio quella della gestione multidisciplinare della cura. In particolare, l’avere indetto una giornata su questo tema significa impegnarsi a diffondere e sostenere ruolo e funzioni nella psico-oncologia fra i cittadini, per diffondere un approccio integrato alla conoscenza e alla cura delle malattie neoplastiche.

D. In che modo Soleterre ha partecipato al progetto?
R. Soleterre è impegnata fin dalla sua nascita, nel 2002, in progetti e interventi in difesa del diritto alla salute intesa, come indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità fin dal 1948, come «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattia o infermità». Dal 2010 ha attivato il Piop, Programma internazionale per l’oncologia pediatrica, per garantire accesso alle cure in Paesi a basso e medio reddito e cure di qualità in Italia. La Fondazione aderisce alle principali società scientifiche internazionali che si occupano di oncologia, quali la Uicc, Union for international cancer control, o la Cci, Childhood cancer international. In occasione della seconda giornata nazionale della psico-oncologia, Soleterre è intervenuta a Brescia al convegno «I bisogni psico-sociali del malato e del caregiver. Esperienze sul campo in Lombardia», presentando i dati di una ricerca realizzata sui principali bisogni dei bambini malati e dei loro genitori, condotta in Costa d’Avorio, India, Marocco e Ucraina comparandoli con i dati italiani. Abbiamo anche presentato la Carta dei servizi di psico-oncologia realizzata presso l’oncologia pediatrica dell’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico San Matteo di Pavia.

D. Quali sono i bisogni psicosociali del malato e del caregiver?
R. I dati sono stati raccolti nel corso del 2013 da una ricerca finalizzata alla creazione di un confronto internazionale di bisogni e necessità dichiarate da medici, psicologi e familiari di pazienti affetti da tumore infantile. In linea con gli studi in letteratura focalizzati sulla costruzione di rappresentazioni mentali di malattia (RM) e con la teoria dell’autoregolazione di Leventhal, il principale bisogno psicologico espresso attiene alla sfera delle conoscenze e delle aspettative circa la malattia. Dalla nostra indagine risulta che per definire il percorso di senso occorre avere maggiori informazioni utili alla possibilità di rielaborazione personale, oltre ad un atteggiamento empatico dei medici e del personale. Tale tipo di bisogno espresso, in termini più generali, atterrebbe alla sfera della psico-educazione nella sua componente cognitiva, e dell’educazione socio-affettiva nella sua componente emotiva, che se considerate correttamente possono migliorare la capacità di contenimento emotivo dei genitori e dei bambini migliorando anche la compliance terapeutica, ossia la componente comportamentale. Per quanto attiene alla sfera sociale, dalla ricerca emerge che i principali bisogni espressi riguardano le complesse condizioni del contesto socio-economico e della difficoltà di accesso ai sistemi sanitari e alle cure, «difficoltà finanziarie e costi troppo elevati» in Costa d’Avorio, «un luogo migliore in cui ricevere cure» in India, «costo degli esami e delle medicine troppo elevato» in Marocco e «cure troppo care e trasfusioni a pagamento» in Ucraina.

D. Come nasce e in cosa consiste, esattamente, la Carta dei servizi di psico-oncologia della Provincia di Pavia?
R. Nasce dal bisogno di pubblicizzare i tanti servizi attivi nel territorio pavese, dentro e fuori gli ospedali, allo scopo di far sapere all’utente che esistono e che sono a sua disposizione. Lo scopo è diffondere tali materiali in collaborazione con ospedali e università al fine di fare incontrare la domanda di servizi e la sua offerta.

D. Siete operativi, come Soleterre e Sipo, solo in Lombardia, o anche nel resto del territorio?
R. Soleterre è attiva in campo oncologico pediatrico in Italia a Pavia e nel mondo in Costa d’Avorio, Marocco, Ucraina e Uganda. La Sipo è attiva in tutta Italia e a livello internazionale attraverso l’Ipos, ossia International psycho-oncology society.

D. Quali sono le vostre iniziative specifiche? Che impatto hanno?
R. Le nostre iniziative specifiche di supporto psicologico riguardano 10 ospedali, 29 associazioni e 18 enti pubblici in 5 Paesi di 2 continenti. Aiutiamo 1395 nuclei familiari che oltre al sostegno psicologico ricevono anche aiuti in termini economici per accedere a diagnosi, medicinali, materiale sanitario ecc. attraverso un fondo d’emergenza creato per fornire aiuto economico diretto alle famiglie meno abbienti. Il sostegno psicologico riguarda anche 347 tra medici e medici specialistici, infermieri e altre figure socio-sanitarie per cui è a disposizione il servizio e che ricevono formazione continua sul tema dell’oncologia pediatrica. Inoltre, la Fondazione Soleterre in ogni casa-famiglia ha attivato un servizio di psico-oncologia. Le case-famiglia in Ucraina, Costa d’Avorio e Uganda hanno accolto 293 famiglie garantendo vitto e alloggio, supporto psicologico e attività ricreative.

D. Qual è l’attuale stato delle ricerca oncologica prima, e psico-oncologica poi, in Italia e nel mondo? E quale lo stato delle strutture ospedaliere e cliniche private nel nostro Paese, anche in confronto con la situazione globale?
R. In Italia e nel mondo occidentale la ricerca oncologica è sempre in evoluzione. Grazie all’immunoterapia, alle terapie target, a chemioterapia, chirurgia e radioterapia, i pazienti oncologici vivono più a lungo. In Italia il vero problema resta quello del finanziamento pubblico alla ricerca, che è presente in una logica «emergenziale». Per fortuna esistono tante organizzazioni private che la finanziano. Le condizioni degli ospedali sono molto eterogenee tra loro con una difficoltà evidente in alcune aree del sud del Paese. Nei Paesi a basso e medio reddito, oltre a non fare ricerca, spesso non si ha accesso nemmeno a quella del mondo occidentale. Le condizioni degli ospedali pubblici sono troppo spesso insufficienti nei servizi di base, dalla diagnostica ai protocolli di cura.

D. In che modo la psicologia può aiutare il paziente oncologico e le sue famiglie?
R. Le evidenze scientifiche indicano che gli interventi psico-oncologici comportano una significativa riduzione del dolore, dell’ansia e della depressione, un miglioramento della qualità di vita e un’azione positiva su diversi parametri biologici indicatori di stress, quali il cortisolo. Il supporto psico-oncologico è considerato «l’altra metà della cura» e influisce positivamente sui risultati delle terapie.

D. Siete attivi anche nella psico-oncologia pediatrica: come?
R. Lo siamo quasi esclusivamente in ambito di oncologia pediatrica attraverso attività di educazione alla salute, diagnosi precoce, accoglienza, cure mediche, sostegno psico-socio-educativo, networking, sensibilizzazione e advocacy.

D. Il cancro è una «terra sola»?
R. Il cancro è una malattia che va curata e per fortuna i bambini, se ben curati, possono avere alti tassi di sopravvivenza. Purtroppo in molte aree della terra i bambini malati di tumore non vengono curati, e allora il cancro diviene una «terra sola».

D. Fondazione Soleterre: come nasce, cos’è, di cosa si occupa, com’è strutturata, come si regge, in che modo è supportata: una descrizione generale della Fondazione.
R. Soleterre è una fondazione partecipata nata circa 15 anni fa con l’intenzione di affermare per tutti gli individui il diritto ad essere curati. Lo abbiamo sempre fatto con tutte le nostre forze grazie all’aiuto di tanti donatori italiani e non solo. Soleterre è anche una concreta possibilità di cambiare davvero con tenacia e pazienza le cose che non vanno, poco a poco ma con tanta speranza e fiducia. Siamo circa 100 professionisti con competenze in diversi ambiti – medicina, psicologia, gestione e sviluppo dei progetti umanitari, comunicazione, raccolta fondi – che credono nel dovere di applicare veramente i diritti umani scritti nelle diverse costituzioni e leggi.

D. Lei di cosa si occupa?
R. Mi occupo, come psicologo, della supervisione nell’ambito del supporto psicologico e sociale del Programma internazionale per l’oncologia pediatrica. Ho personalmente contribuito ad avviare i progetti nelle aree di intervento e, come presidente della Fondazione Soleterre, curo i rapporti istituzionali e una parte della raccolta fondi. Cerco ogni giorno di dare speranza e futuro per poterne regalare una parte consistente alle altre persone. Sono sposato e ho due figli a cui vorrei dire un giorno di avere fatto al meglio la mia parte per migliorare le cose che non vanno. (ROMINA CIUFFA)

 

 




TRAUMA SENTIMENTALE: GIORGIO NARDONE LO SPIEGA BREVEMENTE E STRATEGICAMENTE

Trauma sentimentale: oggetto dei nostri giorni, del nostro divenire. Sempre più incerto, traghettato da uno spazio temporale in cui l’uomo era al centro della relazione ad uno in cui è la relazione ad essere al centro dell’uomo. Anche oggetto di un workshop tenuto dal fondatore del CTS, Centro di terapia strategica di Arezzo, Giorgio Nardone che, legatosi come psicologo e ricercatore alla Scuola americana di Palo Alto, è divenuto l’erede di un grande Paul Watzlawick, filosofo e psicologo, unico autore tradotto in ottanta edizioni differenti, avente la capacità di sintetizzare il lavoro di eminenti studiosi – da Gregory Bateson a Donald deAvila Jackson e Milton Erickson – in un unico e rigoroso modello teorico e applicativo. Finanche il padre del costruttivismo Heinz Von Förster amava dichiarare di essere lui stesso una invenzione di Watzlawick. È con quest’ultimo che nel 1987 Nardone fonda il suo centro aretino, dove applica il modello della terapia breve-strategica, particolarmente adatto alla risoluzione dei traumi, incluso quello sentimentale, per il suo approccio netto e veloce.

Nell’ambito del IV Congresso di psicologia della Società italiana di psicologia e psicoterapia relazionale (SIPPR) presieduta dal professor Camillo Loriedo, dal titolo «Psicologia in evoluzione. Progetti e soluzioni della psicoterapia per il futuro», tenutosi a Roma negli ultimi quattro giorni di settembre, anche d’amore s’è trattato. Con Nardone, sono intervenuti sul tema gli psicologi Piero Petrini, Luisa Martini e Giovanna De Maio. «Un ruolo ingrato, in quanto esponente maschile–afferma Nardone–quello di aprire il dibattito: e non è un caso, perché quando si parla di traumi sentimentali chiedono aiuto al 90 per cento le donne». Nel mondo egizio, tra i modelli più avanzati di società, spiega il fondatore del CTS, un editto prescriveva: se cogli una donna in flagranza di adulterio punisci il marito. «Erano già molto saggi. Possiamo anche rovesciare le cose. Smettiamola con la prosopopea del vittimismo. Il tradimento, da un punto di vista interazionale, non è mai un atto singolo, individuale, ma sempre di interazione».

Specifica che negli ultimi anni alcuni Paesi si stanno orientando verso una legislazione nuova: i matrimoni a termine, una profezia triennale che si autoavvera solo in quanto formulata. Il disturbo da iperattività sessuale, ora bandito dal DSM (il Manuale diagnostico dei disturbi elaborato dalla Società di psichiatria americana) definiva malato l’uomo che avesse più di due rapporti sessuali a settimana. Negli ultimi due decenni, per Nardone la ricerca scientifica ha subito la corruzione della misura quantitativa: calcoli da laboratori, non sul campo, e statistiche portano a deformazioni. Come dire che tutti al mondo mangiamo un pollo a testa a giorno, ma c’è chi ne mangia dieci e chi nessuno, e il problema dell’hypersex era emerso da una valutazione a livello mondiale della quantità media dei rapporti sessuali di una coppia dai 25 ai 50 anni, che dava un risultato di un rapporto e mezzo al mese. È la statistica.

«Grazie a questo–analizza Nardone–si era arrivati a ritenere rigorosamente scientifico, perché quantitativamente misurato, un disturbo completamente inventato da una deformazione di scientismo, di riduzionismo, non di scienza. Purtroppo di esempi come questo possono farsene anche riguardo psicopatologie molto più importanti e anche su ricerche che si danno il tono di scientificità, in questo ed altri campi». Cominciamo ad utilizzare il dialogo strategico con noi stessi, suggerisce il padre della breve-strategica. «Portiamo le persone di fronte alla condizione estrema del trauma sentimentale vissuto dal vivo, ossia la flagranza del tradimento, un’immagine che rimane con la densità di un disturbo post traumatico».

A proposito di tradimento Luisa Martini, psicoterapeuta e didatta dell’IIPR, l’Istituto italiano di psicoterapia relazionale, fa riferimento al romanzo «I giorni dell’abbandono» di Elena Ferrante, dove, tra i due partner sottoposti ad uno stress da tradimento, a morire è il cane Argo: la fedeltà. È il fedele che soccombe. In ogni fedeltà che non conosce il tradimento, e neppure ne ipotizza l’esistenza, c’è troppa infanzia, troppa ingenuità, per riprendere Umberto Galimberti. «Nelle relazioni con un altro significativo–spiega la Martini– è necessario mettere in conto il tradimento delle aspettative fantasmatiche di entrambi i partner, di ciò che ciascuno di essi si attende dall’altro ma, non di inferiore rilevanza, da se stesso in relazione con l’altro: ciò fa parte delle nostre possibilità di crescere nella conoscenza di noi stessi e di chi è con noi. La fiducia infantile rischia di divenire una prigione. Accade che il mondo del tradito perde tutti i suoi significati e che entrambi i partner devono riorientarsi. Il tradito vuole sapere tutto, il traditore si sottopone all’interrogatorio».

James Hillman arriva a postulare una verità fondamentale relativa al tradimento: non si danno amore e fiducia senza possibilità di tradimento. Hillmann parla, nei suoi lavori, delle reazioni disfunzionali al tradimento: vendetta, negazione dell’altro, cinismo («tutti gli uomini sono inaffidabili»), negazione di sé («non mi esporrò mai più»), scelte paranoiche (la persecuzione, ad esempio, valida soprattutto ai tempi del web e dei social network).

Nardone, in modo «breve-strategico», pone una domanda chiave: dopo un trauma sentimentale, non solo tradimento, cosa fare? Lasciare il partner o rimanere? Come si arriva a capire quale sarà la scelta migliore? «Ho affrontato questo argomento in un mio libro sul trauma nelle decisioni. Si arriva alla soluzione solo dialogando con se stessi, ma non con la parte razionale: con quella viscerale. Bisogna mettersi sul ciglio del precipizio e verificare quali sono i brividi, per citare la ballerina Sylvie Guillem». Essa sostiene che mantenersi sul precipizio sia l’unico modo per un artista di restare vivo.

La domanda fondamentale da farsi, per Nardone, non è «mi ama ancora?», perché questo è delegare mentre bisogna, invece, fare i conti solo con se stessi. Nemmeno domandandosi «amo ancora?», bensì «posso farne a meno?». L’interrogativo corretto apre scenari il più delle volte non contemplati, perché «quando si comincia ad immaginare in se stessi la vita senza quel partner, quindi a sperimentarla, ci si accorge di qualcosa che prima non si riusciva a vedere. Trovata la risposta, si ha già la strada da percorrere. Nel dialogo strategico–spiega–sono le domande che fanno le risposte. Il problema si pone se la risposta è: non si può fare a meno di quella persona. Ma in tal caso, è necessario evitare di fare la figura della vittima o del vendicatore: se non si può farne a meno, la risposta è chiara e si agisce di conseguenza, senza tornare indietro».

Parlare di traumi sentimentali è qualcosa di viscerale, è parlare del poter fare a meno di qualcuno o no. Da cui il percorso successivo. «Abbiamo bisogno di riduttori di complessità, ossia di stratagemmi che ci consentano di risolvere la complessità attraverso soluzioni semplici. È l’uovo di Colombo, sia pure sofferto: una sofferenza che non è attraversata si trasforma in una lenta agonia, la quale è ben peggiore. Il mio amico Emil Cioran diceva: il coraggio che manca ai più è il coraggio di soffrire per cessare di soffrire».

Se per Pietro Petrini il trauma sentimentale porta ad una dissociazione in grado di primitivizzare l’uomo, Giovanna De Maio spiega cosa evitare e come riprendersi da un trauma sentimentale: «Un abbandono è così devastante da essere paragonato a un vero e proprio lutto: si è sconfortati, inermi, si tratta di una perdita. Per Cesare Pavese un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra miseria, nullità, inermia, e così sintetizza la condizione di fine avvertita quando si entra in contatto con la parte più vulnerabile di se stessi».

Il terapeuta potrà accompagnare la persona che ha subito la perdita attraverso le cinque fasi di elaborazione del lutto descritte da Elisabeth Kübler-Ross: rifiuto («non può essere successo»), patteggiamento («torniamo insieme», «faccio tutto quello che non ho mai fatto prima», «prometto»), rabbia («mi ha ingannato»), depressione («ho sbagliato tutto», «non c’è futuro»), infine accettazione. Cercare di non pensare è già pensare, il tentativo vano di distrarsi non fa altro che allungare il tunnel dei sintomi; l’abbandonarsi è sicuramente la cosa più importante da fare, non come consigliano i familiari, gli amici, il cui dire non fa altro che intensificare il senso di inadeguatezza. Il terapeuta deve sintonizzarsi con il dolore e la sofferenza dell’altro, evidenziando come non ci sia nulla di patologico o sbagliato nel continuare a soffrire. Il dolore delle perdite sentimentali non sparisce: esso decanta. Per agevolare il processo bisogna immergersi come una bustina di tè nell’acqua bollente.

Per questi psicologi dunque, del trauma sentimentale non bisogna vergognarsi. Tutt’altro: esso va ascoltato, e attentamente. (ROMINA CIUFFA)

GALLERIA

#gallery-1 { margin: auto; } #gallery-1 .gallery-item { float: left; margin-top: 10px; text-align: center; width: 33%; } #gallery-1 img { border: 2px solid #cfcfcf; } #gallery-1 .gallery-caption { margin-left: 0; } /* see gallery_shortcode() in wp-includes/media.php */




ALIMENTAZIONE 2.0: GALLINA CHE NON BECCA HA GIÀ BECCATO

All’inizio era il darwinianesimo. Processi di selezione naturale basati sulla meritocrazia non solo di un vivente, ma delle sue stesse parti corporali: la coda serviva – restava. Non serviva, via. Così le abilità. Si può dire che Darwin fosse un meritocratico, sebbene avesse ricevuto una raccomandazione, quella del naturalista John Stevens Henslow, per salire a bordo del Beagle, brigantino britannico in partenza per una spedizione di ricognizione scientifica intorno al mondo, in qualità di naturalista non stipendiato, e sebbene la sua ipotesi, esposta per la prima volta nel 1858, fu presentata contemporaneamente da Alfred Russel Wallace, che era giunto indipendentemente alle medesime conclusioni.

Corrette o meno, o correggibili, le teorie della selezione naturale sono utili a rispondere a chi vuole convincere il mondo – a prescindere da qualsivoglia cultura, antropologia, credo, dunque bandendo il relativismo in favore di un’assolutismo ideologico – a non mangiare carne. Esse sono basate, infatti, sull’assunto di una specie più forte all’interno di un ecosistema perfettamente autonomo. Homo homini lupus, d’altronde. Oggi la carne fa male, le tossine che sprigiona l’animale, mentre muore soffrendo, sono quanto di peggio si possa ingerire. Non è sbagliato ma, per quanto ciò sia vero, si scontra con l’eccesso. Le nonne dicevano: «Allora non è vera fame», quando si chiedeva da mangiare insistentemente e poi non si gradiva il brodino, la carne. Non è vera fame, no. Si voleva il gelato, diciamolo.

Ed eccoli qui, i nuovi affamati: onnivori (i polifagi), locavori (mangiano cibi prodotti nel raggio di un centinaio di chilometri dal luogo del pasto), ecotariani (scelgono cibo la cui sparizione causi un impatto minore sull’ecosistema), macrobiotici (no carne), vegetariani (no carne, no pesce), flexitariani (vegetariani che mangiano solo a volte carne e pesce), vegani (no ai cibi di origine animale, come latticini, miele e uova), freegan (che rifiutano in blocco la società consumistica, non comprano nulla, recuperano gli scarti anche dai bidoni, si nutrono pure di carcasse di animali morti trovate per strada), crudisti (amano cibi crudi di cui non sia superata una certa temperatura per mantenerne le proprietà di attivazione enzimatiche), fruttaliani (solo frutta e verdura), fruttaliani crudisti (escludono frutta e verdura cotte), fruttariani (solo frutta cruda, meglio se dolce), fruttariani simbiotici (solo frutta cruda e mangiata dagli alberi curati in proprio), via via verso il trionfo della concezione biocentrico-igienista.

Nonne, non abbiamo finito. È un melodramma quello dei melariani, per i quali le piante soffrono, tutte tranne i meli: le mele si donano all’uomo con piacere, i melariani lo sanno. Una mela al giorno leva il medico di torno (se il medico mangia solo mela, un peccato originale). Più avanti ci sono i respiriani: loro respirano. Vivono di sola luce. Assorbono prana (energia vitale, spirito) dal naso. Possono concedersi di ingoiare qualcosa solo se ciò non li fa sentire in colpa, «perché stiamo mangiando per gusto, perché ci piace e non per necessità», spiega una di loro in un’intervista. Aggiungendo: «I cambiamenti fisici più rilevanti sono stati la crescita costante di energia e luminosità e la scomparsa del bisogno di defecare. A un livello di pulizia totale si smette anche di urinare, rimettendo i liquidi in circolo e attivando un processo autotrofo». Alcuni riescono a non dormire, a diventare immortali, assicura la respiriana. Oltre, ci sono i raeliani, che meriteranno la reincarnazione scientifica e vivranno per sempre sul pianeta degli Elohim, dove il cibo sarà portato loro senza dover fare il minimo sforzo.

Dopo, ci sono solo i morti.

L’estremizzazione è una componente essenziale della media. Bukowski scriveva: «Non mi fido delle statistiche: un uomo con la testa nel forno e i piedi nel congelatore ha una temperatura media». Così è garantito un livello di maturità e intelligenza al centro, che solleva dall’idea di dover scegliere per forza tra il congelatore ed il forno. Ma si stava meglio quando si stava peggio. Prima non era un problema mangiare; oggi l’attenzione cade sul cibo al punto tale da essersi sviluppati in senso più ampio disturbi alimentari di forte gravità. L’aver posato lo sguardo su di essi li ha fatti emergere, e così avanti l’anoressia, avanti la bulimia, il «binge eating», la pica etc. Che, infine, sono ricollegati all’accudimento materno. E si torna alla madre, comunque: l’alimentazione inizia con la suzione, non con il respiro. Il latte materno proviene da un animale, facente parte della catena alimentare, ma oggi si dice: il latte è la cosa più pericolosa che c’è. Seno buono e seno cattivo, li chiamava Melanie Klein, l’assenza di integrazione dei quali condurrebbe, nello sviluppo evolutivo umano, alla formazione della posizione schizo-paranoide, utilizzata come difesa. Per l’appunto.

Cosa è accaduto, cosa ha portato a vivere di sola aria? A far credere che l’astensione dal cibo sia l’alimentazione corretta? A nutrirsi con il naso, non con la bocca? Nell’epoca degli «apericena» poi. La disperazione individuale, la distruzione planetaria, due facce della stessa medaglia; la psicosi come malessere. L’oncologo Umberto Veronesi, scomparso di recente, direttore dell’Istituto europeo di Oncologia, ha studiato la relazione tra cibo e cancro elaborando una dieta per la prevenzione dei tumori, incentrata su un consumo più coscienzioso dei diversi alimenti; una dieta non lontana da quella mediterranea, vicina a quella vegetariana ma con correttivi. Ma la dieta migliore è la coerenza.

Esagerare nella scelta di un regime alimentare e renderlo ideologia conduce a disturbi mentali, ossessioni, fissazioni, carenze. Una convinzione – di qualunque tipo essa sia – può modificare gli schemi neuronali del cervello, a livello individuale e collettivo, al punto da generare un effetto Pigmalione, la «profezia autoavverantesi» di Robert K. Merton, il quale con William Thomas sosteneva che «se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». Anche definito effetto Rosenthal, il postulato sottolinea come una previsione possa realizzarsi per il solo fatto di essere stata espressa. Così una corretta disciplina nell’alimentazione supporta fisico e mente; un’eccessiva disciplina li distrugge, e pone in circolo premesse che condurranno all’adempimento della predizione che le ha generate. Accenderemmo un fuoco sapendo che il tronco dell’albero ne soffre? Come potremmo riscaldarci? Oggi, con l’energia solare. Ma poi, dove sedersi, su quali sedie? Per terra. «Per terra» acquisisce un significato talmente pregnante, a questo punto del ragionamento, da poter citare un altro gruppo, quello degli scalzisti o «barefooters», che vanno sempre in giro scalzi. E siamo noi a doverci fare il callo.

Si dice anche: “Gallina che non becca ha già beccato”. Si fa riferimento al fatto che si ha già la pancia piena. Ed, in un certo senso, è così: la reificazione della metafora conduce a dire che sì, si ha la pancia piena, di troppe cose. Abbiamo tutto. Non c’è più pane e patate, altro che guerra. Non c’è più l’istinto di sopravvivenza, è tutto a portata di mano, il grano è nel pollaio e non lo becchiamo. Galline restiamo.

Quella di oggi è vera fame? Nell’epoca del consumismo più sfrenato, dei click, dell’abuso, si può rispondere: no, non è vera fame. Tale nonna, ancora viva, non può più fare il ragù ai nipoti, non può sbattere un uovo per lo zabaione o la sua crema, le è inibito spadellare. Oltre a doversi abituare, con rassegnazione anziana, ad un mondo che svanisce, che lei non aveva distrutto ma che i suoi figli hanno massacrato senza esitare, ora non può che preparare, per il pranzo di Natale, un buon prana, e sapere che, nell’esalare l’ultimo respiro, almeno per quella volta ancora potrà tornare a dare da mangiare ai nipoti. Basterà per tutta la famiglia?   (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – luglio/agosto 2017