DEVI STARE PER SEMPRE CON ME

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DEVI STARE PER SEMPRE CON ME. Sembra il sequel di Misery non deve morire e invece è la vita di tutti i giorni tra persone non solo normali, sin troppo normali. Voi ci credete alla storia di passare l’intera vita con una persona sola, dopo che la si è scelta (ma poi, la si è davvero scelta o ci ha scelti)? Di potere avvicinarsi insieme alla vecchiaia e superarla pure? Io ci credo. Nonostante io stessa sia parte di una generazione che ha conosciuto il divorzio, che si è stancata di tutto, che a cinquant’anni ancora sta pensando se fare o no un figlio, continuo ad attaccarmi a quel barlume di intenzione di trascorrere tutta la mia vita con la persona che amo. Sarà difficile? Sì, moltissimo. Ma l’equazione si risolve facilissimamente: come, quando, davvero è possibile? Sì, se anche l’altro lo vuole. Gli abitanti delle generazioni precedenti semplicemente si amavano (alcuni nemmeno quello) e si sposavano per sempre, e nessuno dei due nella coppia avrebbe mai pensato di terminare la relazione fosse costato ciò che fosse costato. Dunque il trucco è solo uno: sapere che l’altro non ci lascerà mai. Allora nemmeno io lo lascerò, intesi.

È necessaria la sicurezza di avere l’altro. Questa corrisponderà, si badi bene, a molta noia, a consapevolezze quali “basta, non ce la faccio più”, “questa volta lo lascio”, “per me è ormai una sorella” che non prenderanno mai forma né concretezza, a scenari da Sandra e Raimondo (“che noia che barba, che barba che noia”). Sarà facile, se non certo, un tradimento, quando non più di uno, ma la coppia resisterà fino alla fine poiché entrambi hanno deciso di stare insieme per sempre e di vivere di questa certezza. E non per la formula “finché morte non ci separi”, ma per l’importanza di sapersi al sicuro in un mentale eterno.

Non che lasciarsi sposti quella sicurezza: lo fa solo psicologicamente. In realtà, spesso lasciarsi è un toccasana che rende tutto molto più semplice. Ma lasciarsi è complesso, è impossibile, lasciarsi significa immaginare di dover affrontare non solo i giorni e i mesi successivi da soli, senza l’altro solito, ma tutti gli anni a venire, con la paura di invecchiare da soli, di non avere più nessuno accanto, né figli perché non se ne sono fatti né altro, finire, se ci sono soldi, in una RSA, o essere completamente abbandonati. Perché spesso è proprio questo lo scenario che si prospetta a chi è lasciato o deve lasciare dopo aver investito molto in una storia, un futuro tragico senza palliativo.

Io ho sempre creduto allo stare insieme per sempre, eppure ancora non è trascorso il mio per sempre con una persona sola. Crederci non è come farlo avverare, ma che anche solo io lo pensi, forse, e dico forse, potrebbe portare l’altra persona a volerlo quanto me. In tal caso prometto di comportarmi bene anche nei periodi più brutti che ci troveremo a vivere, perché sì, ce ne saranno molti.

Romina Ciuffa, 29 aprile 2025

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UN BEL COCKTAIL DI PSICOFARMACI

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UN BEL COCKTAIL DI PSICOFARMACI. Si può soffrire senza soffrire? In parte è possibile, basta rivolgersi a un bravo psichiatra che potrà prescrivere dei rimedi psicofarmacologici contro il “sentire”. Ve ne sono molti, cito un paio a caso: aloperidolo ed olanzapina, entrambi antipsicotici che hanno il potere, se presi in minime dosi, di alleviare le ossessioni e portare le angosce a un livello più basso. Con questi farmaci, la situazione ansiogena calerà di molto ma di essi non bisognerà abusare e andranno monitorati dallo psichiatra (non dal medico di base) in modo da aggiustare la dose a seconda degli effetti diretti o collaterali. Sarebbe indicato anche non bere e non drogarsi, se lo si fa che lo si faccia in minima parte, sospendendo se possibile tutta questa attività che potrebbe comunque peggiorare lo stato psicologico del soffrente, facendolo soffrire di più. Il cocktail di alcol, droghe e psicofarmaci non è mai consigliato.

Gli psicofarmaci non sono la panacea. Nessuno di essi, anche in un paniere ben agghindato, può togliere quel sentire, quella percezione ferma e stanca del dolore. Non si può soffrire senza soffrire. Si può fare un bel cocktail di psicofarmaci e aspettare che passi, ma è come l’influenza: se non curata dura sette giorni, se curata dura una settimana.E poi c’è la regola: storia durata quattro anni, due anni per terminarla, storia durata dieci anni, cinque anni per terminarla, è sempre 2 a 1. Pertanto, se si soffre per amore (la fine di una storia? Un tradimento? Incomprensioni?), e se si soffre tanto per amore, bisogna cedere e decidere di continuare a sentire, anche senza psicofarmaci se Dio vuole. Predere due settimane, due mesi, due anni per soffrire a più non posso cercando di non perdere gli amici e il lavoro e, da tutto questo dolore, riemergere diversi, sfiancati, logorati, ma uscirne. Tutti sapranno che tu stai soffrendo perché non potrai farne segreto e chiederai gli aiuti più improbabili, posto che la psicoterapia non riesce nel dolore d’amore.

Bisogna farsi forza e affrontare questo incubo ad occhi aperti, non si può nulla contro il dolore d’amore. Si può migliorare le situazioni ma il dolore resterà tale: cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia, un tradimento è un tradimento, essere lasciati è essere lasciati, lasciare è lasciare, incomprensione è incomprensione. La terapia di coppia può servire nel primo e nel quarto caso, ma nel tre e nel due – la fine di una storia – non c’è più coppia, resta solo un irruente stato d’animo angoscioso che non vuole fare i conti con altri se non con te. Sei già un turbine, un fiume in piena, i tuoi amici ti aiutano ma alcuni hanno preso ad evitarti, sei per un periodo classificato come “quello che sta male”, prima o poi finirà ma intanto perdi tutto. Pensa se non ci fossero quegli psicofarmaci.

Quello che voglio dire è che gli psicofarmaci possono aiutare snì, gli amici possono provare a farlo, ma il dolore d’amore è tutto dolore tuo e lo devi accogliere, accarezzarlo, tenerlo con te e non visualizzarlo più come una cosa nera buttata in mezzo allo stomaco, iniziare a vederla con dei fiorellini, un po’ di bel tempo, l’odore di erbetta. In mezzo alle gole del dolore passiamo tutti, non facciamocele franare addosso. Butta giù quegli psicofarmaci e inizia la tua giornata con l’angoscia, via via cambierà, nelle ore, nei giorni, nei mesi, negli anni, cambierà e poi finirà. Si può soffrire senza soffrire? La risposta è no.

Romina Ciuffa, 28 aprile 2025

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LA REGOLA DEL BACIO

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LA REGOLA DEL BACIO. Se non ti bacia in bocca e con la lingua la storia è finita. Potresti andare avanti comunque per molto tempo, l’amore forse c’è ancora (è da vedere, non da dare per scontato) ma va sperimentato, comprovato, messo alla prova. Se ti sta bene così, puoi lasciar correre anche per anni in una relazione di pura fraternità (nella quale, probabilmente, uno dei due tradirà), ma per sentire quanto amore c’è il trucco è uno solo: quanti baci in bocca si danno e quali, quantità e qualità.

Questa prova del nove è universale. In ogni coppia arriva quel momento in cui i baci non sono più la cosa essenziale e nemmeno una cosa rilevante, ma non ti mettere in questa situazione, non arrivarci, se ci arrivi cambia le cose o lascia. Senza voltarti indietro. E il sesso, il sesso c’è? Quello che poi dovrebbe essere chiamato amore, “Fare l’amore” e non “scopare” o “fare sesso” o “trombare” o tutte le volgarità del mondo: innanzitutto vediamo se c’è il fare l’amore. C’è? Probabilmente no, e se c’è è di una noia mortale, perché se non si sente la voglia di darsi baci in bocca figuriamoci quella di congiungersi carnalmente. È evidente che se si fa è un po’ per esigenza fisiologica, un po’ per senso di colpa, un po’ per non rendere l’altro tuo fraterno amico. Non vale contare qualche “bottarella” qua e là.

Idem per il sesso: ce ne fosse, l’amore potrebbe ancora mettersi in dubbio ma con una certezza, che la parte fisica (non fisiologica, esattamente fisica) è rimasta e si sta bene insieme nonostante sia solo sesso. Se c’è solo sesso la storia non è finita del tutto, ma andrà verificato, attraverso la regola del bacio, quanto amore è rimasto. Altrimenti il solosesso non vale, diventa un punto sprecato, per carità ottimo allenamento, esercizio fisico, piacere se accade, ma non altro. Farà rinsecchire ancora di più il rapporto perché, se durante il sesso non si sente amore, alla fine del sesso si sta anche peggio. Parlo di chi si fa questa domanda: ci amiamo ancora? 

Perché ci sono molti che rimangono insieme solo per rimanere insieme, la funzionalità è esattamente nella cosa intrinseca, senza giri di parole. Comincia ad annotare dentro di te le volte in cui si mette a letto con il telefonino, in cui non ti abbraccia, in cui la parte sua è la sua e la tua è la tua, in cui non ti si mette addosso anche solo per dormire. E poi applica la regola del bacio: se non ti bacia più, se dimentica di farlo, se ti dà in caso bacetti sulla fronte, se non tira fuori la lingua, stop. Non ci pensare, prendi l’ascia e lascia. Vuoi confrontarti con il tuo partner? Benissimo. Periodo di prova? Anche meglio. Dopo qualche tempo, si tornerà esattamente al punto di partenza, come in un esecrante gioco dell’oca. 

Romina Ciuffa, 27 aprile 2025

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SI FACCIANO PENSIERI LUSSURUOSI

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SI FACCIANO PENSIERI LUSSUOROSI. Quando passano gli anni, com’è la sessualità? O meglio, è d’uopo sentirsi in colpa o strani o meno innamorati perché i rapporti sessuali non sono più come una volta? Questo accade a tutte le coppie ed è totalmente normale. L’uomo per selezione naturale a un certo punto dovrebbe andare a caccia, una volta che ha messo incinta la partner dovrebbe continuare la sua opera di procreazione, secondo il darwinismo; la donna dovrebbe fare la mamma e, fino a che è in tempo continuare a procreare, biologicamente ciò termina verso i quarant’anni. La Chiesa ha preso questi orari biologici e li ha resi un credo, imponendo così che ogni atto sessuale sia fatto ai fini della riproduzione e bandendo ogni altro tipo di sessualità, anche nelle righe del proprio feudo nel quale però ciò non rispettato, essendo molto comuni e noti gli atti omosessuali fra soggetti ecclesiastici di ogni tipo e livello.

La risposta è: sì, è normale che a un certo punto rapporti diventino occasionali e ci sia meno voglia di rapportarsi all’altro e con l’altro. Gli uomini in questo caso spesso e volentieri tradiscono, le donne possono tradire, la maggior parte finirà per guardare il soffitto e passare il tempo in altro modo ma con un groppo alla gola, con la noia esistenziale, con l’autostima crollata. Quando c’è amore a questo potrebbe ovviarsi, ma nelle coppie datate (anche solo un decennio è sufficiente per invecchiare enormemente la coppia, soprattutto quando non v’è un progetto più amplio, come l’avere dei figli) è assai naturale che il sesso divenga quasi un tabù e non solo non si faccia più ma anche non se ne parli più.

Chi ha più prudenza l’adoperi: tale problema porterà senza dubbio alcuno al tradimento di una delle due parti e ancor più spesso, con o senza tradimento, alla fine della coppia. È necessario mettere subito nero su bianco e parlare dell’assenza di sesso, provare ad aggiungerlo nuovamente, non fare finta di niente come è d’uso fare. Se possibile, economicamente e mentalmente, si può ricorrere a uno psicoterapeuta di supporto, ma non è obbligatorio. Ciò che è obbligatorio, invece, è prendere atto dell’assenza di amore sessuale, della discesa del tatto negli inferi, della “fratellizzazione” della coppia, e tornare a toccarsi senza dire più a se stessi: “Mi sembra di stare con mia sorella”. Non è così, ci si impegni, si facciano pensieri lussuriosi. L’amore sessuato non è una bazzecola, deve essere sempre presente, se ne deve parlare, si deve fare, deve coesistere, senza vergogna; il non sesso è la prima causa di fine di una storia, non lasciamoci confondere dai ragazzini che girano per casa.

Romina Ciuffa, 26 aprile 2025

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L’AMANTE IMPAURITO DEVE PARLARE

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L’AMANTE IMPAURITO DEVE PARLARE. Quando divampa un incendio, le cicale cessano di frinire e di riprodursi. Così l’amante impaurito che scivola nella paura dopo un incendio d’amore cessa le proprie attività principali, il disagio può essere tale da trasformarsi in panico e impedire di compiere le azioni basiche, da un episodio possono derivarne altri, e in molti casi è facile che, se la causa non venga rimossa, si configuri un vero e proprio disturbo da panico, in grado di rendere la vita impossibile. Non è un caso raro, quello in cui dalle incomprensioni amorose emerga una patologia più grave nella coppia, un disagio che da poca cosa diviene solstizio di inverno, insormontabile ostacolo che arreca danni inimmaginabili. L’incomprensione qui può prendere due strade: la prima, un ulteriore allontanamento fino alla decisione di sospendere o terminare la storia; la seconda, un riavvicinamento e, nei casi migliori, l’interruzione dei sintomi negativi.

Certo è che se la paura inizialmente può essere complice, in quanto sottolinea ciò che nel rapporto non va e invita la coppia ad affrontare il problema perché non si inasprisca, successivamente, ingrossata e trasformatasi in altra bestia, diviene una nemica dalla forma maestosa di un incontrollabile panico che si presenta in momenti imprevedibili e senza apparente ragione. È qui che la comunicazione perfetta è necessaria, che i due partner devono saper controllare i propri linguaggi e sconfinare in un paralinguaggio che sia di tenerezza ed affidabilità ma, soprattutto, garantire fiducia perché chi soffre di quelle paure non sia anche sobillato di un senso di colpa e di terrore per lo stesso fatto di soffrire di paura, consapevole di rovinare la relazione e attribuendo a se stesso una responsabilità che è di entrambi, se è vero che una coppia è l’insieme di due. È nella depressione, nel panico, nel dolore che la coppia, o la parte della stessa che resiste ed è in questa circostanza più forte, deve farsi forte perché è proprio ora che si verifica quel momento di cattiva sorte che è invocato quando i due si giurano amore eterno – il quale sappiamo non essere del tutto possibile ma, almeno, che sia perseguibile. Se l’amore è incompreso, se le parole non hanno più valore a causa delle interpretazioni, se il senso del tutto è mistificato, i due sono divenuti altro e, perché la paura cessi e con essa i malintesi, o si riporta tutto per iscritto o la volatilità delle conversazioni si trasmette al rapporto, ed è il caso che esso stesso si volatilizzi.

La comunicazione diviene, ora ma sempre, la chiave d’oro di una relazione, in grado di aprirla e di chiuderla. Non c’è rapporto che non debba tessere nella propria tela parole importanti, comprensibili, efficaci; sono queste ed il loro effetto che propagano l’amore consapevole e potenzialmente eterno. A qualunque punto sia la relazione, in qualunque momento, nel bene e nel male, se si aggiunge comunicazione efficace il dado è tratto, tutti i problemi sono risolti. Spesso della comunicazione bisogna comunicare, bisogna farne metacomunicazione quando i due partner non seguono facilmente lo stesso linguaggio; dopo tale accorgimento e sebbene con più fatica di altri, anche la coppia più difficile riuscirà a controllare il tempo e l’amore. L’amante impaurito è chiamato a comunicare e a chiedere comunicazione, sperando che dall’altro lato gli sia data; solo così potrà smettere di avere paura dell’altro e tornare ad amarlo facilmente.

Romina Ciuffa, 25 aprile 2025

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IL BLUFF DELL’AMORE

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IL BLUFF DELL’AMORE. Questo blog è sull’amore patologico, di conseguenza tratta temi complessi e difficili che toccano il cuore e il cervello pensante di ognuno di noi. Non c’è chi nel mondo non abbia vissuto anche solo un attimo una patologia in amore. La differenza fra amore patologico e amore non patologico sta nel senso di angoscia che si porta dentro continuamente, come fosse una zavorra che necessariamente deve stare sulla mongolfiera perché questa non si allontani troppo. Chi lo prova se per certo che, se mollasse quella zavorra, potrebbe volare e cogliere destinazioni infinite, ma non vuole. Vuole stare a guardare il solito panorama, anche se desertico o allagato, anche se non più dolce come un tempo, pur sempre la sua comfort zone che fa sì che tutto sia collocato a formare il puzzle che adesso ha in mente. Sa, però, che appena superato l’angolo potrebbe esserci un Nuovo Mondo, altrettanto difficile ma probabilmente migliore quantomeno per l’essere nuovo. Sa che questo di adesso è un bluff d’amore, ma non riesce ad andare oltre, non riesce a fare il salto, non riesce a lanciare la zavorra.

L’amore è sempre stato concetto complicato, capirlo o non capirlo è irrilevante perché prima o poi (comprensivi o meno) ci passano tutti, anche i più chiusi. L’amore è per tutto, per le cose, per gli animali, per le persone, e prende sempre delle forme differenti, spesso sbagliate, attraverso le quali guardare la vita. Consiste, infatti, nel filtro che mostra tutto dalla sua prospettiva, spesso una mascherina sugli occhi che chiude il senso della vita all’interno di un piccolo spazio che si suole ritenere gigante ma che, invece, è semplicemente minuscolo. Vero è che l’amore fa scalare le vette, fa vedere lontano, aiuta, ma tutto questo al costo di non riuscire più a determinare la vera essenza del sé.

C’è chi, però, preferisce il sé all’altro, in tal caso sarà più facile per lui mollare la presa o rimanere da solo per la maggior parte del tempo. Si chiama a volte amor proprio, altre egoismo, altre attitudine. Non è né giusto né sbagliato. C’è poi chi, da una prospettiva a 180 gradi rispetto all’altro, si determina nel completo opposto, così non sa stare solo e vive per stare con l’altro, purché l’altro ci sia, con gli altri qualunque, si chiude in storie d’amore impossibili, soffre, non sa gestire la propria vita nel senso di completarla con se stesso. Solo dopo tale completamento, infatti, sarà possibile accedere all’altro senza gravi ripercussioni,

Le altre gradazioni d’amore si collocano tra lo 0 e il 180 e tra il 180 e il 360, in punti differenti del globo psicologico che li rende più o meno dipendenti dall’amore o dalla solitudine. La solitudine non necessariamente è il contrario dell’amore, spesso lo completa. In tutti quei gradi nei quali il sé si espleta tra star solo e dipendere dall’altro, l’individuo geme. L’amore è stupendo, questo è vero, ma non lo è se si intende per amore una scelta obbligata, se si definisce zitella o scapolone chi non lo sceglie o non ne è scelto, se si legge con un’accezione negativa la posizione del solitario. Ciò che ci incatena è proprio il dramma sociale, la convenzione che vuole che tutti gli esseri umani in ogni parte del mondo (o quasi) siano assoggettati a un pensiero qualunque, già registrato come unico pensiero corretto, quello che definisce necessario l’accoppiamento, che sostiene che l’individuo debba riprodursi all’interno di una coppia, in caso contrario sarà giudicato, rigettato, in alcuni luoghi anche giustiziato. L’amore deve saper fare il lavoro che è chiamato a fare, non altro, non sostituirsi ai giudizi, non incamerare sofferenza, ma non segue le regole, non collabora: è un pessimo aiutante. Per questo, prima di lasciarsi interamente comandare da lui è necessario imparare a vivere la solitudine da tutto, quella che si esprime solo dentro di sé e fa chiudere gli occhi serenamente, senza l’angoscia del vivere. Solo in seguito l’amore potrà dare i frutti sperati, quando ci si accorga che esso non solo non è necessario, ma non è nemmeno totalmente buono, e che se ne può fare a meno. Allora, potrà non farsene a meno.

Così, in questa puntata sull’amore patologico invito chi ama a comprendere l’apporto dell’amore nella propria vita e a cercare di spostarlo dai 360 gradi e dai 180 su tutti gli altri gradi del cerchio, perché possa lasciare spazio alle altre attitudini e non soffocare completamente chi lo prova. Chi lo prova, allora, potrà finalmente rendersi da esso indipendente e, da allora, potrà definire l’amore un compagno solerte ed attento, non una piaga dalla quale dipendere e all’assenza della quale sentirsi persi in un mondo che gestisce l’amore e lo quota in Borsa. E in Borsa, più che altrove, è fondamentale non cadere nel bluff.

Romina Ciuffa, 23 aprile 2025

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MI ODI O MI AMI?

Ti amo o ti odio? Ti amo. Mi odi o mi ami? Mi odi. Va bene così, posso aspettare, posso provare, posso cambiare. Ma anche tu lo farai?

Non sempre è così semplice dare la risposta a questo interrogativo interno. Molte volte l’amore si trasforma in odio ma noi non riusciamo a riconoscerlo come tale, ed è un odio innamorato che non può più andare avanti. Le dinamiche nella coppia sono compromesse, è difficile per entrambe le parti confrontarsi con se stesse e tornare a trasformare l’odio in amore, cosa assai difficile, o l’odio in nulla, che è ancora più difficile: lasciarsi.

Il contrasto tra questi due giganti sfocia in una dissonanza cognitiva fortissima e porta la persona «innamorodiata» a resistere sperando che l’altra finalmente torni ad essere se stessa, ma la parte che odia non potrà più. Si innescano meccanismi talmente dolorosi da non lasciare scelta alla coppia se non di lasciarsi, e con rabbia, odio, ricordando poi questa relazione come la più brutta. In essa si impongono le stesse dinamiche della violenza: non è difficile trovare, tra queste persone, alcune che dicano che nella coppia si sentono come se avessero un «marito violento», per gli abusi a cui sono sottoposte. Chi odia a volte lo sa, tante altre volte non se ne rende conto e attribuisce tutte le colpe all’altro. Solitamente tale emozione si rinviene in entrambe le parti, è assolutamente speculare e si ciba dell’altro.

Qualunque cosa il partner dica non va bene, si interpreta, si passa il tempo insieme a compiere azioni emotivamente scellerate per far cadere l’altro e poter dire «ho ragione, vedi?», in un gatto che senza fine morde la propria coda, prima smagliante, ora spiluccata. Odi et amo, sono due sentimenti così simili sia pure di diverso colore, di opposto segno, tanto da rendersi spesso indivisibili. Quando l’amore diviene odio, o prevalgano in lui tali elementi, bisogna lasciare ma lasciare è l’unica cosa che non si riesce a fare, non per masochismo quanto per l’impossibilità di ammettere a se stessi che una storia, prima bella, possa finire in questo modo. Ma la storia è finita, e non si vuole lo sia, ci si aggrappa come a una zattera di vetri appuntiti in mezzo all’oceano in tempesta.

A questo punto, ci vuol amor proprio, va trovato. «Amor sui» è sapere chi si è e, nonostante questo, lottare per essere comunque se stessi. Autoaffermazione del sé naturale, un omaggio alla vita attraverso la «cura sui», può coincidere con un processo di guarigione che restituisce all’individuo autostima ed una forma a sé stante di egoismo bonario. Tale atteggiamento potrebbe mal interpretarsi per via di una morale falsata che giudica chi, pur di mettere se stesso al primo posto, si disinteressa dell’altro, restituendo una presenza dell’uomo individuale nella società, anche per il tramite di un’interpretazione di base cattolica, secondo cui un comportamento che non dà priorità all’amore spirituale è inteso come immorale. L’egoismo dell’amor proprio non è l’egoismo che il sostantivo che lo descrive evoca, non si contrappone all’altruismo. L’uno, infatti, non esclude l’altro, anzi lo premette e lo permette; non implica una predominanza sull’altro né ragioni etiche o moralistiche per declassarlo; è il riconoscimento della propria persona come entità distinta dagli altri, il torsolo dell’essere umano.

Amor proprio è ciò che consente di amare l’altro con lealtà e completezza. Una delle prescrizioni più ascoltate tanto in psicoterapia quanto nella società è quella che indica di amare prima se stessi se si vuole amare l’altro, invito ad accettarsi e ad accettare per prime le cose positive che la vita può dare, a costo di negarsi le emozioni forti del dolore e ripudiare gli amori difficili. In questi termini, l’amor sui appare collegato al senso della vita. «Via, fuggi!», ripete l’amor proprio, e in pochi ne seguono il consiglio. A questo punto, si capisce come l’amor proprio sappia dare, se non ascoltato, ferite perfette.

Continuerò a parlare dell’amor proprio, per oggi basta così.

Romina Ciuffa, 22 aprile 2025

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COME SI FA A LASCIARE?

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Come si fa a lasciare? Esiste un manuale? C’è chi ci riesce di più, chi di meno, i primi lo fanno qua e là senza porsi il problema, capendo immediatamente che una storia non va e altrettanto immediatamente decidendo di non volere perdere tempo; i secondi non lo fanno né qua, né là. Lasciare è, in effetti, un superpotere e invidiabili sono coloro che lo hanno, che addirittura ne abusano, mentre gli altri si contorcono in amori dolorosi, che li logorano di giorno in giorno. C’è quella specie di dipendenza che va a mettersi tra il dito e la verità: non è più amore, è solo l’antichità del ricordo di cose che non sono più. Siamo cresciuti, come persone e come società, ed ora che abbiamo anche l’istituto del divorzio (a questo link) non dobbiamo necessariamente credere che l’amore sia eterno, soprattutto quegli amori che non ne hanno i requisiti sin dall’inizio, formati sul dolore di storie precedenti o nella piacevolezza di non essere più soli, ma dove gli interessi non sono comuni, le modalità di comunicazione sono estremamente diverse, i punti di vista sono contrari. L’amore non è eterno. Anche l’eternità è un superpotere, e in una sfida tra supereroi si scontrano Eternità e Fine per dare vita ad un nuovo capitolo, quello del restare o quello dell’andare. Dolore è per alcuni un toccasana, una canna di bambù attorno alla quale esso si avvita come una pianta per crescere e invadere del tutto la persona dolente che, abituatasi a questa presenza, la vuole sempre nella sua vita, complice un attaccamento instabile. Chi è in grado di sradicare questa pianta dal suo vaso può invadere nuovi mondi e tornare ad essere se stesso, in quella pace che si sente solo dopo una guerra, il fumo dei corpi caduti, i cavalli abbattuti, Amore finito, Dolore finito. Chi non ne è in grado, è spacciato.

Nei casi di dipendenza Dolore va, con coraggio, identificato con Amore, che tiene le sue redini e fa e disfa a suo piacimento. Quando regna Dolore, Dipendenza è nella casa e tutto viene chiamato con il suo nome: fare colazione insieme è Dipendenza, guardare la tv insieme è Dipendenza, sentirsi è Dipendenza. Dipendenza invade e permea tutto con le sue estremità urticanti e non consente a chi la sperimenta (di solito accanto ad un co-dipendente) di eliminarla. Sono urla che si gridano in silenzio all’interno dei sogni, la notte, quando l’altro dorme e Dolore si presenta più grande, più forte. In quei momenti, predomina il superpotere del restare mentre si vede l’altro inerme dormire accanto a sé, si sente la piacevolezza del suo zittirsi, la forza della sua presenza, il ricordo dei momenti dell’amore. Accade tutto questo mentre dentro c’è un fegato che batte più del cuore, che sa di non potere ancora un giorno resistere alle intemperie, sa che il suo malore proviene da quel gigante inerme. Poi arriva il giorno, e con il sole Dolore è più stringente, lasciare è il superpotere che la notte dovrebbe aver portato, eppure ancora non c’è. Lasciare non è cosa da poco, presuppone un’assenza-mancanza che è assordante. Essere lasciati è meglio, così molti «si fanno lasciare» – li dicono codardi, sono solo il risultato di una enorme paura, una strategia intelligente che, alla fine, non è poi così sbagliata: purché colga il punto.

Ecco così che la storia d’amore si trasforma in una storia di dolore, che non salva nessuno dei due partner seppure uno tenda a predominare. Non appena si tira troppo la corda, si teme di cadere nell’oceano del «senza di lui», un timore-terrore che non dà scampo. L’amore che si prova l’uno per l’altro è ormai troppo ricoperto di erbacce e foglie secche, tanto da non poterlo più vedere, sentire. Scappa un «ti amo» non appena ci si sente fragili, e questo dire è alla base di tutto, è ciò che manda avanti tutte le altre cose, riempirsi la bocca di questo è sentirsi immensi, pieni, e non ci si vuole rinunciare. Il dolore di amare coinvolge integralmente il dipendente affettivo – che non sa né può lasciare – in un cataclisma distruttivo: ogni qualvolta lo sguardo dell’amato si posi su altro, una parola di troppo o una parola di meno, una qualunque azione od omissione, egli è stravolto, non è paziente, non capisce, non perdona, è lupo ed agnello e tenta di nascondere l’incontenibile angoscia con altre azioni quali scenate di gelosia, litigate, sfuriate. Spesso si vergogna del suo stesso problema (che riconosce) e lo camuffa, mentendo. Per questo, è in grandi linee considerato un «pazzo» (e tale si considera), la sua autostima crolla. Dal canto suo, il controdipendente non riconoscerà l’angoscia che l’altro prova, concentrato a placare l’ira che quello per ogni cosa apporterà nel rapporto, e si convincerà che il suo partner sia solo molto nervoso, geloso, possessivo, esagerato, traendo forza narcisistica da questo, ma non per forza adocchierà la sua dipendenza e riuscirà a darle questo nome. Ne sarà divorato e non potrà aiutare se stesso o l’altro se non con l’estrema misura del porre fine alla relazione, se lo sa fare.

Chi non ha provato mai dipendenza o sentito la sua presenza all’interno di una relazione? Chi, nei dissidi con il partner, non si è domandato «perché non lo lascio?» rispondendosi «giammai»? Chi non ha amato a tal punto da sentirsi vincolato, stretto, apprensivo – chi, in breve, non ha mai provato, anche per un solo istante, la paura dell’amore tossico o l’amore tossico stesso? E chi, riconoscendolo in tempo, ha saputo mettere sé al primo posto, l’altro altrove? Eppure la tossicità rende l’amore una cosa immensa, primordiale, meravigliosa, piena di contraddizioni ma pur sempre piena. Colui che ha sperimentato l’amore tossico sa che sarà proprio quello l’amore che ricorderà. Essere proprietari legittimi di un amore tossico conferisce dei diritti sul dolore e sulla sofferenza, ma anche sulle emozioni più elevate, l’avvicinamento ad un sentimento celeste che rende giustizia allo sforzo umano di combattere avverso le difficoltà, senza rinunciare all’altro ma impegnandosi perché sparisca la dipendenza, la tossicità che riduce chi la prova ad un rubinetto che sgocciola, e resti solo quell’invidiabile, grandissimo amore, ma spurio.

Nel mito l’amore nasce da una ferita inflitta da Zeus a certi esseri tondi che si univano solo con la Terra e che, spezzati in due, per necessità cominciarono ad accoppiarsi tra loro come due metà con l’aiuto del dio Amore per sentirsi nuovamente interi, dunque per bisogno. Così la dipendenza di quelle figure mitologiche si trasmette all’umanità. Il mal d’amore della dipendenza è assunzione costante di droga, in questo caso di sostanze psichiche e corporali: serotonina, dopamina, ossitocina. Si sfama anche di urla, gelosia, possesso. Servono maggiori quantitativi di dosi e si finisce in circoli viziosi che ripiegano sempre nelle stesse dinamiche, tornando al punto di partenza; si cerca l’immediato alleviamento della tensione attraverso la presenza del partner, il suo occhio fisso su di sé, non si riesce ad uscire dal rapporto anche nei casi più gravi, un tradimento è consentito perché porta a riaffermare la forza della coppia. La temibile caratteristica del rapporto è il «craving», la forte brama di possedere l’altro in modalità «binge», grandi abbuffate che fanno stare bene come quando, nella notte, si apre il frigo e si divora ciò che contiene. Però non si lascia.

Imparare a lasciare andare è uno dei compiti più complessi dell’essere umano, che trova negli altri più che in se stesso ragione di vita. Lasciare chi si è amato è davvero quel supereroe destinato non a tessere una tela, come Spiderman, bensì a sfasciarla per poter ricominciare in un luogo più pulito, più sano, quello dove Dolore non c’è. Bisogna farsi aiutare, e farlo, anche se c’è Amore. Il primo periodo sarà orrendo, come nell’astinenza da droga, ci si chiuderà in se stessi, si proveranno attacchi di panico, si prenderanno benzodiazepine, ci si torturerà ogni minuto; lo saranno anche il secondo e il terzo periodo, tutto sembrerà infinito e insormontabile. Ma, piano piano, questo lascerà il posto ad una nuova vita dove dirsi «io non amo più» e sentire, finalmente, la mancanza di Amore, quella che si voleva sentire, la mancanza di Dolore, un moto di Libertà che restituisce un sé rinato, sì sofferto, addolorato, straziato ma pronto a stare da solo. Per un po’ o per sempre.

Romina Ciuffa, 20 aprile 2025

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DIVORZIO: LE FANTA-NOZZE, UN GIOCO DA TAVOLO

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IL FANTA-NOZZE DELLA LEGGE SUL DIVORZIO. L’amore eterno esiste? Non se esiste il divorzio: esso legittima più amori e rende la vita più facile. L’amore finisce anche solo perché Darwin lo ha ritenuto il meccanismo di selezione della specie atto alla riproduzione. Ci piace dire che l’amore è eterno perché abbiamo paura della solitudine, di morire da soli, anche di vivere da soli. Fare i figli in realtà prescinde totalmente dall’unione, è possibile procreare anche senza conoscersi, come fanno gli animali o con l’aiuto della scienza. Tutto questo è, oggi, largamente ammesso nel mondo occidentale. Se, prima, al matrimonio poteva succedere solo il matrimonio, giacché il divorzio non era consentito, in Italia le istanze sociali si andarono rispecchiando nei loro rappresentanti attraverso l’asserzione dello stesso legislatore che, prendendo atto dei limiti della coniugalità, nel 1970 scrive la legge n. 898 (anche detta Fortuna-Baslini) contenente la disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, riconfermata dai risultati del referendum abrogativo del 1974 facendo crollare, così, uno dei più grandi capisaldi della concezione di famiglia italiana, oramai appannaggio della sola Chiesa: l’eternità delle nozze. Sono crollati con esso anche i sensi di colpa? I tempi moderni hanno accolto, in tutto il mondo, l’idea di un’unione non eterna, che possa essere sciolta proprio come la si è creata. Solamente due Paesi nel mondo occidentale ora non consentono di divorziare: Città del Vaticano, per le ragioni che non è necessario esporre, e le Filippine, nelle quali il percorso verso una legge divorzista è già iniziato.

In via generale, i matrimoni eterni sono durati fino alla legge sul divorzio o fino a che i valori non sono cambiati? Ovvero: è stata l’istituzione del divorzio a far sì che i valori cambiassero rafforzando la volatilità dell’unione coniugale, o le nuove generazioni hanno portato a galla la già presente necessità di poter sciogliere il vincolo coniugale che, in quanto esistente, è stata vista e regolamentata? È nato prima l’uovo o la gallina? A ben vedere, la legge divorzista è stata invocata da molti, ma non da tutti (tanto che nel referendum abrogativo la vittoria dei divorzisti avvenne per un pugno di voti in più). In quegli anni, le coppie (quelle dei nostri nonni e dei nostri genitori) «erano abituate a non lasciarsi», si legavano saldamente e trovavano giocoforza soluzioni ai conflitti che, immancabilmente, si verificano in una relazione. Dopo la formalizzazione del divorzio (in Italia come altrove) si sono viste sempre più coppie sfaldarsi: ma quanto si sono sforzati i partner di mantenersi solidi insieme, cercando soluzioni?

Quanto si è pensato, prima di sposarsi, all’opportunità di farlo? Con l’arrivo del divorzio lampo – istituito in Italia nel 2015 per consentire di divorziare decorsi un anno dalla separazione, nel caso giudiziale, o sei mesi, nel caso consensuale – è risultato ancora più semplice lasciarsi, senza dover affrontare lungaggini che, nell’ambito della coppia, risultavano ostiche (una fra tutte, il tentativo di riconciliazione). Ciò ha, probabilmente, incentivato un vero e proprio «mercato delle coppie» – sul quale ben si riflettono i gossip dei famosi – in cui esse, unendosi e sfaldandosi, turnano e ruotano in un gioco di matrimoni e divorzi fra diversi soggetti in successione, portando alla luce anche il tema del mantenimento e della cura dei figli, dinamiche che sembrano corrispondere ad un gioco da tavolo, un «fanta-nozze».

Il matrimonio è diventato, così, «un» contratto tra i molti che possono stipularsi nel corso della vita; il primo, il più importante perché più ingenuo, può durare per un periodo iniziale corrispondente alle età di crescita dei figli avuti in comune; i successivi avranno una durata mutevole e potranno essere vari, anche forieri di ulteriori figli. Si veda, allora, come si è tornati alla funzione economica del matrimonio: come secoli fa, anche adesso l’essere umano è potenzialmente monogamo fintanto che uno dei due partner si occupa della famiglia e l’altro è protetto durante la gravidanza, lo svezzamento e la prima fase dell’educazione – ciò vale, mutatis mutandis, anche per le unioni omosessuali con i mezzi che hanno a disposizione per la genitorialità. Prevedendo la possibilità di interrompere il patto formale, si è scelto di dare uno stop formale all’amore formale: la scala che si è percorsa insieme porta, in questi casi, a un piano terra dove è possibile ricominciare, a una nuova era per entrambi.

Sembrerebbe di poter rispondere alla quaestio qui mossa – chi è nato prima – che l’istituto del divorzio ha costituito la richiesta di una società che già non accettava si disponesse solo in un senso del proprio diritto (liberi di unirsi sì, e allora perché non di separarsi?) perché sentiva, nelle proprie maglie, l’esigenza che la firma non fosse messa col sangue; nel contempo, proprio la possibilità di separarsi ha fatto non solo separare molti, ma anche sposare: infatti, sapendo di non dover più avere un tempo infinito matrimoniale, gli stessi matrimoni sono stati incentivati e così, come un gatto che si mangia la coda, la legge sul divorzio ha creato più matrimoni che hanno creato più divorzi. Postilla: parlare di valori qui non equivale a dire che matrimonio uguale valore positivo, divorzio uguale valore negativo. Un sistema valoriale completo include tanto l’unione quanto la fine dell’unione: con l’ammissione del divorzio si ottiene, pertanto, un sistema valoriale più ricco, che riflette le esigenze della società e, dunque, includendo il divorzio, lo ammette tra quelle.

Se, nonostante la possibilità di divorziare, la coppia non si sfalda, rimane unita – vuoi per assenza di gravi dissidi interni, vuoi per l’impegno di entrambi nel risolverli, vuoi per la paura di rimanere soli – ed arriva, così, alla vecchiaia, si sperimenterà una forza spesso più perentoria e incisiva di quell’amore romantico che si credeva abbandonato tanti anni prima, destinato a tornare proprio in veste di amor maturo e, a maggior ragione, amore anziano, libero dalle incertezze e dagli sgomenti giovanili. A un’età più avanzata, l’amore può ritrovarsi o riprovarsi anche per un’altra persona, mettendo in discussione la propria vita e avendo un nuovo approccio col sesso che, in effetti, non viene meno. Si invidiano, forse, i nonni che hanno saputo trascorrere l’intera vita insieme, spesso dandosi ad un partner unico: la loro pazienza, il senso della continuità, la consapevolezza, le certezze, la compagnia e l’essenza dell’altro, tutte virtù che accompagnano l’amore camaleontico, che muta forma e colore nel corso degli anni per adattarsi ai cambiamenti dei due partner, della famiglia, della vita, delle età. Non è poi così male stare insieme per sempre, ma non lo è nemmeno stare da soli.

Romina Ciuffa, 19 aprile 2025

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RIPENSARCI COME I CORNUTI

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RIPENSARCI COME I CORNUTI. Il mio ginecologo tempo fa mi ha detto: «Se ti ha tradito, chiudi subito»: aveva ragione. «Ma io l’amo!», ho risposto io mentre lui ritirava l’ecografo con un colpo secco. Una volta fuori dal suo studio, ci ho ripensato «come i cornuti» ed ho immaginato di essere tradita. Ho replicato dentro di me le vicende di un tradimento per immedesimarmi nel tradito: mi si è gelato il sangue. Ho riflettuto attentamente sino a giungere ad una conclusione, forse azzardata, ma di effetto certo: scoperto il tradimento, bisogna tradire per pareggiare. Solo dopo aver «pareggiato» il tradito troverà conforto e potrà avere un confronto alla pari. Perché applico la legge del taglione? Il livore può essere tale e giustificato nel tradito da non consentire più un dialogo fra i due: il tradito «odia». Per quanto possa apparire immaturo, ribattere con un colpo alla pari (nella metafora o fuor di metafora) è una soluzione eccellente per il tradito che si pone, così, «allo stesso livello» dell’altro, pareggiandosi per far cessare il doloroso stato di dissonanza cognitiva ed emotiva in cui versa. Se ieri commentavo che l’indifferenza è uno sgambetto, non un pugno (a questo link), oggi dico: il tradimento è un pugno, non uno sgambetto, e con un pugno è necessario rispondere. Boxe, è la base per ricominciare. Ora procediamo a parlare dell’altezza.

Se si è traditi si ha un’alternativa al tornare insieme che è molto plausibile e, nella maggior parte dei casi, necessitata: provare rabbia e con l’uso di essa lasciare subito. Perdere tempo, prorogare, temporeggiare non fanno che consolidare una dipendenza. Il traditore punta il dito contro il tradito e sembra che sia quest’ultimo a dover chiedere scusa: non è così. Non serve fare l’inventario delle colpe o imputare l’azione alla monotonia stagnante del rapporto: l’assenza di lealtà ha, ormai, logorato per sempre il rapporto, perché nessuno cambia davvero, l’infedele continuerà a mentire, tradire, incolpare. Dare un colpo d’ascia, inutile fare un patchwork con i pezzi rimasti della relazione, ne verrà una coperta che non arriva ai piedi. Ammetto di essere drastica sull’argomento, molti direbbero di avere una mentalità più moderna poiché accettano il tradimento e ammettono relazioni aperte. Anche io le ammetto, quando concordate. «Un tradimento, che sarà mai?», commentano alcuni quando non sono loro ad essere traditi. Lealtà è la parola chiave per accettare anche la modernità più estrema.

Il tradimento in sé e per sé non è mai causato dal tradito se non nelle narrazioni di eteroattribuzione, dove il traditore legittima il proprio atto come fosse ineluttabile: l’azione del tradimento ha una causa a sé stante, che è l’intenzione del tradimento e che si rinviene nell’atto stesso dell’ingannare, non altra, prescindendo dalle motivazioni fattuali e dalle circostanze espresse nella coppia. Anche quando confessa il tradimento, l’infedele sta manipolando l’altro poiché, pur essendo sincero, non è leale, e confessare gli serve a scaricare le proprie angosce, i sensi di colpa, le responsabilità sull’altro. Lo scaricabarile che il traditore compie costituisce un secondo tradimento. Negli abissi di una solitudine nascente e improvvisamente tanto palpabile per il tradito, un pendolo tra odio e perdono si tradurrà in paura e insicurezza dinnanzi a una relazione dai caratteri ormai indefiniti e incerti che grida: «Avreste dovuto lasciarvi prima!».

Fuggire! Chi mente una volta può farlo sempre. Chi tradisce una volta può farlo sempre. L’arte del mentire è proporzionata all’opportunismo del volere mantenere una relazione stabile da un lato e, perché quest’ultima funzioni, una relazione adultera dall’altro, quando questa non si esaurisca dopo la scoperta. Nel mio libro AMORE MIO TU SOFFRI ho parlato delle possibilità che il tradimento dà per una reidentificazione delle due parti della coppia, tanto da poter essere, in rare circostanze, anche foriero di buone conseguenze, a tratti migliorative dell’amore tra i due. Non voglio rompere le uova nel paniere agli psicologi né tantomeno a me che nel mio libro ho scritto anche dei vantaggi che il tradimento porta alla triade infedele-tradito-amante, ma solo mentre mi immedesimavo nella parte del tradito ho provato panico e angoscia, negli altri due casi ho foraggiato l’evento tradimento, mi sono sentita forte, mi sono sentita leggera. E questo non garantisce la parità ai tre soggetti, rende iniqua la sperequazione al punto da dare un bonus al tradito: tradisca lui ora. Poi basta.

Romina Ciuffa, 18 aprile 2025

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