CATALUNYA VS SPAGNA: NE FACCIO UNA QUESTIONE EDIPICA E NEUROLINGUISTICA

Trovo che la Catalunya sia come un adolescente che, in piena febbre di crescenza, è in freudiana lotta con il padre. E che Madrid sia un classico padre, protettivo ed egoista, nel contempo amorevole, che non vuole dare al proprio figlio l’indipendenza di cui questi ha bisogno per crescere. Come in ogni conflitto intrafamiliare, entrambi hanno ragione: il primo, perché anela a un’indipendenza che gli spetta, voglioso che gli vengano ricosciuti l’individuale esistenza nel mondo, i talenti e le capacità; il secondo, perché come i padri è geloso della dipartita e interessato alla permanenza.

E uno schiaffo dal padre, uno schiaffo da Madrid a Barcellona, è ammesso dall’art. 154 del codice civile spagnolo che, modificato e «intenerito» dalla legge n. 54 del 2007, conferisce ai genitori la facoltà di esercitare la patria potestà impiegando un tratto autoritario in combinato disposto con il successivo art. 155, il cui oggetto è un dovere di obbedienza del minore «a sus padres». Purché non si sconfini nel reato di lesioni dell’art. 147 del codice penale, non giustificate dallo ius corrigendi attribuito al genitore a soli fini educativi, né nel secondo comma dell’art. 173, che fa riferimento all’abitualità di un condotta domestica degradante, fisica o psichica. Per la dottrina, la sberla è ok. Reiterata o violenta, o senza fini di educazione, no.

La Spagna ha il «diritto di correggere», a suon di sberle, la Catalunya?
La domanda pregiudiziale è: che tipo di relazione c’è tra Madrid e Barcellona? La Catalunya è figlia della Spagna?

È una questione storica: l’attuale Catalogna, nel Paleolitico medio pertinenza di greci e cartaginesi, poi parte dell’Impero Romano, quindi insediata dai Visigoti, è conquistata dai Mori e chiamata al-Andalus, organizzata in regni e contee che parlano catalano, aragonese, basco, castigliano-leonese e galiziano, infine inglobata nell’Impero carolingio con buona pace dell’indipendenza. I limiti territoriali del Principato dei «cathalani» vengono definiti solo con il passaggio, sotto la casata di Barcellona, alla Corona d’Aragona. La conquista delle Baleari e di Valenzia, quindi di Sicilia, Sardegna (ad Alghero tuttora si parla catalano) e Napoli, e il passaggio alla Corona di Spagna per unione dinastica, danno respiro ai catalani fino all’avvento della dinastia dei Borboni. È del 1640 la ribellione popolare contro i soldati mercenari nelle case dei contadini catalani prossime alla frontiera. La Repubblica catalana, autodichiarata sotto protezione francese, con la conquista di Barcellona del 1652 perde Stato, istituzioni, leggi e capacità di decisione politica. Nel 1716 il quartiere barcellonese del Born è distrutto e vi viene costruita una fortezza militare.

Con la dittatura del generale Franco – aiutato da Hitler e Mussolini – e la guerra civile, è il tempo di una brutale repressione politica (i bombardamenti aerei su Barcellona sono effettuati dall’Aviazione legionaria italiana con il supporto della Legione Condor tedesca dal 16 al 18 marzo 1938, un bilancio di oltre mille morti e 2 mila feriti). La lingua catalana viene vietata. Il presidente Lluís Companys nel 1940 è fucilato nel castello di Montjuïch. Dopo Franco, nel 1977 è ristabilita la Generalitat con Josep Tarradellas. Il catalano in questi anni è introdotto nelle scuole. Nel 2006 è approvato uno Statuto per via referendaria, ma la Corte Costituzionale ne dichiara l’inefficacia giuridica e nega la definizione della Catalogna come nazione.

Dal 2011 il Partido Popular di Mariano Rajoy governa la Spagna. Il primo ottobre 2017 la Catalunya va al voto referendario senza il consenso del padre, che considera il referendum anticostituzionale e sequestra le urne, taglia i collegamenti ad internet, invia polizia non pacifica, fa «prigionieri» politici. Ma i catalani, quasi tutti, dicono «ens n’anem», andiamo via dalla Spagna. Il «president» Carles Puigdemont chiede un margine di dialogo e negoziazione; Rajoy vuole chiarezza: avete o no dichiarato l’indipendenza?

Ora risponderei alla mia domanda: i catalani sono figli di Madrid, ma d’adozione, e riconosciuti. In quanto tali a loro si applica la norma che non consente al padre di schiaffeggiare oltre una certa misura (educativa) il figlio. Guerre civili e metodi impositivi non sono schiaffi di ius corrigendi ma uso abnorme.

I catalani parlano una lingua propria, che non è un dialetto. Che differenza c’è? Presto detto: la lingua è un dialetto con un Esercito ed una Marina (Max Weinreich). Ossia, il dialetto è la variante di una lingua, una specificità; come tale, si riconosce all’interno di essa. La lingua riflette, invece, l’anima del parlante, distinta dalle anime altrui intese come confluenza di elementi storici, culturali, caratteriali, territoriali, archivio dell’esperienza di un popolo. Il «català», nelle sue varianti locali, distingue il proprio parlante dagli altri anche in funzione dell’influenza psicologica che la costruzione, il modello motorio collegato alla riproduzione vocale e alla scrittura, i cambiamenti strutturali nelle regioni del cervello, la mappatura cognitiva, sviluppano nell’essere umano. La differente reazione neuronale dipende dal fatto che l’apprendimento di una lingua come nativa avviene contemporaneamente all’acquisizione delle conoscenze concettuali e delle esperienze corporee e sensoriali. Un esempio su tutti: per lo psicologo David Meyers i tedeschi, ritenuti privi di humour, sarebbero tali in quanto, nel pronunciare le vocali con la dieresi, inclinano verso il basso le labbra assumendo un’espressione triste, e l’uso che il cervello associa alla tristezza influenza negativamente l’umore.

Caratterizzata da una forma interna che esprime la concezione del mondo della nazione che la parla (Wilhelm von Humboldt), la lingua è «manifestazione fenomenica dello spirito dei popoli: la loro lingua è il loro spirito e il loro spirito è la loro lingua». I catalani non solo si sentono diversi, essi sono diversi. È nella forza spirituale delle nazioni l’effettivo principio esplicativo e la vera causa che determina la diversità delle lingue. Una base, questa, per il principio di autodeterminazione dei popoli interna ed esterna: il diritto di scegliere il proprio sistema di governo e di essere liberi da ogni dominazione esterna. Per il diritto costituzionale canadese (nel caso della secessione del Quebec) ed il diritto internazionale, il principio si applica solo in tre situazioni: ai popoli soggetti a dominio coloniale, ai popoli il cui territorio è occupato da uno Stato straniero, ai gruppi minoritari che all’interno di uno Stato sovrano si vedano rifiutare un accesso effettivo all’esercizio del potere di governo. È questo il caso della Catalunya?

Ho vissuto molti anni a Barcellona. Ho parlato fluentemente il catalano, più del castigliano che conosco come un madrelingua. La madre edipica. Ciò mi ha permesso di avere una visione completa della Spagna, in quanto ho utilizzato le strutture neurolinguistiche del primo e del secondo sistema. Sono sì consapevole che gli interessi politici ed economici entrano in gioco nelle richieste del presidente catalano Carles Puigdemont alla Spagna di Rajoy; sono sì consapevole del fatto che l’Europa tende, pericolosamente, verso una disgregazione. Ma ciò avviene non solo o non tanto per questioni di moneta, prosperità e comando, bensì spirituali: l’adolescente, se non muore, prima o poi compirà 18 anni. A quel punto, il padre non sarà più soggetto alla paghetta e all’educazione, nel contempo non riceverà una percentuale sui guadagni del figlio.

A meno che non vadano d’amore e d’accordo. E così, il primo potrà essere accudito in futuro da un discendente capace e affettuoso, il secondo riceverà un’eredità che lo riporterà nella casa paterna. E il Natale si farà insieme. La Pasqua, però, con chi vuoi. (Romina Ciuffa)

Romina Ciuffa, Formentera (giugno 2017)

BARCELLONA. LA MIA GALLERIA

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LA RAI SPEGNE “BRASIL”, PROGRAMMA DI MAX DE TOMASSI. OSSIA SI DÀ LA ZAPPA SUI PIEDI

Chiude così un’era brasiliana in Italia: quella della Rai e di tutti noi. Max De Tomassi, conduttore storico di “Brasil” su Radio Rai1, comunica la cessazione del programma. La prossima, sarà l’ultima puntata. Lui annuncia l’evento con queste parole:

“Carissimi amici di Brasil,

dopo 17 anni di messa in onda ininterrotta, dal 2001 al 2017, e dopo esser diventato uno dei programmi più antichi e di successo di Radio1 Rai, la nuova direzione chiede a “Brasil” di concedersi un periodo di pausa. Sarò coinvolto in un altro progetto musicale di Radio1 e mi auguro che questo nuovo corso sia di vostro gradimento e che possa crescere e ricevere consensi.

Vorrei ringraziare innanzitutto la Rai, per avermi concesso l’opportunità di continuare questo cammino insieme, con la stessa missione di sempre: divulgare la musica di qualità che ancora sorprenda positivamente e crei emozioni.

Vorrei ringraziare anche voi, miei cari e preziosi radioascoltatori, che avete permesso a “Brasil” di diventare grande, con la speranza che presto, possa tornare e farsi ascoltare su queste frequenze.

Vorrei ringraziare la “mia” squadra: dal curatore Danilo Gionta, colonna portante del programma e ormai appassionato di Brasile, ai tecnici e registi che si sono alternati fino ad oggi la domenica notte e durante le programmazioni estive, dallo staff di Facebook a quello dei miei personali Social Network, che mi aiutano quotidianamente a promuovere contenuti di spessore, dalla mia famiglia ai miei colleghi e amici.

La prossima puntata di Brasil sarà l’ultima del 2017: vogliamo “chiudere” in allegria, perché non esiste viaggio senza ritorno”.

Io lo annuncio con queste. Ciò fa riflettere sullo stato dei palinsesti italiani, sempre meno attenti alle esigenze degli spettatori ed ascoltatori, sempre più presi a fare cassa. Quella di “Brasil”, quella di Max De Tomassi, è stata una (lunga) parentesi di qualità in mezzo a tanto parlarsi addosso, uno dei pochi programmi effettivamente amati ma nel contempo culturali, dove si è potuto apprendere molto: da parte di coloro che seguono attivamente il Brasile, e da parte di chi, proprio attraverso “Brasil”, ha potuto conoscerlo. Uno dei pochi media in grado di dare la vera informazione sul Brasile, che da tutti è stato usato per fare audience e lettori attraverso notizie massificate e falsate. Attraverso Max De Tomassi si è potuto ascoltare il Brasile così com’è e, soprattutto, viverlo. Per saperne di più, la mia intervista: https://www.rominaciuffa.com/max-de-tomassi/.

Sento di non poter dire altro, oltre ciò che ripeto in ogni mio articolo, ovunque, sulla obesità della comunicazione in Italia. Sento di dover, questa volta, per un attimo tacere (ma tornandoci in questi giorni sopra). Ascolteremo De Tomassi, e la sua attenta e definita voce – mai un errore, mai un tono di troppo – nel suo nuovo programma. Ma ci muoveremo per portare, ancora e insieme, il vero Brasile alla portata di tutti. A portata di “riomano”.

Intanto, grazie Max De Tomassi per averci insegnato con le sue parole, alla Tom Jobim e mettendolo in pratica, che “il Brasile non è per principianti”.

Romina Ciuffa




LA ROMANIA È UN PESCE, MA SE QUELLO CHE HAI È UN MARTELLO TUTTO TI SEMBRERÀ UN CHIODO

 

LA PREFAZIONE AL MIO REPORTAGE IN ROMANIA. Se quello che hai è un martello, tutto ti sembrerà un chiodo. Se in Italia abbiamo romeni che si distinguono per criminalità – lo dichiarava in aprile anche l’esponente M5S Luigi Di Maio («L’Italia ha importato dalla Romania il 40 per cento dei loro criminali. Mentre la Romania sta importando dall’Italia le nostre imprese e i nostri capitali. Che affare questa UE!») – finiamo per dimenticare che siamo «figli della stessa lupa». Questo il titolo di un libro di Antonio Grego, che sottolinea i legami storici, politici e culturali tra le due nazioni, e ricorda come la Romania sia stata un’area di sbocco dell’emigrazione italiana, proveniente in particolare dal Veneto e dal Friuli Venezia Giulia a partire dalla fine dell’Ottocento, per lavorare nelle miniere, nei cantieri delle ferrovie, nell’edilizia. Migrazione: gliela dobbiamo.

Ma noi ricordiamo solo il pareggio Italia-Romania nei mondiali di calcio del 2006. Ricordiamo «Frankenstein junior», capolavoro in bianco e nero del regista Mel Brooks, che narra le vicende di Frederick Frankenstein, nipote del famoso dottor Victor von Frankenstein, recatosi in Transilvania a riscuotere l’eredità di un castello, parodia del «Frankenstein» di Mary Shelley. Ricordiamo la leggenda di Dracula, sulla quale Bran e i villaggi limitrofi hanno lucrato dopo che lo scrittore Bram Stoker (1897) ha ivi ambientato la storia del voivoda Vlad III di Valacchia (1431-1476), pur essendo altro il maniero del principe noto come l’Impalatore (figlio di Vlad II, investito dell’Ordine del Dragone, da ciò gli derivò il nome Draculea, figlio del Dragone o – «drac» – del demonio).

Il Bâlea Lac, la finestra della suite del Cabana Bâlea Lac

E ricordiamo, più di ogni altra cosa, Giovanna Reggiani, 47 anni, uccisa il 30 ottobre del 2007 dopo essere stata violentata e massacrata a Roma, nei pressi della stazione ferroviaria di Tor di Quinto, da Romulus Nicolae Mailat, muratore romeno di 24 anni alloggiato nel limitrofo campo rom, che sta scontando la pena dell’ergastolo in un carcere di Bucarest. Ellekappa (Laura Pellegrini) pubblicava una vignetta significativa, che si riassume nella questione: romeno, razza o aggravante? Se quello che abbiamo in Italia è un martello, tutto ci sembrerà un chiodo; così la Romania. Quello che vediamo, grazie agli onnipotenti media e alla questione migratoria, è una nazione criminale, di cui oltre un milione di cittadini risiedono in Italia (nel 2001 era solo 75 mila). Una Romania martello.

Ma che è, invece, un pesce: la sua conformazione, infatti, non dà scanso a equivoci interpretativi da macchie di Rorschach. E Costin Dumitru, che conosco nel mio viaggio in Romania e lavora come guida turistica a Sinaia, nel Museo nazionale del Castelul Peles, specifica: se giri la cartina, vedrai anche un mazzo di fiori. Considerando il Mar Nero, il mazzo di fiori è posto in un vaso d’acqua (me lo sottolinea Francu Virgil, di Turda). Nessun martello. E non lo vedo neanche io. Il mio viaggio in Romania è meglio di qualunque viaggio a Parigi, l’ospitalità perfetta, l’appagamento totale. Mi domando: come è possibile che un Paese tanto vicino e strabiliante non riceva le nostre attenzioni? Perché ci si riversa in Grecia, Spagna, Croazia, quando esiste un mazzo di fiori intero pronto ad essere colto ed offerto ad un’amante?

Sic: lo stesso Matteo Salvini, maggior esponente della Leg Nord, postando una foto su un social network, rilevava la crescita dell’economia romena a seguito del taglio delle aliquote Iva e l’aumento dei consumi, avendo a riferimento uno studio Ernst&Young del 2015 nel quale si sottolineava l’elevata crescita della Romania. Sì, è in Europa, per chi se lo stesse domandando o lo domandasse agli operatori di telefonia mobile ai fini di conoscere le tariffe del roaming applicabile. Il trucco c’è, ed è quello della moneta: il Paese romeno non avrebbe potuto reggere il confronto con i grandi pesci europei e si è tenuto il leu prima, il ron oggi, in uso dalla fondazione della sua Banca nazionale nel 1880; il 1º luglio del 2005 il leu veniva rivalutato al tasso di 10 mila dei vecchi lei per ron, portando il potere d’acquisto psicologico in linea con quello delle principali valute occidentali; al 2019 è fissato il passaggio all’euro e questo settembre il ministro degli Esteri Teodor Melescanu ha ribadito l’impegno nazionale in vista dell’ingresso nell’Ocse.

Sotto il post di Salvini, i commenti degli utenti (italiani) sulla Romania sono più che espliciti: si comincia da «È cresciuta grazie ai soldi che hanno guadagnato in Italia» a «Il marcio della Romania ce l’abbiamo in Italia», «Hai dimenticato le prostitute che non vedono mai crisi in Italia», «Perché, risulta che le badanti rumeni spendano soldi che prendono in Italia? Mandano tutto in Romania, tanto qui hanno tutto spesato!», e via dicendo. Il martello è pneumatico.

Così ho interrogato tutti i romeni che ho incontrato per il mio reportage in Transilvania, che hanno riferito, in sintesi, quanto segue. Vox populi. Dalla Romania scappano tutti perché il costo della vita è basso, sì, ma gli stipendi si aggirano intorno ai 200 euro. I criminali che noi conosciamo fuggono, è vero, dal Paese d’origine, perché lì le pene sono applicate, in Italia no. La gente di strada non si identifica con il romeno «italianizzato», piuttosto lo disconosce e se ne vergogna lampantemente; dispiaciuta, si sente vilipendiata da una fama che la precede e che non corrisponde alla verità come, per l’italiano, fa la mafia dei «Sopranos». Un luogo comune è sì rispettato: in Italia i romeni svolgono mansioni che gli italiani non accettano; la loro architettura come le loro doti artigiane sono superiori a quelle degli altri; il Paese è pulito, non ridotto a una discarica a cielo aperto come il nostro. Le qualità di un romeno non sono conteggiabili: non da un italiano. Il martello, in altre parole, è uno strumento di lavoro e non un affronto alla dignità. Per il romeno.

O rumeno? La questione semantica – se è corretto parlare di «romeni» o di «rumeni» – chiarirà molto. Luisa Valmarin, in un saggio del 1989 dal titolo «La guerra del ru- e del ro-», spiega che la differenza tra «român» e «rumân» è legata a specifici aspetti della storia sociale e politica del Paese, che vuole l’etnonimo «rumân» negli antichi documenti di Valacchia indicare non solo l’appartenenza ad un popolo, ma anche, nell’ambito della stessa unità etnica, quella alla condizione sociale di servo della gleba, invertendo quanto accaduto in Francia per il nome dei Franchi. Nonostante la servitù della gleba venne abolita nel 1746, la connotazione negativa assunta dal termine «è tanto forte e radicata che oltre un secolo più tardi essa designa ancora chi appartiene alle categorie più umili».

E i rom? Sottolinea l’Accademia della Crusca: il termine «rom» identifica una minoranza etnico-linguistica, cioè un insieme di gruppi che parlano, o parlavano, il romanés (o romaní). Originari dell’India del nord i rom, caratterizzati da nomadismo e arti, si sono diffusi in tutta l’Europa acquisendo le varie nazionalità (esistono anche i rom abruzzesi). In Romania la minoranza rom è numerosa, ma se è vero che tutti i rom romeni sono cittadini della Romania, non è vero che tutti i romeni sono rom. Non è poi avallabile l’ipotesi segregazionista che stigmatizza i rom sulla base di un generalizzante stereotipo. Zingari, non stupratori.

Questo è l’inizio del mio viaggio in Romania. Sempre tenendo a mente che, per la mia propensione a viaggiare e a conoscere gli altri, a casa mi hanno sempre chiamato «rom». Nomen homen?    (ROMINA CIUFFA)

Romina Ciuffa con Calin Stamatoiu, del Dominique Boutique a Cloasterf, e con il conduttore TV (anche di “Temptations Island”) ed attore nazionale Radu Valcan


 

Romina Ciuffa con Rozalia, residente nel villaggio di Viscri, di soli 7 km

 




ALIMENTAZIONE 2.0: GALLINA CHE NON BECCA HA GIÀ BECCATO

All’inizio era il darwinianesimo. Processi di selezione naturale basati sulla meritocrazia non solo di un vivente, ma delle sue stesse parti corporali: la coda serviva – restava. Non serviva, via. Così le abilità. Si può dire che Darwin fosse un meritocratico, sebbene avesse ricevuto una raccomandazione, quella del naturalista John Stevens Henslow, per salire a bordo del Beagle, brigantino britannico in partenza per una spedizione di ricognizione scientifica intorno al mondo, in qualità di naturalista non stipendiato, e sebbene la sua ipotesi, esposta per la prima volta nel 1858, fu presentata contemporaneamente da Alfred Russel Wallace, che era giunto indipendentemente alle medesime conclusioni.

Corrette o meno, o correggibili, le teorie della selezione naturale sono utili a rispondere a chi vuole convincere il mondo – a prescindere da qualsivoglia cultura, antropologia, credo, dunque bandendo il relativismo in favore di un’assolutismo ideologico – a non mangiare carne. Esse sono basate, infatti, sull’assunto di una specie più forte all’interno di un ecosistema perfettamente autonomo. Homo homini lupus, d’altronde. Oggi la carne fa male, le tossine che sprigiona l’animale, mentre muore soffrendo, sono quanto di peggio si possa ingerire. Non è sbagliato ma, per quanto ciò sia vero, si scontra con l’eccesso. Le nonne dicevano: «Allora non è vera fame», quando si chiedeva da mangiare insistentemente e poi non si gradiva il brodino, la carne. Non è vera fame, no. Si voleva il gelato, diciamolo.

Ed eccoli qui, i nuovi affamati: onnivori (i polifagi), locavori (mangiano cibi prodotti nel raggio di un centinaio di chilometri dal luogo del pasto), ecotariani (scelgono cibo la cui sparizione causi un impatto minore sull’ecosistema), macrobiotici (no carne), vegetariani (no carne, no pesce), flexitariani (vegetariani che mangiano solo a volte carne e pesce), vegani (no ai cibi di origine animale, come latticini, miele e uova), freegan (che rifiutano in blocco la società consumistica, non comprano nulla, recuperano gli scarti anche dai bidoni, si nutrono pure di carcasse di animali morti trovate per strada), crudisti (amano cibi crudi di cui non sia superata una certa temperatura per mantenerne le proprietà di attivazione enzimatiche), fruttaliani (solo frutta e verdura), fruttaliani crudisti (escludono frutta e verdura cotte), fruttariani (solo frutta cruda, meglio se dolce), fruttariani simbiotici (solo frutta cruda e mangiata dagli alberi curati in proprio), via via verso il trionfo della concezione biocentrico-igienista.

Nonne, non abbiamo finito. È un melodramma quello dei melariani, per i quali le piante soffrono, tutte tranne i meli: le mele si donano all’uomo con piacere, i melariani lo sanno. Una mela al giorno leva il medico di torno (se il medico mangia solo mela, un peccato originale). Più avanti ci sono i respiriani: loro respirano. Vivono di sola luce. Assorbono prana (energia vitale, spirito) dal naso. Possono concedersi di ingoiare qualcosa solo se ciò non li fa sentire in colpa, «perché stiamo mangiando per gusto, perché ci piace e non per necessità», spiega una di loro in un’intervista. Aggiungendo: «I cambiamenti fisici più rilevanti sono stati la crescita costante di energia e luminosità e la scomparsa del bisogno di defecare. A un livello di pulizia totale si smette anche di urinare, rimettendo i liquidi in circolo e attivando un processo autotrofo». Alcuni riescono a non dormire, a diventare immortali, assicura la respiriana. Oltre, ci sono i raeliani, che meriteranno la reincarnazione scientifica e vivranno per sempre sul pianeta degli Elohim, dove il cibo sarà portato loro senza dover fare il minimo sforzo.

Dopo, ci sono solo i morti.

L’estremizzazione è una componente essenziale della media. Bukowski scriveva: «Non mi fido delle statistiche: un uomo con la testa nel forno e i piedi nel congelatore ha una temperatura media». Così è garantito un livello di maturità e intelligenza al centro, che solleva dall’idea di dover scegliere per forza tra il congelatore ed il forno. Ma si stava meglio quando si stava peggio. Prima non era un problema mangiare; oggi l’attenzione cade sul cibo al punto tale da essersi sviluppati in senso più ampio disturbi alimentari di forte gravità. L’aver posato lo sguardo su di essi li ha fatti emergere, e così avanti l’anoressia, avanti la bulimia, il «binge eating», la pica etc. Che, infine, sono ricollegati all’accudimento materno. E si torna alla madre, comunque: l’alimentazione inizia con la suzione, non con il respiro. Il latte materno proviene da un animale, facente parte della catena alimentare, ma oggi si dice: il latte è la cosa più pericolosa che c’è. Seno buono e seno cattivo, li chiamava Melanie Klein, l’assenza di integrazione dei quali condurrebbe, nello sviluppo evolutivo umano, alla formazione della posizione schizo-paranoide, utilizzata come difesa. Per l’appunto.

Cosa è accaduto, cosa ha portato a vivere di sola aria? A far credere che l’astensione dal cibo sia l’alimentazione corretta? A nutrirsi con il naso, non con la bocca? Nell’epoca degli «apericena» poi. La disperazione individuale, la distruzione planetaria, due facce della stessa medaglia; la psicosi come malessere. L’oncologo Umberto Veronesi, scomparso di recente, direttore dell’Istituto europeo di Oncologia, ha studiato la relazione tra cibo e cancro elaborando una dieta per la prevenzione dei tumori, incentrata su un consumo più coscienzioso dei diversi alimenti; una dieta non lontana da quella mediterranea, vicina a quella vegetariana ma con correttivi. Ma la dieta migliore è la coerenza.

Esagerare nella scelta di un regime alimentare e renderlo ideologia conduce a disturbi mentali, ossessioni, fissazioni, carenze. Una convinzione – di qualunque tipo essa sia – può modificare gli schemi neuronali del cervello, a livello individuale e collettivo, al punto da generare un effetto Pigmalione, la «profezia autoavverantesi» di Robert K. Merton, il quale con William Thomas sosteneva che «se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». Anche definito effetto Rosenthal, il postulato sottolinea come una previsione possa realizzarsi per il solo fatto di essere stata espressa. Così una corretta disciplina nell’alimentazione supporta fisico e mente; un’eccessiva disciplina li distrugge, e pone in circolo premesse che condurranno all’adempimento della predizione che le ha generate. Accenderemmo un fuoco sapendo che il tronco dell’albero ne soffre? Come potremmo riscaldarci? Oggi, con l’energia solare. Ma poi, dove sedersi, su quali sedie? Per terra. «Per terra» acquisisce un significato talmente pregnante, a questo punto del ragionamento, da poter citare un altro gruppo, quello degli scalzisti o «barefooters», che vanno sempre in giro scalzi. E siamo noi a doverci fare il callo.

Si dice anche: “Gallina che non becca ha già beccato”. Si fa riferimento al fatto che si ha già la pancia piena. Ed, in un certo senso, è così: la reificazione della metafora conduce a dire che sì, si ha la pancia piena, di troppe cose. Abbiamo tutto. Non c’è più pane e patate, altro che guerra. Non c’è più l’istinto di sopravvivenza, è tutto a portata di mano, il grano è nel pollaio e non lo becchiamo. Galline restiamo.

Quella di oggi è vera fame? Nell’epoca del consumismo più sfrenato, dei click, dell’abuso, si può rispondere: no, non è vera fame. Tale nonna, ancora viva, non può più fare il ragù ai nipoti, non può sbattere un uovo per lo zabaione o la sua crema, le è inibito spadellare. Oltre a doversi abituare, con rassegnazione anziana, ad un mondo che svanisce, che lei non aveva distrutto ma che i suoi figli hanno massacrato senza esitare, ora non può che preparare, per il pranzo di Natale, un buon prana, e sapere che, nell’esalare l’ultimo respiro, almeno per quella volta ancora potrà tornare a dare da mangiare ai nipoti. Basterà per tutta la famiglia?   (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – luglio/agosto 2017




LA LINGUA STA CAMBIANDO E IL DINOSAURO È PRONTO

In un episodio della lungimirante serie televisiva americana «Ai confini della realtà» degli anni 60 (“Wordplay”, in italiano tradotto “Parole in libertà”), scritto da Rockne S. O’Bannon, si racconta la storia di Bill Lowery, oppresso dal proprio lavoro di venditore che lo obbliga ad apprendere in brevissimo tempo un intero catalogo di materiale medico e relativi termini e nomi difficilissimi. La pressione è così elevata che d’un tratto si trova circondato da un mondo che parla un linguaggio fatto di termini sconnessi tra loro che solo lui sembra non capire. Isolato cercherà il coraggio per continuare a vivere e rientrare in sintonia con il mondo che lo ha isolato. A lui, che non riconosce più i significati delle parole – le stesse ma con altro senso (dinosauro è divenuto pranzo, enciclopedia al posto di cane, patrigno invece di cintura di sicurezza, mentre cena diventa un colore) – non resta altro che adeguarsi. Così, dopo essersi opposto arduamente al cambiamento assurdo e insensato del sistema linguistico, deve cedere: prende l’abbecedario del figlio e, sfogliandolo, si mette a studiare i termini nuovi, aderendo alla schizofrenia collettiva pur di poter comunicare.

La lingua sta cambiando e il dinosauro è pronto. È colpa nostra. Anche i giornalisti hanno perso bravura e cultura. Fanno errori grossolani, refusi. Sbagliano gli accenti, confondendoli tra gravi e acuti o passandoli per apostrofi. Non conoscono l’italiano, non lo rispettano, non lo amano, lo ripudiano, scrivono sempre più in inglese mutuando termini al punto da creare una nuova lingua: sbagliata. Non sanno come si dice una certa parola in italiano per averla dimenticata o non averla mai saputa, né creata (tanto che un bambino ha scritto «petaloso» e, piuttosto che correggerlo, ne è partita una operazione di marketing). Provo una forte empatia – prima che odio – verso costoro, che sono obbligati a scrivere nelle pagine web dei loro giornali articoletti per ottenere visualizzazioni, non letture, «mi piace», non apprezzamenti: click rubati all’agricoltura. Che non hanno mai tenuto in mano una penna e sono scettici sull’esistenza del callo.

Non sanno nemmeno chi fosse il piccolo scrivano fiorentino, una educazione che partiva da casa, intenzionale, forte, severa; assai lontana da quella attuale, che vede il genitore come alleato del figlio in una guerra contro gli insegnanti o, aut aut, come il suo aguzzino.
«Suo padre lo amava ed era assai, ed era buono e indulgente con lui: indulgente in tutto fuorché in quello che toccava la scuola: in questo pretendeva molto e si mostrava severo perché il figliuolo doveva mettersi in grado di ottener presto un impiego per aiutar la famiglia; e per valer presto qualche cosa li bisognava faticar molto in poco tempo. E benché il ragazzo studiasse, il padre lo esortava sempre a studiare». Sistema valoriale inesorabile, integro, nessun riferimento a sfruttamento minorile, abusi domestici, violenza privata, vacanze senza compiti et altera, quel bla bla bla che riflette un nuovo mondo, arrogante, atto a definire lo spazio di potere di un soggetto ancora educando, vergine, giovane, immaturo, irresponsabile. Là dove «immaturità» e «irresponsabilità» sono termini positivi che caratterizzano e descrivono un’età, e costituiscono il substrato affinché trovino giustificazione i comportamenti, anche punitivi, degli adulti. Lo schiaffo della nonna non è mai stato oggetto di denuncia in sede penale, lo schiaffo della nonna è educazione intrinseca, senza se e senza ma.

Quel padre aveva preso da una casa editrice un incarico che lo stancava, e se ne lagnava spesso. «Babbo, fammi lavorare in vece tua; tu sai che scrivo come te, tale e quale», disse Giulio. Ma il padre gli rispose: «No figliuolo; tu devi studiare; la tua scuola è una cosa molto più importante delle mie fasce; avrei rimorsi di rubarti un’ora; ti ringrazio, ma non voglio, e non parlarmene più». Studiare: ecco la parola chiave. La radice dell’albero che darà frutti, il senso dell’apprendimento, la tensione verso il sapere. Nessuna lite con gli insegnanti, coalizzati con i genitori in un progetto di crescita della società civile. Oggi disimpariamo le lezioni, aggrediamo, ci poniamo contro il sistema tout court e dimentichiamo il buon senso: se non insegniamo ai figli a vivere (il che non significa essere vegani, combattere le multinazionali, pretendere azioni positive, bensì mangiare ciò che c’è, cambiare le multinazionali, compiere azioni positive), come possiamo aspettarci che essi avranno un mondo migliore?

Ecco cosa fece Giulio. Una notte si sedette alla scrivania del padre a lavorare di nascosto al posto suo, rifacendo appuntino la scrittura del padre, per moltissime notti. L’insegnamento parte dall’osservazione nel sistema di attaccamento: il bambino osserva, copia, quindi emula, infine agisce dal profondo con indipendenza e lucidità. Il giorno seguente il padre sedette a tavola di buon umore, non s’era accorto di nulla. Giulio, contento, muto, diceva tra sé: «Povero babbo, oltre al guadagno, io gli dò ancora questa soddisfazione, di credersi ringiovanito. Ebbene, coraggio».

Ma intanto si ammalò, le sue prestazioni a scuola peggioravano, e il padre gli disse: «Giulio, tu mi ciurli nel manico, tu non sei più quel d’una volta. Non mi va questo. Bada, tutte le speranze della famiglia riposano su di te. Io son malcontento, capisci!», e in seguito andò a chiedere informazioni al maestro. «Sì, fa, fa, perché ha intelligenza. Ma non ha più la voglia di prima. Sonnecchia, sbadiglia, è distratto. Fa delle composizioni corte, buttate giù in fretta, in cattivo carattere. Oh! potrebbe far molto, ma molto di più». Il sistema famiglia si affianca al sistema scuola senza sovvertirlo: il padre prese il ragazzo in disparte «e gli disse parole più gravi di quante ei ne avesse mai intese. – Giulio, tu vedi ch’io lavoro, ch’io mi logoro la vita per la famiglia. Tu non mi assecondi. Tu non hai cuore per me, né per i tuoi fratelli, né per tua madre!». Ma costei, vedendolo più malandato e più smorto del solito, si allarmò: «Giulio è malato. Guarda com’è pallido! Giulio mio, cosa ti senti?». «È la cattiva coscienza che fa la cattiva salute», conclamava il padre. «Non me ne importa più!», aggiunse. Fu una coltellata al cuore per il povero ragazzo. Suo padre che tremava, una volta, solamente a sentirlo tossire! E il piccolo scrivano fiorentino si ammalò ancora di più. Ma scriveva, scriveva.

Finché una notte suo padre era dietro di lui, «e in un momento aveva tutto indovinato, tutto ricordato, tutto compreso, e un pentimento disperato, una tenerezza immensa, gli aveva invaso l’anima, e lo teneva inchiodato, soffocato là, dietro al suo bimbo». Che gridò: «O babbo! babbo, perdonami! perdonami!». Rispose il padre: «Tu, perdonami! Ho capito tutto, so tutto, son io, son io che ti domando perdono, santa creatura mia, vieni, vieni con me!». E Giulio disse: «Grazie, babbo, grazie; ma va a letto tu ora; io sono contento; va a letto, babbo».

Edmondo De Amicis, prima soldato, poi giornalista e scrittore. Pagine intense, corrette, fluide, commoventi. Testi e insegnamenti senza arroganza quelli presentati nel libro «Cuore», più che un romanzo un Trattato di didattica della didattica, un Manuale dell’educazione senza tempo. Dell’ignoranza attuale hanno colpa la deresponsabilizzazione, internet, i genitori, il populismo, la globalizzazione, il veganesimo, i nuovi hippies, il T9, la nuova democrazia, click, post, tweet: niente di ciò è presente in De Amicis.

Il mondo è cambiato e c’è chi vi si adegua consolidandone il peggioramento. Io no. E dal canto mio sottolineo: c’è un doppio spazio anche nei sottotitoli di chiusura del telegiornale Rai, e se lo guardo, poi non riesco a chiuder occhio.  (ROMINA CIUFFA)

Anche su SPECCHIO ECONOMICO – giugno 2017




HA LA MENTE DI DONALD MA TUTTO IL RESTO FA DA SÉ

Chi ha paura di Donald Trump? Da italiana, mi dà un non so che di certezze, come guidasse un robot di quei manga giapponesi, che a noi bambini dava sicurezze a prescindere da chi fosse l’umano che lo pilotasse: Mazinga, ad esempio, condotto da Tetsuya, ragazzo insicuro, dal carattere inquieto e solitario, una personalità difficile minata da un complesso di inferiorità derivantegli dall’essere orfano e dall’esigere dagli altri la stessa preparazione maniacale a cui lo aveva abituato il dottor Kabuto, costruttore del robot. Ma Mazinga era un porto franco di certezze e di vittorie, le paure erano solo umane, dunque giuste.

Un robot è necessario per ripristinare l’ordine. Ma che ci sia un uomo, dentro. Non temo Trump, temo la guerra. E temo per la salute degli americani, non solo quella psicologica. La cura Obama è stata un’esperienza di democrazia e respiro, soprattutto per i più ceti più bassi, ma non poteva durare a lungo, subito spazzata via da una «Trumpcare» che non piace nemmeno ai rappresentanti (la Camera statunitense ha approvato la riforma con 217 voti a favore e 213 contrari dopo averla sospesa per mancanza di voti, prima sconfitta del nuovo presidente, ed ora il Senato si prepara per una strada in salita di emendamenti ed accordi «aum-aum»). Sarà costosa principalmente per i contraenti che presentano già una malattia e per coloro che, in nome del diritto di scegliere se assicurarsi, andranno impavidi verso l’alea della libertà sanitaria. Fondi federali, gli «high-risk pools», per i malati gravi, manterranno bassi i costi delle assicurazioni della fascia media della popolazione (che Obama aveva contribuito ad alzare a favore della classi più povere) prestandosi al rischio di lunghi periodi di attesa per i pazienti prima che le spese sanitarie siano pagate dallo Stato.

Intanto, procedono i lavori di costruzione del muro di Trump, 3.220 chilometri di confinamento e 9 metri di altezza, dove gli operai lavorano con giubbotti antiproiettile e solo una piccola parte di circa mezzo milione di imprese edili di proprietà ispanica ha preso in considerazione l’appalto; se lo ha fatto, è stato (si giustificano) perché il lavoro è lavoro. Secondo la National Autonomous University of Mexico, inoltre, la costruzione del muro metterebbe a repentaglio la vita di 800 specie animali autoctone, 180 delle quali già a serio rischio di estinzione. L’Italia sta a guardare indignata, ma la situazione, mutatis mutandis, non è migliore. Il muro è un muro psicologico, fondamentalmente. Lampedusa, porto di scarico degli scafisti mediterranei et altera. Al sindaco del piccolo comune siculo, Giusy Nicolini, è stato conferito il Premio Unesco Houphouet-Boigny sulla ricerca della pace «per aver salvato la vita a numerosi rifugiati e migranti e averli accolti con dignità».

L’accoglienza, come quella in un villaggio turistico, è una cosa; la vacanza un’altra. Gli immigrati giungono in Italia e sono raccolti con quello che in un villaggio vacanze è un calice di prosecco. Poi resta solo il secco: è l’inizio di una vacanza tormentata, in un Paese ostile, perso, disorganizzato. Si configurano tutti gli estremi per un danno da vacanza rovinata. L’italiano li detesta perché vendono rose e cartine la sera, spacciano, lavano forzatamente i vetri al semaforo, chiedono soldi sotto forma di ricatto nei parcheggi e, quando va bene, dietro le quinte muovono le fila delle cucine di ristoranti italiani, giapponesi, francesi, pur non sapendo dove siano il Giappone dei manga e la Francia della nouvelle cuisine. Il «bangla» va anche di moda quando può, e nei quartieri è spesso accettato, considerato come un vecchio conoscente, per due chiacchiere e una liquidazione veloce; pezzo di arredamento del rione, conduce una vita oscura di cui nessuno sa nulla. Risuona il sempreverde luogo comune: «Se ancora vendono rose dei cimiteri, qualcuno che le compra ci sarà», e non sono i morti. Io, quella degli italiani, la chiamo ipocrisia.

Il procuratore della repubblica Carmelo Zuccaro dà intanto indicazioni per consentire un miglior controllo dell’attività della navi Ong, mosso anche dall’evidenza che alcune di esse spengono il transponder per non farsi localizzare, e propone la presenza di ufficiali di polizia giudiziaria su tali navi (non per controllarle, bensì per fare quei rilievi che il personale delle Ong non è autorizzato a compiere), aggiungendo: le navi Ong non dovrebbero battere la bandiera dello Stato in cui sono varate e acquistate, ma quella dello Stato in cui la Ong ha sede. Si muovono gli attivisti a difesa dei rifugiati; spesso sono gli stessi che pretendono il crocefisso appeso con il Cristo morto nelle aule di scuola dei propri figli. Ma Dio è morto, per l’appunto.

Non è più una questione di destra o di sinistra, di cattolicesimo o burka, ammettiamolo: siamo terrorizzati dagli extracomunitari. Dio è morto, Mazinga è morto. Ed è morto l’ambulante senegalese Maguette Niang, causa un infarto durante una corsa con la busta piena di borse per sfuggire al blitz anti-abusivi dei vigili romani, indagati poi per omicidio colposo in un contesto politico che non tutela le zone di pregio. E mentre il Governo parla di una legittima difesa notturna, secondo cui è possibile utilizzare un’arma da fuoco «di notte» e non di giorno; mentre Renzi, appena rinominato segretario del suo partito, fa un passo indietro viste le reazioni scaturite dall’approvazione alla Camera di una norma illogica; mentre Matteo Salvini grida «vergogna!» e Silvio Berlusconi si oppone all’emendamento; mentre il capoverdiano Edson Tavares, già denunciato per maltrattamenti, a Rimini sfregia per sempre con l’acido la fidanzata ventottenne Gessica Notaro, ex Miss Romagna; mentre in centro a Roma si consuma un amplesso in pieno giorno davanti la sede del celebre palazzo occupato dell’ex Federconsorzi, che attende lo sgombero da oltre tre anni e il cui proprietario continua, suo malgrado, a pagare le tasse; mentre accade questo ed altro, si guarda al presidente Usa come a un detestevole marziano, perché ha elevato due muri, uno fisico, l’altro sanitario. Ed altri ne eleverà.

Continuo a credere ai cartoni animati anni 80. L’ordine può essere ripristinato solo dai vecchi robot. I nuovi sono fallaci: i social network non contengono un pilota, ma milioni di parole al vento. Papa Bergoglio sprona all’accoglienza, e riceverà Trump in Vaticano il 24 maggio, poco prima del G7 di Taormina; sarà quindi atteso da Sergio Mattarella. Dichiara il tycoon: «La tolleranza è la pietra miliare della pace. Per questo sono orgoglioso di fare uno storico annuncio questa mattina, e condividere con voi che il mio primo viaggio all’estero come presidente sarà in Arabia Saudita, poi in Israele e poi in Vaticano a Roma». Le origini tedesche possono metter paura, come anche la sua ricchezza (autoprodotta attraverso i suoi stessi sforzi, quelli del padre Fred, quelli del nonno Friedrich, semplice barbiere immigrato negli States).

Sarà l’età, ma a me piace immaginare Donald guidare Mazinga come faceva Tetsuya, rinchiuso in un robot di artiglieria pesante, pericolosa, ma che spesso salva la vita di un pilota insicuro. Il punto è: vogliamo essere un cavallo di Troia o un robot? Vogliamo aiutare o essere aiutati? Perché non si può avere tutto: Mazinga ha la mente di Tetsuya ma tutto il resto fa da sé.    (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – maggio 2017




USA: MA COME SI DICE, IN ITALIANO, “PICCIRIDDU”?

New York. Si lamenta perché, dice, in America non si parla che l’americano. Dice che le scuole, i media, i cervelli sono, monopolizzati. Si sente italiano più che americano e, a dirla tutta, in Italia c’è stato solo pochi giorni che, contati su 49 anni, non lo rendono proprio italiano. Ma dice «grazie assai» e «statte buono». Ascolta Lucio Battisti, Rita Pavone, Daniele Silvestri, Vasco Rossi. «Sonno» lo pronuncia «sono», e «gente» per lui è un plurale. Non è alto e in America questo non fa onore, soprattutto quando si tratta di giocare a basket. Ha occhi scuri, capelli scuri, cuore scuro. Suo padre è morto. Sua madre vive nell’America più profonda. Entrambi sono nati calabresi. I suoi nonni erano emigranti e così hanno dato alla famiglia una possibilità di crescere.

È tornato qualche anno fa al proprio paesino, arroccato sui monti dell’entroterra calabrese, per salutare un cugino. Ma l’avevano ucciso. Perché? Non lo sa. Dove? Non lo sa. Da chi? Non lo sa. Nessuno parla, come suo cugino. Mi vengono in mente «I cento passi» del regista Marco Tullio Giordana, e la storia di Peppino Impastato di Cinisi, che il padre aveva provato a mandare, ma guarda un po’, proprio in America, una meta a caso: non c’era riuscito, anche se l’idea di aprire una radio negli Stati Uniti l’aveva stuzzicato. Gli zii americani ce li aveva pure Peppino, ma era rimasto in Sicilia a fare propaganda contro Tano Badalamenti. Non che il cugino di «Grazie Assai» abbia avuto a che fare con Tano, ma «non lo so» hanno risposto pure a lui quando ha chiesto il perché. Un altro viaggio «Grazie Assai» se l’era fatto qualche anno prima, accompagnando suo nonno al cimitero, lo stesso. Li aveva aspettati tutto il paese all’aeroporto. È tornato! È tornato!

«Se potessi avere mille euro al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità»: alza il volume della canzone di Daniele Silvestri mentre mi racconta che gli manca l’Italia e che suo cugino Gaetano l’aveva conosciuto solo negli ultimi anni, perché prima lui parlava poco l’italiano – s’interrompe e ripete: «Sempre perché qui non impariamo niente» -, e il cugino non una parola d’inglese. A dire il vero, poche pure di italiano: È tornato!

«È la solita vita, la solita rincorsa a una corriera già partita, perpetuo movimento sulla strada che all’andata, così come al ritorno, è sempre una salita». Sai, mi dice, era proprio un brav’uomo mio cugino Gaetano. Ha lasciato una moglie e tre figli. Andavo al paese e tutti mi volevano bene, mi facevano sentire di appartenere. «I belong», e stringe il pugno. Poi mi racconta che nell’Indiana, dove vive, ha tre amici napoletani. Sarebbero quattro fratelli, ma uno s’è perso per strada. Perché? Che è successo? Niente d’importante ma, mentre lo dice, ride, anzi ridacchia; ha rubato 50 mila dollari al fratello. E come? Un giorno è andato in banca, ha firmato i «segni» al posto del fratello e ha riscosso sull’unghia (ma sull’unghia non lo dice). Il giorno dopo la banca ha chiamato il fratello: perché avrebbe firmato assegni per una cifra non disponibile sul conto? Io non ho mai firmato assegni. Non ne sapeva niente, davvero. L’altro aveva da anni la delega in banca, anche in America questa volta la si è fatta franca. Chiedo: «E cosa è successo poi, fra i fratelli?», chiedo, perché m’interessa sapere più questo che non di come sia andata sul piano legale; più come una famiglia napoletana impiantata in America con varie Green Card e quattro ristoranti («Ma non sai quanto è buona quella pizza»), si mantenga nel tempo, se è vero che essere lontani dalla propria terra unisce.

Risposta? Sì, unisce. E perché allora, domando, un fratello avrebbe fatto questo all’altro? Perché aveva bisogno di soldi e la moglie, l’unica italiana tra le quattro spose per i quattro fratelli, qui non ci sapeva proprio stare, non ci voleva stare, non ce la faceva più. Mica è facile. «È la solita vita, è il solito miracolo che svolta la giornata, l’evento microcosmico di minima portata, una mancia ricevuta, una cena regalata; e con la dignità rimasta, volevo vederti arrivare vestita di seta, di festa, magari fare quattro salti in pista, ma forse è meglio se rimani là».

«Se potessi avere mille euro al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità: una casettina di periferia, una mogliettina giovane e carina, tale e quale come te».

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Arrivato in Italia, lo arrestano per precedenti reati, e lui si guadagna il titolo: è ufficiale, è la pecora nera della famiglia. Che poi nera non è, ma solo impaurita, forse, come se qualcuno stesse tirando in aria colpi di fucile al gregge per farlo riagglomerare fuori dal suo rettangolo d’erba. Ed ora che è fuori – perché i reati commessi in Italia non erano poi così gravi -, attende che si prescriva quello americano, se già non è prescritto. Ppoi ci penserà. Più probabilmente non tornerà nemmeno, perché lui l’inglese, come pure i suoi fratelli che vivono da anni in America, non lo parla proprio. Non gli entra. È un bravo guaglione, lui e gli altri tre. Per fare la pizza la lingua non serve.

E, canta ancora Daniele Silvestri, «dovrò dosare la fatica, imparerò a parlare in questa lingua sconosciuta, sognando di riuscire, un giorno, a fare ricevuta tra gente compiaciuta e che di me si fida». Si fida? Chi si fida? «Grazie Assai» mi dice che «la gente italiana sono apprezzati in America», e qui viene il dubbio: ma se non ci fidiamo l’uno dell’altro in madrepatria? Ma se prima di firmare un contratto chiediamo pure di che quartiere uno è? Ma se siamo tutti cani con le museruole? No, forse qualcuno si salva.

«E non è piccola la sfida, querida, disperso in questo angolo d’Europa unita». Fidarsi pure in Europa, che ora ci è alle calcagna. Fidarsi della storia? Non ha insegnato nulla. Delle esperienze? Ma quelle di chi? Fidarsi di me? Questo mai. Quando anche una guerra decisa sei ore prima ha interferito nei rapporti umani e disumani, fidarsi? E di chi? Di lui. Lui quale? Indicalo meglio. Quello laggiù, con la cravatta? No, scusa, quello con il tatuaggio sul collo? Scusa, non so a chi ti riferisci. E poi si vede che quella cravatta è finta. Io direi più lei. Come lei, lei quale?

Dispersi in un angolo di vita, «ti metto la valuta in una busta, la spedirò per posta, ma poi non basta mica: se tu sapessi quanto costa la vita, sapessi quant’è faticoso riuscire a tenerla pulita». Dove sono le opportunità? Gli dico che è stato più fortunato lui di Gaetano, che non ha avuto nemmeno la possibilità di annusarla, l’America; di annusarla, l’Europa; di annusarla, l’Italia. Perché il lutto, dopo il suo funerale, è stato tenuto dalle donne per tre mesi. E poco prima, quando nel viaggio precedente il compaesano emigrato era tornato a casa orizzontale, gli uomini hanno allontanato le femmine, hanno aperto la bara e hanno controllato che la salma fosse dentro. Lui era lì, non capiva, perché allontanare le donne? Cosa succede ora?

La mia domanda era stata, inizialmente: cos’è una Funeral Home? E cosí chiude il capitolo e mi risponde: «Tutto questo per dirti che qui, in America, la Funeral Home ospita ed espone la salma, che poi viene portata al cimitero e sepolta». Ed io che credevo che si facesse festa davanti al morto, si mangiassero pasticcini, si bevesse vino e, sussurrando nella stessa o nelle stanze accanto, si spettegolasse su quante donne aveva avuto e sul vestito della figlia: «Che orletto mal fatto»! No, mi spiega, questa non è l’America. This is more British. La festa si fa in Europa. La festa, una cerimonia per commemorare il defunto.

Mi guarda, l’aria un po’ sognante, e mi dice: «Non vedo l’ora di tornare al mio paese». Il paesello su una rocca, lo sprofondo dell’Italia, è nascosto nel cuore di un grande americano. Opportunità, mi dice. Sì, è vero, sono nato fortunato. L’America è un Paese ricco di opportunità. Ma freddo. Ma duro. Ma conservatore. Ma schivo. Lo sa che è stato fortunato, perché è un Giano bifronte che conosce due realtà, una nel cuore e l’altra nel cervello. Racconta che suo padre, dopo i 18 anni, gli faceva pagare 20 dollari a settimana d’affitto e un dollaro ogni volta che non avesse sistemato la stanza. In America.

Dall’altro lato, sua madre cucinava, il padre tornava e leggeva il giornale, e i figli li hanno fatti perché Dio li ha voluti, secondo la tradizione cattolica: Italia. Lui sta bene, fa una bella vita, comoda, lavora duro e può permettersi i propri lussi, ma lo vedi che non è soddisfatto, lo senti che gli manca un pezzo, e te ne accorgi quando ti guarda e lucidamente ti dice che non si vuole legare, e poi ti domanda: «Ma come si dice, in italiano, picciriddu?» (ROMINA CIUFFA)




RAI: CON IL MIO STIPENDIO PAGO LO STIPENDIO DI BRUNO VESPA

La Rai nasce con un regio decreto (il n. 1067) nel 1923. Subito dopo la prima guerra mondiale, subito prima della seconda, e in periodo fascista, nel quale Benito Mussolini puliva l’Italia dal triennio rosso (gran confusione) e poi, prendendosi tutto il braccio oltre che la mano (in posizione alta e definita peraltro), animava una propaganda monopolistica per sottomettere le masse ad una promozione di valori predefiniti dalla dittatura. Fin qui “tutto bene”. Non è pericoloso precipitare, è pericoloso atterrare. L’atterraggio avviene in questo modo: spostiamoci di tanti anni, e arriviamo al referendum popolare del 1995, che conduce all’abrogazione della legge che riservava esclusivamente alla mano pubblica il possesso delle azioni RAI. Tale privatizzazione non è stata mai avviata. L’oggetto della fornitura, in effetti, è la produzione dei programmi di servizio pubblico, ossia pagati dal contribuente attraverso una forma di tassazione, definita “canone”. Un’eccezione al nomen omen: parlare di “canone” non modifica l’evidenza che si tratti di una tassazione sulla proprietà o, per generalizzare, sul possesso di mura (prima, seconda casa, appartamenti collegati, stanze limitrofe, la nonna che vive all’altro piano etc.). Possedere, solo possedere una TV, è come avere della droga in casa: si è “sanzionati”. 

Perché, oggi, la definirei “sanzione”, se è vero che quest’ultima viene applicata contro la volontà dell’utente, sia pure in funzione della violazione di una regola. In linguaggio dell’uomo di strada, una punizione. In questo caso non c’è violazione da parte dell’utente che possiede una TV, come fosse una busta di stupefacenti: nelle nostre case possiamo possedere qualunque cosa sia legale. Pertanto la “sanzione” è applicata sine causa: non v’è violazione di alcuna norma nel possedere una TV o una radio. Ma se prima la RAI aveva una funzione sociale di informazione, diritto costituzionalmente garantito, oggi non l’ha più per due ordini di motivazioni.

Innanzitutto, perché le frequenze sono state liberalizzate, ed a fronte di un mercato che è libero non può permanere un monopolista obbligatorio. Meglio detto: non perché posseggo un’automobile lo Stato ha il diritto di mandarmi multe a casa per il possesso. Lo può fare solo in ragione di una violazione. Nel caso della TV, mutatis mutandis, non perché se ne possegga una, o 100, ciò voglia dire che la RAI (nei suoi 10 attuali canali televisivi) sia guardata o apprezzata. Sky non obbliga a pagare un canone, è la scelta del consumatore che, seguendo i propri gusti, opta per adottare un servizio a pagamento. Questa è libertà. Ogni cittadino libero ha il diritto di partecipare attivamente a quei processi dove vengono prese le decisioni di interesse pubblico, televisione inclusa. Inoltre, nei telegiornali le notizie sono alterate dalla composizione del Governo, pertanto si sta pagando, con una nuova, ulteriore mazzetta, il corpo politico, che impiegherà tali fondi per trasmettere la propria propaganda scegliendo i contenuti. Non è, esattamente come un centinaio di anni fa, l’approccio mussoliniano?

Va bene, fingiamo di trovarci – e non ci troviamo – in uno Stato democratico, costituzionale, in cui tutti possiamo scegliere i nostri diritti con i soli limiti dell’Altro. La democrazia è un’utopia. Aristotele la collocava tra le forme degeneri dello Stato assieme a tirannide ed oligarchia del resto. La tirannide per il filosofo è una monarchia che ha per fine il vantaggio del monarca, l’oligarchia cura gli interessi degli abbienti; mentre la democrazia degenera quando cerca di ottenere il vantaggio dei nullatenenti rispetto alle altre classi. In nessuno di questi casi si insegue il bene comune ma quello particolare, e la democrazia finisce per diventare una tirannide quando l’arbitrio della moltitudine domina incontrastato e i più agiscono ignorando perfino la legge: i governi infatti non si definiscono buoni o cattivi in base alla forma della loro costituzione, ma in base alle qualità etiche e morali dei loro membri. Specifica: il miglior governo dovrebbe essere formato dalla classe media, cioè da cittadini forniti di modesta fortuna. E sostiene: la miglior forma di governo non darà la cittadinanza ai meccanici. Anche Platone aveva parlato di utopia della Repubblica. Per quest’altro, democrazia, oligarchia e  tirannide non possono essere riguardate come modello politico in grado di garantire la giustizia. Ma tornando ad Aristotele, egli dichiara: la scienza politica non può fare gli uomini, ma deve prenderli come li fa la natura. In un certo senso anche con i propri gusti allora: gli altri, i Latini, dicevano de gustibus non disputandum est.

E qui si passa al secondo ordine di ragioni: i contenuti. Io con il mio stipendio pago lo stipendio di Bruno Vespa e Gigi Marzullo, tra gli altri, che ogni santa sera sono presenti in un palinsesto ripetitivo, con «Porta a Porta» e «Sottovoce», nonché gli stipendi dei soliti, soliti, soliti noti. Per assistere a trasmissioni di basso livello culturale, dove si gioca e ci si diverte secondo un arbitrio di quoziente intellettivo pari a meno qualcosa, dove si vincono soldi mentre non si trova lavoro. Per ascoltare i dibattitti di personaggi votati a nessuna causa, apprendere nuove parolacce, distruggere l’italiano, sentire urlare, gridare, insultare. Inermi. L’Italia della RAI è l’Italia dell’ignorante. Anzi, di coloro che vogliono far passare gli italiani da ignoranti. Serie televisive con attori incompetenti, ingestibili, inguardabili. Chiacchiere, chiacchiere. Tutte queste chiacchiere sono oggi luce, perché si pagano in bolletta. Paghiamo le parolacce, le grida isteriche, il narcisismo, esattamente come quando, entrati in casa, pigiamo l’interruttore della luce. Paragoniamo la «Prova del cuoco» a un bene essenziale quale la fornitura elettrica. Ascoltiamo Paola Perego ed i suoi ospiti registrare uno stereotipo sulle donne dell’est, e senza accorgercene ci cibiamo di questo e di pregiudizi o giudizi precompilati. Non abbiamo la possibilità di oscurare tali canali, perché ci vengono propinati con obbligatorietà. Dovremmo essere messi nella condizione di scegliere tra guardare e non guardare, pagare e non pagare. Avere una TV in casa non vuol dire affatto seguire la RAI TV, più probabilmente dare sfogo ad uno zapping selvaggio da cui uscir fuori frustrati, insoddisfatti, salvo accontentarsi dell’istrionismo pubblico. Salvo leggere un libro. Salvo fare l’amore.

Non che gli altri canali siano migliori, ma non ne paghiamo un contributo. Sono canali privati che vanno avanti da sé. Ora c’è Netflix, ora c’è il digitale, ora c’è Sky: a questi gli utenti medi si appoggiano per trovare una distrazione che si avvicini ai propri interessi. Non possiamo paragonare, così come facciamo, Bruno Vespa a Dio, che muove tutto, che decide di cosa dobbiamo renderci edotti ogni santa sera che RAI ha creato. I contenuti garantiscono cultura; quando si tratta di ridondare, di impiegare il caso del giorno per fare audience, di pagare una parcella, allora Aristotele si rivolta nella tomba, obtorto collo. La RAI TV dovrebbe essere una scelta per il contribuente. Non perché si ha un libro in casa ciò significa che si è alfabetizzati: un bambino di due anni non lo leggerà. Così mi sento io quando velocemente passo dalla Rai a TopCrime: un bambino che cerca il gioco adatto alle sue abilità, e corre nella sua stanza dei giochi. Nessuno, solo perché si ha un libro in casa, pagherà la sua università. E così nessuno, solo perché si ha una TV in casa, pagherà il suo canone, facendosi uccidere subliminalmente.

Che la RAI divenga un’opzione, e che il meccanico trovi lavoro: questa è democrazia, non tirannide od oligarchia. Lo dicono i filosofi, che Sanremo non lo guardano. Loro pensano, come li fa la natura. (ROMINA CIUFFA)

Anche su Specchio Economico – Aprile 2017




EUTANASIA, DALL’ITALIA LA FUGA DEI CERVELLI SENZA CORPO

EUTANASIA, DALL’ITALIA LA FUGA DEI CERVELLI SENZA CORPO di Romina Ciuffa. Prendiamo il punto di vista di un cachi. Non si può muovere, eppure può cadere, può farsi male, può essere mangiato. Ma non può scegliere di interrompere la sua vita. Di contro, può godere del fatto che vive nella natura, solitamente non in un ospedale, e che è un cachi, dunque non dotato di un sistema neuronale che lo renda capace di provare cognizioni ed emozioni. Tanto assumiamo. Lo stesso vale per una cicorietta, uno spinacio, una carota, qualunque vegetale. Tranne quello umano.

La prima differenza che si coglie tra quest’ultimo e il primo tipo è l’ateismo: mancando al cachi un apparato cerebrale, viene meno l’intelligibilità dell’ambiente circostante o un suo sviluppo in senso trascendentale. O almeno stimiamo. Uno spinacio vive. Un vegetale umano vive, sa, e trascende, quando consapevole, per dare un senso al suo passaggio terreno. Al vegetale umano non basta la Terra, al vegetale spinacio basta la terra. Un vegetale umano vive, “è saputo” ed è “trasceso” invece, come in un atto passivo, quando è in uno stato di incoscienza o di perdita delle capacità cognitive.
“Sono vivo e vegeto”, diciamo. Attributi che devono essere colleghi per soddisfare il medico, amanti per soddisfare l’individuo. Vegetazione non è vita, vita non è vitalità. Non quando l’individuo umano contrae malattie che lo rendono schiavo della sua data di morte, quando è destinato a rimanere in coma per anni indefiniti, quando è incastrato in un corpo immobile.

Eppure in un altro tempo, in un altro spazio, non si sarebbe posto il problema di tenerlo in vita: solo fino a pochi anni fa si moriva di acetone, oggi curabile con la Biochetasi. Il progredire della scienza, della tecnologia, persino della comunicazione, che danni ne ha provocati, ha fatto sì che non si possa più morire di acetone. Il che va a tutto vantaggio della vita umana, più garantita e protetta. Ma ha anche fatto sì che non si possa più morire. Oggi, 2017, in alcuni casi un cancro è curabile e c’è chi, senza arti, partecipa alle Paralimpiadi e mantiene un margine di forza e dignità che, variando da individuo a individuo, può essere isolato e accresciuto, sostituendo nuove competenze e capacità con le altre andate perdute. Anche la psiche fa la sua parte in ogni singolo caso.

Ma oggi, 2017, è possibile anche mantenere in vita chi, “altrimenti”, sarebbe morto. È questo “altrimenti”, è il condizionale “sarebbe”, che rendono problematica la questione eutanasica. Riflettiamo: anni fa, l’accanimento terapeutico nei riguardi di un “vegetale” non avrebbe fatto molta strada, se non quella che la ricerca e la scienza, in quel momento, consentivano, ben inferiore ai risultati raggiunti in seguito dal progresso. Ho imparato a comprendere le cose attraverso il paradosso, per tornare a normalizzare e relativizzare: così, alla Asimov, immagino un’eutanasia che, in un mondo futuristico ma molto prossimo, sia destinata ad essere l’unica scelta all’alternativa del “vivere-vegetando” per secoli. In un’evoluzione scientifica che corre e che porterà ad infinitivizzare ad libitum le possibilità di sopravvivere, chi potrà stabilire quando è il momento di morire per colui che è mantenuto in vita da una macchina? Chi dovrebbe scegliere l’età in cui fermare le cure? 70, 90, 110 anni? Quale compleanno dovrà essere quello definitivo? E perché non impiegare la criogenetica? Sarebbe possibile che il bambino paraplegico guardi all’insù la mattonella per un centinaio di anni, in perfetta forma in quanto alimentato, seguito, non fumatore: e, parlandogli, osservarlo crescere, sviluppare, invecchiare, morire o lasciarlo, se premorti, in eredità ai legittimari con un legato. Oppure “ucciderlo”, meglio detto, non accanirsi. A che età attivare la procedura della morte medicalmente assistita? Mosè avrebbe scelto di morire se fosse stato in coma? Zaratrusta? Gli antichi longevi pluricentenari? Rita Levi Montalcini cosa avrebbe scelto se a 20 anni fosse rimasta bloccata all’interno della sua lucidità e del suo genio, in un corpo immobile, senza possibilità di comunicare?

Tornando dal futuro, oggi facciamo i conti con la medicina che abbiamo allo stato attuale, quel “vorrei ma non posso” in grado di mantenere in vita “dead men not walking”, detenuti in un braccio della morte che altro non è che se stessi, “le mie prigioni” più mie, aventi una natura totalmente evanescente, l’interiorità, e guardie penitenziarie in camice con cui è inibita ogni comunicazione; quel “vorrei ma non posso” comunque non in grado di salvarli dalla condanna. E si aggiunge il crocefisso in cella, bigottismo religioso, per privare il soggetto della sua personale spiritualità. Non può parlare il politico, non può parlare il cattolico, non può parlare il benpensante a cena, nessuno può farlo; può parlare solo colui che, nella maggior parte dei casi, non può: il malato. Il quale, se legato alla vita, può condividere l’accanimento terapeutico, ma deve poter accedere alle cure ed avere le risorse necessarie per mantenerle. In un contesto pubblico deve avere la fortuna di essere accolto e seguito con amorevolezza, non come un vegetale. Deve seguire un percorso psicoterapeutico, se è cosciente e lucido, e con lui i suoi cari, che al pari sono da accompagnare in un lungo, esasperato percorso.

Pochi giorni fa un italiano, cieco e paraplegico, non riuscendo a grattarsi ma potendo parlare, ha descritto in un video il significato del verbo “prudere”, insegnandoci che il prurito non è per lui un’anticipazione di qualcosa di piacevole, conseguente all’azione del grattarsi, bensì una vera e propria sofferenza, la peggiore: il 39enne milanese Fabiano Antonioni, in arte Dj Fabo, ne parla (con difficoltà estreme nell’eloquio) per minuti interi, “voi non riuscite a capire cosa voglia dire attendere che ti passi quel prurito alla testa”. Così per grattarsi – cosciente, ragionevole, lucido – si è recato con la famiglia in Svizzera, a farsi uccidere. Porta con sé il suo corpo, che più suo non è ma di altri: dei famigliari, di chi gli sta vicino, dei medici, dei media, dei politici, dei religiosi, dei salotti.

Lo stesso accade a un altro italiano, in Svizzera Gianni Trez, 65enne veneto, è morto a Forch, un paesino a venti minuti da Zurigo, dove si trova “Dignitas”, la clinica del “fine vita”. Malato di tumore, la moglie ha dichiarato: “Costretti qui, da Venezia, per una fine dignitosa”. Lucidissimo. “E non è depresso. Abbiamo elaborato a lungo la scelta di venire fin qui. Anche io lo farei. A lui piaceva tantissimo vivere, ma è condannato e vuole morire senza soffrire in modo dignitoso. Perché la vita che ha fatto nell’ultimo periodo per lui non è dignitosa. Ormai pesa cinquanta chili, è costretto alla morfina tre volte al giorno. Il problema è proprio la prospettiva: se sapesse che tra cinque, sei mesi smetterebbe di soffrire allora non lo farebbe. Ma così no”. Servono almeno 10-15 mila euro, solo la la clinica chiede circa 11 mila franchi svizzeri. È il vero caso di fuga dei cervelli dall’Italia: perché di loro, e di molti altri, fugge solo il cervello, il corpo ridotto a un contenitore.

La morte non è una scelta teleogica, ma teleologica. Non serve collezionare le parole di Cristo sulla sofferenza né citare Dante che mette i suicidi in un girone dell’Inferno. C’è chi passa in coma un’intera vita, chi trascorre lunghi anni in stadio terminale. Sono i suoi genitori, figli, aventi diritto, ad ucciderlo nel caso di eutanasia? Sono loro, insieme al medico che li sostiene, i boia dell’accanimento terapeutico? Non in Oregon, non in altri Stati americani, né in Colombia o in Canada, non in altri Paesi in cui la morte medicalmente assistita è operativa. Si è assassini sempre o mai: questo è un concetto universale e la differenza di opinioni e regole, stridendo da Stato a Stato, da Paese a Paese, da religione a religione, da caso a caso, da persona a persona, da medico a medico, persino da malato a malato, non è altro che una conferma che l’eutanasia non è omicidio. L’omicidio è un concetto assoluto, universale, la morte è un effetto pratico prima che spirituale o teleogico. Ovunque è punito chi, con una pistola, uccide un passante. Ciò che muta è la sua valutazione ad opera del legislatore penale, ma sparare a un passante è omicidio in Oregon, in Africa, in Italia e nel sedicente Stato islamico. Un discorso a parte va fatto per l’aborto, lo stupro, l’omosessualità et altera, che cambiano forma e sostanza in ogni hic ed ogni nunc in quanto sono discussi su livelli diversi e hanno diverse implicazioni.

Se il “non uccidere” è universale, perché non si è universalmente concordi sul fatto che l’eutanasia integri la fattispecie di omicidio? Perché l’eutanasia è un concetto relativo, culturale, basato sullo spazio e sul tempo, e sulle evoluzioni umane della scienza; un concetto che dipende e, dipendendo, non ha validità intrinseca. Questa sua non assolutezza lo abbandona nelle mani della politica, della religione, dei progressi della medicina. Ciascuno deve essere in grado, o messo in grado se impossibilitato, di gestire un concetto relativo. “Tu lo faresti?” No. “Ma non sei malato”. Non possiamo immedesimarci, e questo limite non consente di utilizzare ideologie per dire: l’eutanasia no. Soprattutto in uno Stato come il nostro, dove la sanità è malasanità e fa più vittime che la guerra ma, come in guerra, non punisce i colpevoli.

E allora, se spinacio devo essere, se cachi devo cadere, voglio che mi si mangi quando sono maturo, non quando sono marcio, né quando non so più di niente. (Romina Ciuffa)




L’AEREO È MIO E ME LO GESTISCO IO

Ciò che rende pilota un pilota è la solitudine. Non tutte le donne sanno star da sole. Il distacco da terra: senza di esso non si vola. Le ali sono per chi ama il silenzio, per chi ha dolore sulle scapole, per chi ha paura di volare (non c’è atterraggio senza paura: questa consente di sopravvivere, darwiniano meccanismo di difesa). Le donne, più leggere, sono fatte per l’aria più di alcuni uccelli. Volano per passione o per lavoro, praticano tutti gli sport aeronautici, pilotano ogni tipo di velivolo (ultraleggeri, aerei certificati, motoalianti, deltaplani, paramotori, mongolfiere, aerei di linea, caccia, astronavi), si riuniscono in manifestazioni Flydonna, non temono il pregiudizio e sono più attente e preparate degli uomini: è stata proprio una donna, la 24enne Maxi J., copilota, a recuperare con una manovra acrobatica l’Airbus A320 della Lufthansa colpito a marzo del 2008 da una raffica della tempesta Emma durante un atterraggio ad Amburgo, impedendo lo schianto dell’aereo e salvando la vita ai 131 passeggeri e all’equipaggio. In guerra feroci, vere combattenti: l’Unione Sovietica ricorse a tre reparti aerei da combattimento rosa, le “streghe della notte”, che non indossavano il paracadute ritenendo più onorevole morire sui propri aerei.

Fu la prima equiparazione aeronautica tra uomini e donne e andarono tre medaglie di Eroe dell’Unione Sovietica al maggiore Marina Mikhailovna Raskova e alle sue colleghe, che stabilirono un record mondiale di volo nonstop a bordo di un ANT-37 nell’estrema Siberia orientale, coprendo circa 6.000 chilometri in 26 ore e 29 minuti. Ieri ribelli, oggi audaci. Come la romana Angie Ciuffoletti, campionessa europea di paramotore, anche detentrice di un guinness di velocità e di tutti i titoli che spettano a una numero uno. Angie l’ho conosciuta una volta che atterrai sul campo di volo di Otricoli. Ero partita con un Tecnam P92 dalla Flyroma – l’aviosuperficie di un grande uomo volante, Italo Marini, colui che “battezza al volo” quasi tutto il Centro Italia, ma non solo – per assistere a un raduno di paramotoristi; la sera davanti a un camino più grande di noi, quello della Club House, questa paramotorista mi ha raccontato di sé. È in aria da quando era piccola. “Vedere mio padre volare mi ha reso come lui”, ossia immortale. Ogni volta che la incontro ha i piedi per terra ma la testa – bionda, effimera – è dove si trova la sua vela. Perennemente insoddisfatta, e ha ragione: “Al volo, ma soprattutto al paramotore, non è prestata attenzione. Ho vinto praticamente tutti i premi, non solo in Italia, ed è come se fossi una disoccupata tra le tante”. Non è come in America, dove le atlete sono stimate e appoggiate: Angie vince, e la si dimentica.

Ma non è sola. L’Enac (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) nel 2006 evidenziava un aumento negli ultimi anni delle donne pilota: tra il 1980 e il 1999 solo 51 donne risultavano iscritte all’Albo della Gente dell’Aria, mentre in poco più di 5 anni – dal 2000 al 2006 – il numero arrivava a 88. In quella data, l’apporto femminile nel trasporto pubblico era di 6 comandanti e 67 pilote su velivoli di linea, 3 comandanti e 29 pilote su velivoli non di linea, 4 comandanti e 10 pilote su elicotteri non di linea; quindi, 20 istruttrici di volo, di cui 18 su velivoli e 2 su elicotteri. Tra di esse l’altoatesina Martha Heissenberger, prima pilota italiana di mongolfiera; Maddalena Schiavi, allora 48 anni di volo alle spalle; la pilota di elicotteri Paola Bogazzi, titolare dell’Avmap Satellite Navigation, che si occupa di cartografia e sistemi Gps. Io stessa.

Dall’Aeronautica Militare proviene il tenente pilota Stefania Ida Irmici, del 6° Stormo di Ghedi, prima pilota di tornado: il padre non fece nemmeno il servizio militare ma lei a 22 anni aveva un sogno: guidare un jet. “Si può essere donna e pilota allo stesso tempo”, dice. La giovane Charlotte Costantini mi spiega: lei, che è un’antropologa, porta gli aerei dell’AirOne, vola 20 giorni al mese su tratte europee e si sottopone a un addestramento continuo e check rigorosi. Pregiudizi? “Molti. Una volta proprio una signora, appreso che a pilotare sarebbe stata una donna, ha chiesto di scendere dall’aereo. Ma sono riuscita a calmarla. C’è diffidenza ma anche molta solidarietà a bordo, soprattutto da parte delle passeggere”. E aggiunge: “Una volta ho volato con un comandante donna, ma è stato un evento eccezionale”.

Eppure lei, Samantha Cristoforetti, è andata oltre. Non solo aviatrice: è la prima astronauta italiana e la terza in Europa, dopo l’inglese Helen Sharman (che ha volato nel 1991) e la francese Claudie Andre-Deshays (sulla ISS nel 2001). Nata a Milano nel 1977 e residente in provincia di Trento, è tenente pilota di velivoli AM-X e AM-XT in servizio presso il 32° Stormo con base ad Amendola. Alla selezione per lo spazio, che prevedeva la scelta di 6 astronauti, avevano partecipato più di 8500 aspiranti. Laureata all’Università Tecnica di Monaco di Baviera e all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli, è stata la prima donna a ricevere l’onoreficienza della “Sciabola d’onore”.

Allora vado in volo. Decollo dalla Flyroma, pista 09 per vento traverso proveniente da sud-est. Questa navigazione mi porta fuori dai nostri confini senza un piano di volo ben definito. Dallas, Texas. “Sono consapevole che sto rinunciando ad avere una famiglia”, mi confessa Katie Braun, capitano nella Horizon Airlines, istruttore di volo e pilota che negli anni ha insegnato a molti allievi a volare, parecchi di essi italiani e “tutti scioccati di avere un’istruttrice donna”. A capo di un jet Bombardier canadese di 70 posti, è sottoposta continuamente allo stupore di passeggeri e primi ufficiali, nonostante nella sua compagnia su 600 dipendenti 60 siano donne. Ma solo poco più di venti capitane. “Le mie vacanze le faccio in aereo”, com’è naturale.

Riparto. Com’è naturale. Innanzitutto faccio un touch-and-go sull’aereoporto RHV di San José, in California, intitolato a quell’Amelia Reid nota per essere una delle prime donne nell’aviazione americana (la prima pilota del Nebraska, Evelyn Sharp, la iniziò al volo nel 1939), che ha insegnato a volare a più di 4 mila allievi. Un’Amelia da non confondere con la Earhart, protagonista di un (risibile) film che racconta la vicenda della pilota che non lasciò tracce di sé dopo la trasvolata che da Miami la portò a Porto Rico, lungo la costa nord-orientale del Sud America, in Africa, India e Nuova Guinea; dopo 22.000 miglia – ne mancavano 7 mila per compiere il giro del mondo – venne persa a poca distanza dall’isola di Howland, carburante esaurito e comunicazione interrotta. Per alcuni l’operazione fu il prodotto di una missione di spionaggio (nell’isola di Mikumaroro venne ritrovata la suola di una scarpa dello stesso modello e numero di quelle indossate da Amelia), per altri l’aviatrice fu fatta prigioniera dai giapponesi con l’accusa di essere una spia ed in seguito giustiziata mentre, secondo il documentario della National Geographic “Where’s Amelia Earheart”?, sarebbe sopravvissuta ai campi di prigionia e tornata in America sotto falso nome. Che quasi mi pare di vederla in volo.

Per rifornimento atterro ad Ellington, Connecticut. Manica a vento ferma, velocemente libero la pista. Unico aeroplano fra tanti elicotteri per parlare con Susanne Hallen, della scuola della North East Helicopters: “Per lavoro piloto gli Air Atlanta Helicopters, per diletto i choppers”, come l’R-22, un gioiellino sul quale volo spesso anch’io, brevettata e innamorata, e ne conosco le meraviglie dell’atterraggio sulla vetta più alta e innevata di un cucuzzolo d’Appennini, o della merenda accanto alla croce alta del Tuscolo. “Ho il brevetto di pilota commerciale (CPL, ndr) e sono prossima a conseguire i brevetti da istruttore (CFI e CFII, ndr)”.

Si solleva un polverone, vento traverso, meglio proseguire: decollo ala al vento e piede destro, direzione sud-est, bussola 140 gradi, Messico. Lisa Cooper proviene dal Missouri: per 8 anni ha vissuto a Portland, nell’Oregon, lavorando per l’Horizon Air, sussidiaria dell’Alaska Airlines. Pilota un CRJ-700 tra l’America occidentale, il Messico e il Canada: “Volo sin dai tempi del college e voglio entrare in una compagnia di bandiera”.

Quindi bussola 120, Brasile. Dall’alto Copacabana, l’aeroporto di Maricà, il Cristo di Rio, ma mi dirigo (270 gradi) verso San Paolo dove Clarissa Pereira mi racconta il suo primo volo da solista: “L’ho fatto a 18 anni su un elicottero leggero. Da allora non ho mai smesso di volare” e, finite le riprese del video Atlas Brazil per Discovery Channel per le quali ha messo a disposizione le proprie abilità, le hanno detto: “Grazie Clarissa, ci hai incoraggiato a volare”.

Incoraggia anche me per la mia traversata sopra l’Atlantico e rientro a Roma in volo strumentale notturno sopra un aereo di cartone. Atterro per pista 27, il vento ora spira da nord e punta la manica a vento in posizione consueta, ripongo le mie ali nell’hangar della Flyroma e mi fermo un attimo, in silenzio. L’odore è quello dell’erba umida ed è quasi l’alba. Nessuno sa che ho preso un ULM per attraversare l’oceano e parlare di donne. Solo uno struzzo ed un maiale mi guardano. Il primo allunga il collo e, nonostante ali inette al volo, dal mio sguardo si convince che un giorno lo faranno volare. Il secondo mi chiede com’è il cielo, perché i maiali non possono guardarlo. Gli rispondo che è come una donna: inafferrabile. E quasi vive meglio lui, che non lo sa. (ROMINA CIUFFA)