PSICOLOGIA DELL’ASTRONAUTICA: DA GAGARIN AL CONVEGNO ITAPA

di ROMINA CIUFFA. La Psicologia dell’Astronautica inizia nel 1961 con il lancio del primo uomo nello spazio. Alla pubblicazione “La psicologia e il cosmo”, che Jurij Gagarin (astronauta che il 12 aprile 1961 compiva il primo volo orbitale attorno al globo) scrisse insieme a Vladimir Lebedev, può farsi risalire – dicono – il primo testo di psicologia dell’aviazione, del tipo spaziale. Il volumetto era già pronto, ma venne pubblicato postumo: uscì dopo la scomparsa – avvenuta il 27 marzo 1968 nel corso del collaudo di un aereo sperimentale, precipitando con l’apparecchio in un campo a trenta chilometri da Mosca – del suo autore astronautico, colto dal fascino pioniere di una nuova umanità volante e stellare, e da emozioni che aveva già messo per iscritto in “Non c’è nessun dio quassù” e in “Quello che ho visto nello spazio. Psicologia e cosmo nell’esperienza del primo uomo a volare tra le stelle”. Cosa è dei valori dell’uomo, del suo legame con il mondo, con la vita a terra, con i suoi cari e con l’umanità in genere, quando si trova immerso in un’atmosfera estranea a tutto ciò che è “esistenza” o “casa”? Come sono alterate le percezioni, le valutazioni distorte, modificati i criteri di obiettività? Cosa vuol dire essere lontanissimi dalla comfort zone?

Probabilmente, come in guerra, si arriva facilmente a raggiungere un disturbo da stress post traumatico, seppure, anziché la trincea o la morte dei soldati, l’uccisione dei nemici, le ferite, si viva l’esperienza più grande ed “esistenzial-attiva” che una qualunque forma sulla Terra (dalla foglia al girino all’uomo) possa sperare di compiere. E, guardando indietro, non si vede una trincea, non si sente l’odore del sangue: lì, guardando dietro a sé, si staglia un muro di grandezza e infinità, il muro dello spazio. Ossimoro che può spingere chi è stato lassù – per la prima o per l’ultima volta, in un giro orbitale o mettendo il piede sul suolo lunare, lavorando o semplice passeggero miliardario di una missione “sightseeing” – a morire di “nullità”.

Fu attribuita a Gagarin la frase “non c’è nessun dio quassù”, ma sembra (da quanto dichiara colonnello Valentin Vasil’evič Petrov, docente presso l’accademia aeronautica militare intitolata allo stesso Gagarin, suo intimo amico) che fu il politico Nikita Chruščëv a pronunciarla per sostenere la campagna antireligiosa dell’epoca (“Perché state aggrappati a Dio? Gagarin volò nello spazio, ma non vide Dio!”, aveva detto nel corso di una sessione plenaria del Comitato centrale del Partito comunista sovietico). Di certo la sua psicologia, però, ne fu colpita, a prescindere dall’anelito spirituale, e il poeta Salvatore Quasimodo parlò di una esaltazione della “intelligenza laica dell’uomo” relativamente al carattere essenziale del volo di Gagarin, come riportato nella quarta di copertina del testo pubblicato da Editori Riuniti. Tanto che “La psicologia e il cosmo” può essere considerato il primo testo di Psicologia dell’aviazione.

Lo fece notare anche Vladimir Lebedev – primo essere umano a lasciare la sua capsula spaziale per rimanere sospeso liberamente nello spazio compiendo la prima attività extraveicolare della storia – a Lorenzo Mezzadri, presidente dell’Italian Flight Safety Committee (IFSC), l’associazione italiana di esperti di sicurezza del volo impegnata nel miglioramento della sicurezza aerea all’interno della comunità aeronautica italiana. L’Italian Flight Safety Committee nasce sull’esperienza di quanto già realizzato con successo in altri Paesi: Stati Uniti (Flight Safety Foundation) e Regno Unito (UK Flight Safety Committee). La denominazione anglofona dell’associazione è frutto di questo retaggio.

Mezzadri ne parla nel corso di un incontro – lo scorso 6 maggio a Roma – in cui si sono riuniti i maggiori esperti italiani ed europei sulla psicologia dell’aviazione per il primo convegno organizzato dall’Associazione italiana Psicologia dell’Aviazione (ITAPApresieduta da Alessandra Rea, sodalizio formato da psicologi ed esperti di human factor che opera dal 2019 e che rappresenta oggi il polo italiano di aggregazione culturale sul tema. Alla presenza di Alessio Quaranta, direttore generale dell’ENAC, Maurizio Paggetti, CEO dell’ENAV, e David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, che lo hanno introdotto, si è snocciolata la tematica dell’Aviation Psychology e della salute mentale e benessere dei professionisti dell’aviazione, includendo la parte spagnola con Adela González Marín (presidente dell’AEPA, Asociación Española de Psicología de la Aviación) e Francisco Santolaya Ochando (presidente del Consejo General de la Psicología).

Mezzadri, oltre a presiedere l’IFSC, è docente presso l’Università La Sapienza di Roma della materia Psicologia aeronautica ed aerospaziale, insegna presso l’Ispettorato superiore di Sicurezza del volo dell’Aeronautica militare italiana e presso l’Università statale “MGU” di Mosca, è ricercatore negli studi sul fattore umano nei voli spaziali internazionali di NASA, ESA e Rosskosmos e lavora con l’ATO Urbe Aero.

Riassume Mezzadri: 

“Nel 1957 si lancia lo Sputnik, ed è la prima volta che un oggetto costruito dagli umani riesce a superare l’atmosfera e a rimanere in orbita; nello stesso anno il primo essere vivente, la cagnetta Laika (il nome non era quello, “Laika” si riferisce alla razza) viene lanciato nello spazio. Si arriva alla psicologis aerospaziale con il 1961, quando l’Unione Sovietica lancia il primo uomo nello spazio, Jurij Gagarin, dunque la prima donna nel 1963, Valentina Tereskova. È del 1965 la prima attività extraveicolare (EVA), la prima volta che un uomo apre un portellone di una nave spaziale ed esce con la propria tuta, senza sapere se potrà sopravvivere a temperature estreme, mancanza di ossigeno e di atmosfere: fu Aleksej Leonov, con cui ho avuto l’onore di lavorare, che è venuto a mancare poco tempo fa, innamorato del nostro Paese e della psicologia: fu proprio lui a regalarmi un libro, che considerava essere il primo libro sull’Aviation Psychology, scritto dallo stesso Jurij Gagarin insieme a Vladimir Lebedev”.

 
Vladimir Lebedev

Prosegue:

“Il primo volo sulla Luna, Apollo 11, è del 1969; del 1971 la prima stazione permanente Salyut 1, del 1975 il primo incontro e attracco nello spazio tra Usa e Urss con Apollo e Soyux con Aleksej Leonov. Era momento di massima tensione tra i due Paesi, e i due presidenti di allora avevano deciso di dare un segnale di disgelo e di mandare i loro uomini nello spazio per mostrare che si poteva dialogare, e mi fa piacere dirlo adesso, nel momento in cui stiamo, sperando che psicologia e astronautica possano riunire piuttosto che dividere. Nel 1981 fu effettuata la prima missione nello spazio dello Shuttle Columbia, e nel 1986 toccò alla stazione spaziale russa MIR. Nel 1998 si ebbe la prima vera cooperazione spaziale internazionale, la ISS, International Space Station (giapponesi, europei, canadesi ed americani). Il 2004 è un’altra data fondamentale perché abbiamo l’ingresso dei privati nell’esplorazione spaziale, in orbita bassa, con Space Ship One, e nel 2008 in volo orbitale con SpaceX Falcon I, mentre nel 2012 attracca alla ISS la prima navicella privata SpaceX Dragon, fino al 2020, anno del primo volo con equipaggio creato da un ente privato, SpaceX Crew Dragon”.

Le istituzioni, in questo caso la NASA, sono sempre presenti coordinando le attività dei privati. La motivazione è giuridica: i privati possono compiere questo tipo di attività, lanciare razzi o satelliti, però se avviene un incidente in volo di aviazione responsabile è la compagnia aerea con le sue assicurazioni, per quanto riguarda il trattato sulla liability internazionale nello spazio, invece, responsabile diretto è il Paese di lancio e non la società privata che lo ha effettuato. Questo il motivo per cui gli Stati Uniti in questo caso sono coinvolti con la Nasa in prima persona.

Quando si parla di aeronautica, e quando di astronautica? 

“Quando parliamo di psicologia dobbiamo capire subito qual è l’ambito di appartenenza e l’ambiente in cui ci si trova ad operare. La differenza tra astronautica e aeronautica è fissata nel bounder della Kármán Line, una linea immaginaria posta ad un’altezza di 100 chilometri (330.000 ft) sopra il livello del mare che segna convenzionalmente il confine tra l’atmosfera terrestre e lo spazio esterno, oltre la quale lo spazio è di tutti. Infatti, la rarefazione dell’aria oltre quel limite non consente all’aeroplano di sostenersi ancora con le leggi dell’aeronautica, ed interviene il fattore velocità: per questo le capsule spaziali non hanno una forma particolarmente aerodinamica, non essendo questa importante per il volo oltre certi limiti. Questa è la prima divisione tra aeronautica e astronautica”.

Il primo problema che hanno gli psicologi dello spazio è la scarsità di materiale umano. Nella storia dell’esplorazione spaziale abbiamo solo 565 astronavi dal 1957, 500 uomini e 65 donne, di cui 7 astronauti italiani (Roberto Vittori e Paolo Nespoli ne hanno fatte tre), ed è difficile lavorare con questi dati, essendo statisticamente molto bassi.

“È molto difficile riprodurre quello che succede in orbita qui sulla Terra, cosa abbastanza diversa rispetto al mondo aeronautico dove si hanno simulatori molto sofisticati. L’assenza di gravità è l’ostacolo più ingombrante. Esistono dei voli parabolici, ossia dei voli in cui gli aerei compiono parabole salendo e scendendo per circa trenta volte, ma il momento in cui si sperimenta la fluttuazione non dura oltre 30 secondi, per cui è difficile abituare l’astronauta all’assenza di gravità che sperimenterà nello spazio. Nelle piscine, invece, ci si immerge con una tuta riempita d’aria per simulare le attività extraveicolari, che consente di galleggiare sott’acqua senza salire e senza scendere. Si fanno corsi di sopravvivenza, nel caso nel rientro qualcosa andasse storto: a parte lo shuttle, si cade giù come sassi”.

Uno dei problemi nella psicologia degli astronauti prima della missione è il workload management. L’addestramento viene fatto in tre luoghi diversi: Giappone, per la presenza di simulatori di una parte della ISS, a Colonia per altre parti, negli Usa, e infine nel Paese di lancio, in un solo anno. Ciò comporta problematiche anche culturali e di background professionale, a partire dal team building. Se prima gli equipaggi erano composti da soli americani o soli russi, da un certo punto in poi si è cominciato ad avere degli equipaggi misti, necessitandosi così degli approcci diversi.

Durante la missione, gli astronauti devono scontrarsi con:

  1. stress sensoriale e motorio (zero G di gravità);
  2. mancanza di privacy;
  3. disturbi del sonno (un giorno sulla Terra equivale a 90 minuti nello spazio);
  4. rischio di conflitti interpersonali a bordo;
  5. lontananza dalla famiglia e dalle persone care; in una parola sola, dalla Terra.
Dopo la missione, i problemi riguardano:
  1. il riadattamento alla gravità;
  2. il reinserimento nella vita quotidiana;
  3. la sindrome dell’adattamento post missione (depressione, ansia, difficoltà di adattamento).

Rispetto a questi punti psicologici, Mezzadri cita il libro “Moondust – In Search of the Men Who Fell to Earth”, in cui il giornalista Andrew Smith rintraccia i nove membri sopravvissuti del gruppo d’élite che ebbe l’opportunità di essere a bordo delle missioni Apollo, per trovare le loro risposte alla domanda: “Dove vai dopo essere stato sulla Luna?”. L’intervista venne interrotta da una telefonata che annuncia la morte di uno dei dodici moonwalkers, Pete Conrad.

Romina Ciuffa




ITA LIKES LUFTHANSA (TRA “POSTORI” ED IMPOSTORI)

Roma, 3 marzo 2023. Mi lascerò trascinare dal filo del discorso in un volo sì, ma pindarico, e parlerò qui di due cose: 1) il verde-Alitalia e l’incontro paventato tra ITA e Lufthansa; 2) il fenomeno della “influencer-sizzazione” di piloti e cabina crew. 

1) Dove è ricresciuto l’estirpato verde-Alitalia? Fallita Alitalia, nasce ITA (con un nome che richiede l’accostamento ad “Airways” per non confondersi con un semplice suono, in realtà acronimo di Italia Trasporto Aereo) – ITA Airways. Neonata, si parlava già di un nuovo futuro da brand Alitalia (lungimirantemente acquistato da Ita). Il volo ITA l’italiano lo prende così, solo per fare voli diretti, l’Alitalia si prendeva per “fede”, per avere accanto quegli assistenti di volo (ex hostess e stewards), per sdraiarsi in ambiente amico, perché il verde era stare a casa, sebbene ne parlassimo malissimo: non era vero. ITA la si prende così, per disperazione, sapendo anche che solo alla fine della transazione di acquisto si aggiungono spese del bagaglio che non sono incluse, ovunque si vada: vera e propria low cost con prezzi high, le valigie da 23 kg non sono comprese nel prezzo del volo intercontinentale che dà la pretesa di partire “leggeri”.

A noi la scelta: leggeri o alleggeriti.

Pare se la comprino i tedeschi. Altro giro, altra corsa, altro volo: arriva la Deutsche Lufthansa AG, che punta ad acquisire una partecipazione nella compagnia italiana con l’acquisizione iniziale di una quota di minoranza, ed opzioni per l’acquisto delle restanti azioni poi, presentando al Ministero dell’Economia e delle Finanze italiano la bozza di MoU (Memorandum of Understanding) e, quando sarà firmato il protocollo d’intesa, arricchendo la transazione con negoziati su base esclusiva prediligendo la forma di un investimento azionario, dell’integrazione commerciale e operativa di ITA nel Lufthansa Airline Group e delle conseguenti sinergie. Per Lufthansa Group, l’Italia è il mercato più importante al di fuori dei suoi mercati interni e degli USA, tanto per viaggi d’affari quanto privati,​​ merito della forte economia orientata all’esportazione e dello status belpaesino di uno dei migliori luoghi di vacanza d’Europa.

Sottoscriverei: vacanza. Viverci? Meglio fare vari scali.

Ma se noi pensiamo a casa, non pensiamo a ITA. Non c’è nulla che ricordi Alitalia se non la lingua ufficiale, corretto nell’ottica di un cambio di “rotta”, non nel senso di  un’appartenenza reciproca (Alitalia è nostra, noi siamo Alitalia). Proprio come nelle pubblicità di oggi non c’è nulla che ricordi il Carosello: il Carosello si seguiva, si correva alla tv (chi l’avesse) alle otto di sera, e BOOM, pubblicità. Oggi durante i “consigli per gli acquisti” ci si assenta, si fa un veloce (nemmeno troppo, data la durata degli annunci) zapping, si fa la pipì e si scola la pasta: e meno male che c’è la pubblicità, per le vesciche di tutti. Come non bastasse gli annunci non si guardano più per comprare:  cosa pubblicizzava? Chi se lo ricorda. Morta di recente pure la camicia coi baffi.

Così ITA. Ci si sale perché è l’unica che, se tutto va bene (non sono poi così tanti i collegamenti), non fa scalo, spendendo obtorto collo di più di British o Wizz e altre, che garantiscono prezzi inferiori. Si sale su ITA, ci si guarda intorno (vediamo le differenze con Alitalia), ci si sente “strani”, a disagio quasi, e si chiudono gli occhi, in attesa di “il capitano vi informa che fra qualche minuto atterreremo”. In Alitalia c’era la famiglia, come dove c’era Barilla: c’era casa. Oggi invece, oltre ad essersi “volatilizzato”  tutto il cabin crew  prima impiegato in Alitalia (ci sono i sindacati e i ribelli, ci sono coloro che hanno ripreso il posto incorporati in ITA, ci sono coloro che “postano” vorticosamente, ci sono coloro che si sono dovuti rifare una vita, e quelli che hanno imparato a conoscere le mogli e spadellano come gran parte della popolazione globale post-Covid).

Niente più biglietti gratis per hostess e compagn*, per pilota e amici, niente più voli da regalare, niente più sex symbolism degli impiegati dell’aria, che ora divengono veri e propri fantasmini in cabina e che, anche per questo, si sono messi ad instagrammare a tutto spiano per dare un senso e sfondare, chissà, il muro del suono non a 343 m/s bensì in stile Ferragni.

2) C’è una compagnia aerea nel mondo che stia mettendo un freno al dilagare di un fenomeno pericoloso e non professionale quale quello del post? Fotografarsi e fare video durante l’orario di lavoro: è la resa dei conti. Selfie sexy dentro alle ventole dei motori, selfie nei bagni, selfie coi passeggeri, selfie coi bambini in cabina, selfie di qua, selfie di là, sperano di guadagnare soldi, quantomeno followers, con blog e fotarelle da nuova generazione, eppure sono disperati. Tra “postori” e “impostori”, hanno perso il senso della loro professione. Hanno perso il volo – lo hanno preso fisicamente, ma ne hanno perso il valore (valore di volare) e, volando, postano, che è come dire: stanno sempre in basso, nei pressi di un server. Prima da terra si sognava di volare, ora in volo si sogna di atterrare. Così, atterriti, volano e servono (a pagamento) polletti implasticati, senza più il benessere di sentirsi completi attraverso il lavoro, scendono gli scalini dell’aeroplano come Shakira in una sfilata di Victoria Secret, e sfilano al gate, certi di essere ammirati da tutti per la divisa. Finalmente a terra.

Sul social TikTok sono cinquantenni (+) che, dopo aver pilotato 747 per anni o portato da professionisti interessanti e invidiati i vestiti verde-Alitalia, si trovano a fare i ventenni, cercare followers, espletare balletti nei corridoi degli aereomobili, sapendo che tra i sedili non saranno presi per pazzi, esaltati, troppo vecchi, poco professionali. Piuttosto riceveranno likes. L’assistente di volo comunque, vola e, mentre spiega sul suo canaletto TikTok seguito da migliaia di spettatori, ops, visualizzatori, come si tira la catena sull’aereo o ci si rapporta con una turbolenza, guadagna lo stipendio.

Così il pilota, che non decolla senza una GoPro sul capolino. Altro che spiegare una turbolenza: chissà che l’amministratore delegato Lufthansa non faccia un TikTok per allinearsi coi tempi. Comprare ITA non basta, serve il like.

Romina Ciuffa




DEPRESSIONE, GRATIS LA PRIMA SEDUTA DALLO PSICOLOGO E IL PIL SALE

di ROMINA CIUFFARoma, 4 ottobre 2022. Curare ansia e depressione non è semplice. Inoltre, è molto costoso. Genera costi per il singolo individuo (fisici, psicologici, economici) e per l’intera società, che non è in grado di sostenere un allarme così sottile, invisibile, e nel contempo ampio e generalizzato (si aggiunga: generatore di vergogna e silenzio). Intervenire tempestivamente sarebbe la regola n. 1, ma “tempismo” non fa rima con “comprensione dei sintomi, accettazione, reazione”. Anche solo l’individuazione e la diagnosi di quella che è una delle malattie più nude e crude dell’intero panorama psicologico, quando non somatico, è qualcosa di estremamente difficoltoso e costoso. Idem per la prevenzione, praticamente impossibile: la depressione è un male democratico, che colpisce tutti, oltre ogni classe sociale, ceto, ricchezza, benessere, oggettività. Non vale il motto, sempre ben espresso da madri, amici, spesso anche professionisti: “Ma se hai tutto!”. Anzi: quest’ultimo non fa che esacerbare la dinamica e la profondità dell’oscuro male, che scava, scava, fino a lacerare i tessuti fisici del soggetto, distruggendolo come un cancro incurabile, che non ha nemmeno la chemioterapia per sperare.

Certo, subentrano qui i terapeuti, più precisamente, gli psicoterapeuti. Ma con bassa riuscita (solitamente chi è in cura da uno psicologo per depressione, vi rimane per il corso della sua intera esistenza o fino a quando non si dichiara il fallimento della terapia, o del portafogli di contenimento). C’è anche chi canta vittoria, “sono guarito”, e poi vi ricasca. Sono spesso affiancate alla psicoterapia delle cure a base di farmaci: chi propende per SSRI, inibitori dei ricattatori di serotonina, chi va dritto all’antiepilettico (il Tolep, ad esempio), chi prescrive l’Haldol, chi fa un mix tra benzodiazepina e antidepressivo – ciò dipende esclusivamente dal medico curante (psichiatra), e in questo caso il paziente (che presso di lui si è recato sotto consiglio dello psicoterapeuta, una extrema ratio da impiegare mentre si prosegue nella terapia dialogica, per calmare la fame di angoscia, dolce compagna) è sottoposto a farmaci che, con buone probabilità (“effetti collaterali”) bloccheranno la libido, daranno modo di ingrassare, impediranno il vero e proprio riposo, recheranno agitazione e mancanza di sazietà biliare e mentale. In questo momento il paziente depresso ha già, più o meno, speso migliaia di euro tra psicoterapia e visite di controllo e cambiamento/aggiustamento farmaci. Ciononostante, si sente molto depresso, l’effetto che lo Zoloft o la Paroxetina nelle prime settimane sembrava suscitare diviene un ricordo, al punto tale da dover aumentare la dose, quindi aumentarla ancora fino a dover iniziare a scalarla, quindi scalarla, quindi azzerarla. E cambiare farmaco. Lo psicoterapeuta se ne sta lì, un’ora a settimana (o due), in presenza od online ormai (niente di peggio per un paziente depresso, niente di meglio per un terapeuta comodo), ad applicare protocolli o ad ascoltare cosa c’è che non va, con la formula di rito: “Come va questa settimana?”, e play.

C’è un progetto degno di nota che si è rivelato alla stampa e sul panorama italiano proprio ad ottobre 2022: con la premessa che “la pandemia e le molte incertezze di questo momento storico hanno contribuito a far aumentare i casi di ansia e depressione”, l’ENPAP, Ente di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi, ha finanziato il progetto “Vivere Meglio”, realizzato in collaborazione con SCUP (il Centro di Ateneo per i Servizi Clinici Universitari Psicologici) dell’Università di Padova, e con l’AIP (Associazione Italiana di Psicologia), mettendo a disposizione per sei mesi un numero di mille psicologi, selezionati e formati appositamente negli ultimi mesi con un bando regolare,  per permettere ad almeno “10 mila cittadini di accedere a trattamenti gratuiti attraverso il sito viveremeglio.enpap.it, attivo dal 1° di ottobre”. Basterà accedere al sito viveremeglio.enpap.it per effettuare, senza alcun costo, un test scientificamente validato e finalizzato a valutare se sono presenti le condizioni per intraprendere un percorso, anch’esso gratuito, che andrà da 10 a un massimo di 14 incontri con psicologi e/o psicoterapeuti selezionati da ENPAP e formati all’utilizzo di protocolli, aggiornati ed efficienti, con un solido impianto scientifico. Sul sito di Vivere Meglio si troverà anche una serie di opuscoli informativi di auto-aiuto, creati ad hoc sulla base delle più recenti conoscenze scientifiche, che forniranno consigli e indicazioni efficaci per gestire i segnali iniziali di disagio psicologico.

Secondo Felice Damiano Torricelli, presidente dell’ENPAP:

«Accanto a chi soffre di ansia e depressione ci sono i familiari, i caregiver e intere comunità che colgono e gestiscono il carico di questi problemi. Ansia e depressione, spesso, sono causa di assenteismo e di cali drastici nel rendimento, lavorativo e scolastico, e hanno pesanti ripercussioni sulla qualità della vita personale, relazionale e lavorativa. Ma, ancora oggi, nonostante i dati confermino tutte le ricadute negative di ansia e depressione, questi disturbi non ricevono risposte adeguate“. 

Lo stigma che ancora aleggia sul ricorso agli interventi professionali degli psicologi costituisce un freno a prendersi cura del proprio benessere emotivo e mentale, mentre il sistema pubblico investe in maniera drammaticamente insufficiente. Prosegue Torricelli:

In linea di massima, chi accede con più difficoltà alle terapie psicologiche sono proprio le persone meno abbienti, già in condizioni di difficoltà sociale ed economica, che vengono esasperate proprio da questi disturbi, e che ne riducono ulteriormente le possibilità di ripresa. Vivere Meglio vuole dare una mano a fronteggiare le difficoltà di questo momento storico, che sta provando tutti da troppo tempo e ha comportato un ulteriore aumento del disagio psicologico e dei disturbi collegati allo stress continuativo».

  Felice Damiano Torricelli, presidente ENPAP

Riporta l’ISTAT: i sintomi depressivi aumentano con l’avanzare dell’età (sfiorano l’8% fra i 50-69enni), fra le donne (poco meno dell’8 per cento), fra le classi socialmente più svantaggiate per difficoltà economiche (14 per cento fra chi riferisce molte difficoltà economiche) o per istruzione, fra chi non possiede un lavoro regolare (8 per cento), fra chi riferisce almeno una diagnosi di patologia cronica (13 per cento) e fra chi vive da solo (8 per cento). Tra i senior, una quota consistente di ultra64enni, pari al 21 per cento, riferisce sintomi depressivi.

“Vivere Meglio” utilizza un modello di intervento stepped care, per cui gli interventi vengono dosati in relazione al bisogno di ogni persona, in maniera molto mirata e graduale. Si ispira all’esperienza inglese di Improving Access to Psychological Therapies (IAPT), progetto che il sistema Sanitario UK realizza da più di 10 anni per erogare interventi psicologici brevi e mirati a chi ha disturbi emotivi comuni, nato in effetti più sotto una spinta economica che non solidale: diversi studi hanno rilevato i costi economici che ansia e depressione comportano, abbattibili con interventi di terapia psicologica ben strutturati. Lo IAPT permette a tutti i cittadini britannici di accedere gratuitamente ai trattamenti psicologici, anche a coloro che hanno meno risorse economiche, annullando i problemi di equità nell’accesso alle terapie psicologiche, offrendo sostegno, counseling e psicoterapia a oltre un milione di persone l’anno, consentendo di effettuare prevenzione, evitare i costi legati alle assenze dal lavoro e la correlata perdita di competitività del Paese, abbattere molti altri costi sanitari, ridurre la disabilità con un impatto sensibile sui costi per pensioni e sussidi pubblici.

Di certo, attraverso questo nuovo impegno, l’ENPAP dimostra di aprirsi al mondo e di farlo con uno sguardo lungimirante, di tipo preventivo. L’attivazione del voucher gratuito, però, non comprende l’intero intervento (che viene effettuato secondo un protocollo di dieci sedute al massimo, con una sorta di “garanzia” sul risultato, quella data dalla metodologia). Questo va comunque a vantaggio dello psicoterapeuta che, attraverso il nuovo sito ENPAP, può raggiungere più pazienti, sebbene abbia un rigoroso limite da rispettare nel numero delle sedute e nella deontologia. Il voucher può essere attivato altre volte, ove l’utente ne faccia richiesta in quanto non si trovi a proprio agio con lo psicoterapeuta che gli viene assegnato; questo passaggio, infatti, è effettuato quasi in via automatica dalla piattaforma che – sulla base degli orari, delle disponibilità, della localizzazione, delle competenze del professionista – procede al “match”, un po’ come su Tinder. Una regola ben precisa: il colloquio (e l’intera terapia) sarà effettuato de visu, escludendosi a priori il ricorso all’online. Da tutto ciò, emerge che ne guadagneranno tutti:

  • potenziali pazienti che potranno – oltre a condurre piccoli autoquestionari e seguire i consigli del bot – conoscere un dottore disposto a seguirli che non faccia pagare la prima visita, eliminando così il primo grande ostacolo alla (ennesima) consultazione di un professionista: il costo, e promettendo la risoluzione in poche sedute (il limite massimo consentito dal metodo adottato dall’Enpap). E si sa anche che, dov’è gratis, l’italiano va (dura lex);
  • il Paese: ove l’Italia fosse pronta almeno quanto il Regno Unito, e sia in grado di riconoscere la sintomatologia dello specchio di dolore invisibile che nutre ansia, depressione e correlati, ma soprattutto, accettarla, potrebbe generarsi un impatto sul PIL. Il progetto complessivo fornirà una mole importante di dati e sarà oggetto di uno dei più ampi studi realizzati in Italia sul trattamento di ansia e depressione; la successiva valutazione di impatto consentirà di verificare e comunicare i benefici in termini di risparmio di costi e risorse. Inoltre, sebbene la parte operativa del progetto duri sei mesi (da ottobre 2022 a marzo 2023) con un carico valutato in circa 10 mila cittadini, il portale e i materiali realizzati (come la procedura informatica di screening psicologico e gli opuscoli di auto-aiuto,) resteranno a disposizione;
  • gli psicologi, anzi, quei mille psicologi selezionati – che hanno ottenuto un corso di formazione gratuito, conosciuto una metodologia breve-strategica, aggiornato il database pazienti, sperimentato il nuovo, rinunciato al comodo online (e si sa anche che, dov’è gratis, l’italiano va: repetita juvant).

È impossibile, al momento, avere un binocolo per catturare un futuro in cui la depressione sarà risolta in poche sedute; ma non pagare la prima già consente di sperare nella seconda. Banale, ma schietto. (Romina Ciuffa)

 




PSICOLOGI DELL’AVIAZIONE: IL VOLERE CAPACE DI INTENDERE E DI VOLARE

di ROMINA CIUFFARoma, 24 giugno 2022. Facile dire “volare”, prova a “volare”. Un elemento, l’aria, che non ci appartiene se non perché abbiamo voluto appartenervi – dall’iconografica di dei con le ali ad Icaro, dagli aquiloni di stampo militare a Leonardo da Vinci, dai fratelli Montgolfier ai fratelli Wright fino a Fiorenza De Bernardi, Chesley Sullenberg, Samantha Cristoforetti. Facile cantare “Volare”, prova a pilotare un Boeing 747 o un Robinson 44. Prova ad avere la responsabilità di un volo e dei suoi passeggeri, lo stress psicofisico che da terra sale a bordo, anche le sfide della maniacalità egotica dell’essere un vero e proprio deus ex machina, è il caso di dire: un Dio in terra che governa una macchina. Volante.

La psicologia in aviazione è sempre stata presente, sin dai tempi iconografici, quando ancora l’aviazione non esisteva. Come dire: è nata prima la psicologia dell’aviazione dell’aviazione stessa. Ne è l’emblema n. 1 Icaro, identificazione di ambizioni smisurate incontrollabili e a qualunque costo, una nevrosi, dalla megalomania alla caduta nel vuoto. Ciò che è mancata è stata la dedica, da parte della psicologia stessa, di una branca interamente concentrata sull’aviazione stessa, che predisponesse – dopo un attento studio in specificità – gli strumenti per affrontare le continue, diverse, estenuanti, spesso troppo sotto pelle per non essere pericolose, sfide in cui il pilota e le altre figure correlate al volo si cimentano. E non solo in fase di crociera; non solo in fase di decollo e di atterraggio; sempre, nella “testa per aria”. Difatti: “Those who work in flight environment work in a hostile environment”, verbalizzava ad Amsterdam il dottor Frank S. Preston, direttore dei servizi medici di British Airways, durante il simposio “Safety and Efficiency in Airline Operations in the next 50 years” nel 1979, e più specificamente descriveva già alcune influenti caratteristiche psicofisiche e conseguenze del lavoro in aviazione nel suo articolo “Work in the Aviation Environment” del 1974.

Prima del 2018, nulla. Quindi, l’incipit: il Regolamento 2018/1042 della Commissione (EU) il 23 luglio 2018 (in Gazzetta il 27) che finalmente stabilisce “i requisiti tecnici e le procedure amministrative concernenti l’introduzione di programmi di sostegno e della valutazione psicologica dell’equipaggio di condotta e di cabina degli aerei”, e contiene la sintesi delle raccomandazioni elaborate dalla task force istituita dall’Agenzia europea per la sicurezza aerea (EASA) a seguito dell’incidente Germanwings del 2015.

GERMANWINGS 2015. L’Airbus A320-200, in servizio fra Barcellona (Spagna) e Düsseldorf (Germania) il 24 marzo 2015, precipitò al suolo con 150 persone a bordo per un’azione deliberata del primo ufficiale durante la fase di crociera sulle Alpi di Provenza francesi. Da quanto restava della scatola nera, emerse che il primo ufficiale Andreas Lubitz, approfittando dell’uscita del comandante Patrick Sondenheimer dalla cabina di pilotaggio, si barricò al suo interno e pilotò il velivolo diretto contro il suolo. Nella traccia audio furono registrati, dalle ore 9:34 UTC, i tentativi del comandante di rientrare in cabina, e alle 9:40 gli ultimi violenti colpi contro la porta della cabina. Il suicida tedesco si era ritirato per 11 mesi dall’attività per una grave depressione, fu poi giudicato idoneo a riprendere il comando; durante le indagini, in un bidone dei rifiuti fu rinvenuto un certificato medico che attestava che, il giorno dell’incidente, Lubitz sarebbe stato inabile al lavoro. La Germanwings non aveva avuto accesso a questa informazione, né avrebbe potuto considerate le norme tedesche a tutela della privacy.

 

Nella fase di recepimento delle norme europee interveniva anche il Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi (CNOP) con il Documento redatto dal Tavolo Tecnico del CNOP sulla Psicologia dell’Aviazione, approvato con deliberazione del CNOP n. 46 del 23 novembre 2018:

“È augurabile che sul tema in questione, e cioè sulla psicologia dell’aviazione, viste le esigenze e le richieste delle compagnie aeree, si possa quanto prima prevedere ed organizzare una formazione di terzo livello (corso di alta formazione, master, e – perché no – specializzazione post lauream), affinché i giovani professionisti possano orientare in maniera produttiva il proprio percorso professionale”. 

Da allora, sono sviluppati corsi e formazione per psicologi dell’aviazione, ma il percorso non è così scontato. In Italia, si distacca una realtà in particolare, invitata anche al Fly Future 2022 come organizzazione significativa per il futuro (e presente) dell’aviazione: IT-APA, l’Associazione di Psicologia dell’Aviazione in Italia, punto di riferimento per il settore che, nonostante le premesse semplici, è in realtà molto complesso.

Alessandra Rea, psicologa dell’aviazione e presidente di IT-APA, spiega (a margine di FLY Future 2022):

Ancora oggi, quando si pensa allo psicologo dell’aviazione si pensa al concetto classico, ma è più probabile trovarlo in cabina di pilotaggio che non dietro un lettino a prendere appunti”. Infatti, “si tratta di un professionista che è già operativo nell’aviazione, anche un comandante, e che opera applicando al mondo aeronautico le conoscenze e le metodologie proprie delle scienze psicologiche, con lo scopo di supportare i professionisti dell’aviazione a conseguire e mantenere performance che garantiscano elevati standard di sicurezza”.

Può pilotare l’aereo o curare l’attenzione ai passeggeri, può trovarsi in Torre di controllo o dirigere il traffico Ground; e, in più, è uno psicologo. Non è “solo uno psicologo”. Proprio questa la differenza fondamentale rispetto agli altri psicologi, come ad esempio le figure scolastiche: lo psicologo a scuola non è (necessariamente, probabilmente) un insegnante o un bidello; lo psicologo dell’aviazione invece, si trova front line, è parte integrante del sistema, lavora in un contesto di gestione del rischio e ha, come obiettivo, quello di garantire e migliorare i livelli di prestazione in un mondo che è in continuo cambiamento, produttivo di un tipo di fatica e stress le cui conseguenze possono essere molto più dannose che in altri settori.

Lo Human Factor è al centro di tutto.

Lo psicologo, in aviazione, può incontrarsi nei momenti della selezione, dell’addestramento, della valutazione (cui annualmente e sempre si è sottoposti nel mestiere aeronautico) e sì, anche del supporto sic et simpliciter, ossia sul noto “lettino”, se necessario. Lo incontrano, tra gli altri, i piloti, gli assistenti di volo, i controllori CTA, i manutentori, il personale Atsep (Air Traffic Safety Engineering Personnel*), non solo in entrata ma anche nel corso della carriera, nello spostamento di mansioni, nell’evoluzione. *ATSEP è il termine riconosciuto dall’ICAO (International Civil Aviation Organization) per indicare il personale tecnico coinvolto nelle operazioni di funzionamento, manutenzione ed installazione dei sistemi di comunicazione, navigazione, sorveglianza e gestione del traffico aereo (CNS / ATM).

Il Regolamento europeo al punto 2 chiarisce:

“L’Agenzia europea per la sicurezza aerea ha individuato un certo numero di rischi per la sicurezza e ha formulato una serie di raccomandazioni per attenuare tali rischi”. L’attuazione di alcune di esse esige “modifiche normative per quanto riguarda la valutazione psicologica dell’equipaggio di condotta prima di intraprendere voli di linea, la realizzazione di un programma di sostegno per gli equipaggi di condotta, l’esecuzione da parte degli Stati membri di test alcolemici casuali sui membri degli equipaggi di condotta e di cabina e l’esecuzione da parte degli operatori aerei commerciali di test sistematici per il rilevamento di sostanze psicoattive nei membri degli equipaggi di condotta e di cabina”.

In aviazione stress, sostanze, stati umorali, sono “cose diverse”: il termine fatigue in questo settore è usato per descrivere una stanchezza fisica e/o mentale che va ben oltre la normale definizione di spossatezza.

“Essa riguarda l’incapacità di esercitare i propri compiti nella cabina di pilotaggio rispettando le norme di sicurezza delle operazioni volo. In questo campo è auspicabile l’approfondimento delle componenti fisiche, psichiche ed ergonomiche in particolare per le strette relazioni presenti tra sistemi percettivo, cognitivo e sensoriale nell’interazione uomo macchina”Si tratta di alta quota, bassa umidità relativa, rumore e vibrazioni, radiazioni ionizzanti, aria in-door con la presenza di contaminanti fisici, chimici e biologici propri dell’attività di volo commerciale di linea, il cui insieme è certamente in grado di provocare una condizione di stress – la quale, protratta, esaurirà le capacità di adattamento e attiverà la comparsa di quadri patologici. Tale usura, maggiore e diversificata rispetto alle consimili attività professionali, “ci porta ad esemplificare che la fatica statisticamente è fattore del 75 per cento dei casi di depressione e contribuisce, sempre statisticamente, al 15-20 per cento degli incidenti fatali causati dall’errore umano di cui abbiamo i report”

Il Peer-Support è lo strumento principale individuato per favorire il coinvolgimento della categoria professionale sui temi del disagio psicologico, per diminuire paura, giudizio e stigma, per segnalare precocemente i comportamenti disfunzionali mettendo in atto percorsi di sostegno psicologico (qui il documento EPPSI Guide on Peer Support 2nd Edition October 2020). Si tratta del supporto dei “pari”: nel contesto di un programma di supporto “un pari” è un collega che condivide qualifiche ed esperienze professionali comuni ed ha riscontrato situazioni, problemi o condizioni simili con il personale che richiede assistenza. Il pari per ricoprire tale ruolo riceve idonea formazione.

Nelle situazioni di crisi, in cui il picco di stress è alto, i programmi di supporto offrono immediati protocolli che consentono di mettere in atto e sviluppare resilienza e di recuperare in un breve lasso di tempo capacità di funzionamento e di superamento dello stato di crisi, senza avere impatti sulla propria salute psico fisico sociale. Quando ciò non basta a garantire il recupero rapido della persona, si procede con il continuum di cura, esterno al programma ITAPA, per il tempo necessario, che si può configurare sotto forma di percorsi di trattamento psicoterapeutici o di coinvolgimento di specifici team medici specializzati.

Rea descrive l’Associazione che presiede:

“L’IT-APA e si inserisce nel network dell’EAAP (European Association for Aviation Psychology) che compone il ‘work package’ relativo al modello di competenze richieste dall’aviazione. Essa sostiene il benessere e la salute mentale dei professionisti nel mondo dell’aviazione, contribuisce al mantenimento di elevati standard di sicurezza supportando gli stessi professionisti e le organizzazioni a gestire meglio la loro performance, promuove e tutela la figura di psicologo dell’aviazione; inoltre compie attività di ricerca in vari ambiti, ad esempio in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma; supporta protocolli di ‘assessment’ per la valutazione, organizza corsi di formazione per i colleghi in aviazione e attiva programmi di supporto, in particolare due: uno dedicato alle organizzazioni e ai soci sostenitori, quali compagnie aeree di area fissa e rotante, una dedicata a chi è uscito dal mondo dell’aviazione a causa della pandemia”.

Quali i programmi dell’IT-APA? Micaela Scialanga psicologa dell’aviazione, comandante di linea, segretario generale dell’IT-APA, e coautrice del libro: “Dopo Germanwings, la vita del pilota di linea”, specifica:

“Il Regolamento per la prima volta obbliga le compagnie ad avere un programma implementato, gestito e coordinato da uno psicologo esperto in aviazione. Sono due i programmi. Il primo è il Support Program, di cui committenti sono le compagnie aeree e all’interno del quale tre psicologi dell’aviazione supportano il peer creato ne loro interno, e una squadra di piloti ‘peer’ iscritti ad IT-APA e da essa formati con un addestramento ricorrente ed incontri di confronto. Il senso del peer è fornire un confronto al professionista”Prosegue: “Il secondo programma è l’Here I Am, messo a disposizione gratuitamente per rispondere ai singoli che chiedono un contatto; fornisce tre colloqui gratuiti con uno psicoterapeuta esperto, che lavora su base volontaria; svolge un’attività per coloro che, per interruzione momentaneamente a o fine carriera, non hanno lavoro e si trovano in un momento di difficoltà. Il servizio è attivo dallo scorso dicembre, e dal primo giugno è esteso anche agli ex operatori di scalo”.

Che contributo può dare ITAPA allo sviluppo della carriera in aviazione?

“Aiutiamo a gestire lo stress e la fatica, a migliorare le abilità cognitive a partire dalla stessa preparazione degli esami, ad acquisire competenze utili a collaborare in modo efficace in team, forniamo un aiuto per l’orientamento nelle scelte e, in generale, un supporto nei momenti di difficoltà”, conclude il Comandante Scialanga.

Dove un controllore del traffico aereo incontra uno psicologo dell’aviazione? La risposta è del presidente Rea:

“Innanzitutto nella selezione. Quindi, entrerà e farà attività di formazione, con un modulo di Human Factor nel quale, a ancora, uno psicologo spiegherà. Successivamente, nel simulatore si avranno le prime difficoltà da stress per un carico di lavoro che comincia ad essere alto, con un impatto negativo sulla paura di essere valutati. Il supporto qui è fuori e dentro al simulatore. Concluso quell’iter, in torre o in un centro radar, si troverà sempre uno psicologo dell’aviazione a sostegno”. 

In IT-APA si sono domandati se l’applicazione della nuova regolamentazione europea possa incoraggiare i lavoratori dell’aviazione a ricercare aiuto dai peers e dagli psicologi. E hanno girato la domanda con un questionario a scelta multipla, nella ricerca Giving-Voice-to-Crew-Members-to-Enable-an-Effective-Support-Programme-Preliminary-Results-of-IT-APA-Support-Survey-2020. “Conclusion – The work underlines that the application of the EU Regulation may not be enough to encourage flight crews to request for help”. 

Ossia, potrebbe non essere sufficiente. I risultati confermano una riluttanza dei membri dell’equipaggio a chiedere aiuto. L’efficacia di un programma di sostegno è quindi strettamente connessa a precedenti interventi, il ​​cui scopo deve essere quello di promuovere una crescente domanda del servizio da parte dei futuri utenti. Per creare un circolo virtuoso, gli operatori dovrebbero sviluppare una campagna incentrata non solo sull’informazione sul programma di supporto (già obbligatorio), ma anche sullo sviluppo dell’autocoscienza degli equipaggi sul rapporto tra benessere psicologico e qualità delle prestazioni professionali e della vita personale. Inoltre, un’efficace attuazione del programma da parte degli operatori aerei dovrebbe andare al di là della conformità normativa minima: gli equipaggi di volo devono essere informati dei vantaggi derivanti dal programma di sostegno e coinvolti nella sua attuazione. Questo è l’unico modo per fornire loro un reale supporto in termini di benessere psicologico e per garantire la sicurezza e la qualità delle operazioni di volo.

“Volere volare” sì, ma che il volere sia capace di intendere e di volare.

Romina Ciuffa




SPAZIO: SULLA LUNA E SU MARTE, SI SPOSA E SI PARTE

di ROMINA CIUFFA. Reportage Spazio dal Fly Future 2022, l’evento ideato da Luciano Castro. 

È lui, l’astronauta della porta accanto. Franco Malerba, il primo italiano a varcare i confini della stratosfera e arrivare di là, consapevole di avere (il 2 per cento di) probabilità di arrivare nell’aldilà. Da Busalla (Genova) fino a 508 chilometri in su, sullo Space Shuttle Atlantis della NASA, per portare un satellite Tethered (letteralmente “legato”) nello Spazio e testarne le potenzialità indicate da Mario Grossi, che ne concepì il progetto già nel 1972 al fine di risolvere il problema delle comunicazioni adottando una lunga antenna di 100 chilometri, la quale si sarebbe potuta srotolare da un satellite posto in orbita geostazionari; e da Giuseppe “Bepi” Colombo, il “meccanico del cielo”, che ipotizzò sistemi a filo legati ad uno shuttle che potessero generare energia elettrica o sfruttare l’effetto fionda per immettere in orbita altri satelliti, e alla cui scomparsa – unita al fragore della prima tragedia dello Shuttle Challenger – si deve il procastinamento della missione, concretizzatasi solo nel 1992.

Per questo si può certamente affermare che la vita di Malerba fosse legata ad un filo. Esattamente tra il 31 luglio e l’8 agosto del 1992, a bordo della missione spaziale del Programma Space Shuttle (150imo volo umano nello Spazio) avente l’obiettivo primario del dispiegamento di EURECA (European Retrievable Carrier) dell’Agenzia Spaziale Europea e l’esperimento NASA/ASI Tethered Satellite System (TSS). Finalmente un astronauta italiano, ma anche una missione “in italiano”: infatti, “Agenzia Spaziale Italiana” era scritto tutto per intero per sottolineare la presenza dell’ASI, mentre oggi non è più necessario ricorrere all’iscrizione per esteso dell’intero nominativo, essendo sufficiente indicare “ASI”. Ovvero sia: l’ASI non ha più bisogno di introduzioni, ed è conosciuta a livello internazionale. Tanto che lo scorso 7 gennaio Samantha Cristoforetti ha ricevuto dalle mani del presidente della Repubblica Sergio Mattarella il tricolore italiano da portare sulla Stazione Spaziale Internazionale, verso la quale è partita il 27 aprile 2022 alle ore 09:52, decollando dal John F. Kennedy Space Center con la missione SpaceX Crew-4.

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Ma le cose cambiano, e le referenze nello Spazio ora sono anche private, società appaltanti e grandi finanziatori lavorano per rendere lo Spazio un luogo “conosciuto”. Di questo è consapevole anche Paolo D’Angelo, fellow della branca italiana della British Interplanetary Society, giornalista ed esperto di missioni spaziali, che parla di vero e proprio turismo spaziale destinato ad ampliarsi enormemente, ma già attivo e concreto. Tanto che Astro-Samantha è stata selezionata per partire con la compagnia privata SpaceX (Space Exploration Technologies Corporation) fondata già nel 2002 dal multimiliardario Elon Musk allo scopo direndere lo Spazio accessibile e sostenibile grazie all’abbattimento radicale dei costi. Un abbattimento che, di certo, non sarà sufficiente a mandare “di là” semplici “ricchi”, o a fondare una “Hertz” delle astronavi; ma che di certo apre l’era dello sfruttamento commerciale dello Spazio e di una space economy volta a rendere l’umanità una specie multiplanetaria, capace di vivere anche lontano dalla Terra, includendo un nuovo movimento basato sull’innovazione, sulla Terra e sugli altri pianeti – a partire da Marte.

Malerba descrive il suo volo nello Spazio:

“Nel 1992 ero a bordo per portare nello Spazio un satellite molto particolare tenuto attaccato con un filo allo shuttle. Decollo: a bordo si sobbalza. I razzi laterali sono molto vigorosi e l’atmosfera resiste alla nostra avanzata. Rapidamente arriviamo in orbita ed il mondo cambia, siamo in assenza di peso e la Terra ci appare da lassù. Tutto diventa più complicato nella predisposizione degli esperimenti. La Terra ora è visibile attraverso uno degli oblò. Vengono in mente le fatiche prima di arrivare fin qui, le prove delle emergenze probabili o improbabili che possono capitare: ancora non è scomparso il ricordo dell’incidente nello Spazio (NDR: il disastro dello Space Shuttle Challenger avvenne la mattina del 28 gennaio 1986; venne distrutto dopo 73 secondi di volo causando la morte di tutte le 7 persone a bordo, ossia 6 astronauti e un’insegnante. La causa dell’incidente fu un guasto a una guarnizione). Giorni dopo, lo Shuttle rientra e si ricorda di essere un aereo oltre che un essere spaziale, volando come un aliante sul tappeto rosso degli eroi”.

“Eravamo i portatori di un messaggio di competenza e professionalità e per l’ASI, nata da poco nel 1988, era il debutto, con un astronauta dal passaporto italiano a bordo. Io ho volato con l’insegna dell’ASI, la Cristoforetti oggi lo fa con la maglietta dell’ESA”. 

Un progetto di grande portata, quello che vide Malerba andare in orbita come Prime Payload Specialist per la missione TSS-1:

“Dovevamo lanciare il Tethered e tenerlo attaccato al satellite con un cavo che assicurasse connessione elettrica e meccanica, potendo con esso interferire con il campo terrestre e, generare una differenza tra i due corpi, compiere gli esperimenti ipotizzati da Grossi e Colombo”. 

Ma andare nello Spazio per lui era già in programma nel 1978, quando lesse – su un ritaglio del Financial Times che un collega gli portò dalla Gran Bretagna – che l’Europa occidentale era stata chiamata a selezionare scienziati e ingegneri per partecipare al primo volo dello SpaceLab.

“Entrai nella rosa dei finalisti, ma il 9 maggio del 1978 avvenne l’omicidio Moro, cui seguì un grande caos politico”. Nonostante l’Italia fosse, dopo la Germania, secondo finanziatore del progetto, e per il principio del giusto ritorno dei Paesi finanziatori era a tutti gli effetti titolare di un posto in orbita, “ricevetti una telefonata in cui mi veniva comunicato che l’Italia non avrebbe fatto parte della missione”. Partì un astronauta tedesco. “Allora avevo 32 anni, l’età ideale: prima è difficile diventare astronauta per mancanza di competenze, dopo, invece, si ha davanti un orizzonte che non giustifica più il costo dell’addestramento”. 

“Io rimasi comunque fedele all’impegno, e l’Italia investì di più nello Spazio. Furono anni magici per lo Spazio italiano, con progetti ben finanziati che costituirono la base di ciò che è oggi”Cercasi astronauta per il programma Tethered dell’Asi: “L’ultima mia chance. Ottenni il mio biglietto d’imbarco”. 

Così partì nel 1992, per otto giorni nello Spazio con Claude Nicollier dell’ESA (Agenzia Spaziale Europea), Loren Shriver, Andrew Allen, Jeff Hoffman, Franklin Chang-Diaz e Marsha Ivins, della NASA. Lo Shuttle Atlantis era progettato e realizzato da Alenia Spazio di Torino, i bracci telescopici prodotti da Piaggio Aerospace e gli strumenti dai laboratori degli scienziati italiani e americani, con finanziamenti rispettivamente di ASI e NASA.

Talmente tethered furono gli astronauti imbarcati, che circolarono foto e vignette in cui si ritraevano attorcigliati ad un filo. Ride bene chi ride per ultimo: il cavo che teneva il satellite vincolato allo Shuttle si srotolò solo per 260 metri dei 20,7 km previsti, a causa di un problema tecnico causato da un bullone troppo sporgente, ma la lunghezza ottenuta servì a studiare come rilasciare, controllare e recuperare il satellite, e il sistema si rivelò più facile da controllare e più stabile di quanto previsto. Missione riuscita.


“La ISS è la base attuale per lavorare nello Spazio, microgravità ed orbita bassa (400 chilometri), in assenza di peso. La giornata dura 90 minuti, siamo fuori dai ritmi terrestri ma siamo molto vicini ancora alla Terra. Si mangiano ancora cose come la piadina di Samantha, che lei spiega in un recente TikTok (NDR)   che arrivano da una logistica terrestre. Una flotta di bettoline spaziali riforniscono la ISS regolarmente, qualche settimana prima che arrivi il nuovo equipaggio arriva quanto necessario per il loro mantenimento”.


Sulla Luna e su Marte, si sposa e si parte – e si dà principio all’arte – è il caso di dire ormai.

“Gli insediamenti lunari saranno più complessi nel rifornimento: se vorremo realizzare habitat permanenti (ossia relativamente lunghi), sarà necessario inventare l’agricoltura lunare in LowG, bassa gravità. Così nell’esplorazione lontana per Marte, dove saremo esposti all’assenza di peso e a radiazioni per lungo tempo e dovremo essere autonomi nel cosmo”.

Per questo Malerba ha una soluzione, che integra nel suo SpaceV (Space Vegetables o Space Veg), startup italiana fondata nel 2021 con sedi a Genova e Nuoro, che ha un posto nell’ecosistema spaziale attraverso l’impegno nello sviluppo della sua tecnologia Multilevel Adaptive Greenhouse (nella foto sotto). In un motto: come coltivare al meglio le piante negli avamposti extraterrestri. Si tratta di intervenire sui sistemi biorigenerativi e ricreare l’equilibrio terrestre nello Spazio.

“Sulla Terra c’è equilibrio tra il regno vegetale e il regno animale: il primo produce e consuma C02, mentre i nostri rifiuti prima o poi riciclati possono servire come alimentazione per il mondo vegetale. Similmente dovremmo provvedere in un mondo in cui non avremo a disposizione una Terra «tutta pronta». Sulla ISS si sperimentano alcune coltivazioni: nella serra Veggy ad esempio,  le piante crescono anche in MicroG. Avere una buona alimentazione è fondamentale per gli astronauti, già stressati per le differenti condizioni”.

Nel tema dei sistemi rigenerativi Stefania De Pascale, professoressa di orticoltura e floricoltura della Federico II di Napoli, parla di colonie spaziali.

“L’astronauta del futuro sarà un agricoltore o un agronomo, nonché un geografo, dovrà sapere di tutto. Dovremo riciclare rifiuti nell’ambito di un’alimentazione vegetale per poter sopravvivere a Marte”, spiega Malerba, e dà il suo contributo: “SpaceV progetta una serra multipiano adattiva; su ogni piano può coltivarsi un vegetale diverso. La serra verticale implementa il principio adattativo e utilizza più ripiani mobili che si adattano in altezza permettendo una resa produttiva per unità di volume nell’unità di tempo molto alta. Modificando il livello dei piani si riesce a sfruttare al massimo il volume disponibile mentre le colture crescono”.  

Nel video seguente, il funzionamento della serra adattiva multilivello ad uso spaziale.


A proposito di mestieri interplanetari, Gianluca Casagrande, direttore del Geographic Research and Application Laboratory (GREAL), dell’Università Europea di Roma, spiega il rapporto tra geografia e Spazio:

Esogeografia, uno dei possibili futuri della geografia: stiamo parlando dell’attività umana al di fuori della Terra. I geografi arrivano dopo gli astronauti, e quelli di adesso sono simili a quelli del 500: uomini che non viaggiavano, e avevano il paradosso di raccontare mondi che non potevano fisicamente toccare, ma della cui esperienza facevano sintesi. Oggi comincia il controllo dello Spazio, ci sono già fenomeni di inquinamento delle orbite, è un percorso oggettivamente intrapreso. I geografi sono interessati ai progetti di insediamento e vita nello Spazio, ai fortunati viaggiatori, alle riflessioni di chi porta avanti questi programmi e costruisce sulle esperienze precedenti. E questo è il futuro”.

Nel video seguente, l’intervento del prof. Gianluca Casagrande il 24 maggio 2022 nel corso dell’evento Fly Future.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=JvbxJLTuD8A]


Un’altra proposta di Malerba è nello sport spaziale. L’assenza di peso non fa bene e l’astronauta deve allenarsi sempre, con ciò togliendo comunque tempo alla missione. Così l’astronauta europarlamentare si è domandato:

“Non sarebbe meglio creare un sistema rotante, fatto con due veicoli collegati da un cavo che girano nello Spazio i quali, avanzando, garantiscano a bordo una parvenza di gravità, o gravità artificiale, dovuta alla rotazione ossia all’accelerazione centrifuga? Nei miei calcoli ho valutato la necessità di un cavo lungo circa due chilometri, con una rotazione di 60 secondi, con il risultato della mia equazione pari a L=2~1800“.


Guerra in Ucraina, sanzioni, NATO, in una parola: Russia. Ne siamo dipendenti “anche” nello Spazio? A spiegarlo è Gabriele Mascetti, capo ufficio del Volo Spaziale Umano dell’ASI:

“Le stazioni spaziali non sono tanto lontane. Estendere la presenza umana al di fuori dei nostri confini, contro radiazioni improponibili: non è ancora possibile al giorno d’oggi affrontarle da un punto di vista tecnologico, ma è il costo il limite più grande. Nessun Paese è in grado di supportare da solo questa sfida. La destinazione ultima è Marte, e passa attraverso la Luna, banco prova per testare le nostre capacità di vivere in un ambiente spaziale. I nuovi astronauti hanno una tuta privata, le Agenzie nazionali pagano e appaltano, aziende di liberi servizi si affacciano sul mercato”. 

L’ESA ha confermato la sospensione della collaborazione con l’Agenzia spaziale russa Roskosmos per il programma ExoMars, che prevedeva il lancio verso Marte del primo rover europeo e della piattaforma scientifica russa Kazačok con un vettore Proton nell’estate 2022.

“C’è una situazione di crisi in Europa, la guerra in Ucraina ci fa rendere conto che dobbiamo lottare per una nostra indipendenza, non possiamo più lanciare il primo rover come programmato, a causa di questo conflitto. Ora più che mai c’è bisogno di gente motivata ad arrivare nello Spazio. Servizi di cargo, supply, gestiti da privati, lo stesso per la parte Crew: fino due anni fa gli astronauti viaggiavano su veicoli russi, ora viaggiano su veicoli americani e privati. Lo stesso accade nell’HLS, l’Initial Human Landing System, oggetto di una competizione NASA privata, e c’è chi sta investendo anche senza aiuti governativi”.

Nel video qui sotto, un intervento di Mascetti  aFly Future 2022.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=3UFbFj8Qv-k]


La crisi post pandemia ha colpito il mondo, e sembrerebbe non vi sia scampo per il momento. Nemmeno la luce, il gas, le automobili sono più abbordabili, il carburante è salito alle stelle. Ma, come lui, alle stelle salgono anche i simil-proprietari spaziali, e le selezioni alla Star Treck sono sempre più ampie, i posti dell’autobus Galassia sono numerosi e liberi. Sebbene in sovrapprezzo. Il Covid, nello Spazio, non fa danni.

“Il mercato del lusso non è scalfito dalla crisi”, spiega Mascetti, “e nel 2020, mentre il mondo si fermava, le aziende operanti nello Spazio hanno continuato a marciare in tutta velocità. C’è una selezione in corso e si apriranno prospettive per volare più lontano oltre che in orbita terrestre. Le nuove selezioni comprendono meno astronauti titolari e più riserve – da 9 selezionati a 20/30 astronauti abilitati – per tenere il team sempre fresco e favorire il ricambio generazionale”.


In sintesi, oggi non si sogna solo dello Spazio, ma si sogna anche dallo Spazio. Ho chiesto a Malerba cosa sognasse da lì, se l’inconscio avesse preso piede sulla razionalità scientifica, quali le paure oltre il coraggio, a che filo fosse intimamente legato nella missione-del-filo Tethered. Cosa potremmo mangiare se vivessimo finalmente su Marte: solo verdurine? C’è spazio per Darwin? O meglio: c’è Spazio per Darwin? Ed altre domande anticonvenzionali di appannaggio di chi, nonostante quanto si dica (“Né di Venere né di Marte, non si sposa non si parte, né si dà principio all’arte”), intende sposarsi sia su Venere che su Marte, e decisamente partire per dar principio all’arte. 

“TETHERED. Appeso a un filo”. L’intervista di Romina Ciuffa a Franco Malerba – versione integrale: 

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=ANeZELRpywo]

Romina Ciuffa

 

 




HIKIKOMORI: DA PARETE A RETE

HIKIKOMORI: DA PARETE A RETE.
Studio e ipnosi di ROMINA CIUFFA
(www.psichelogia.com)

INTRODUZIONE ERICKSONIANA
“DA UNA STANZA ALL’ALTRA”

Chiesi a uno studente: “Come fai ad andare da questa stanza a quella stanza?”
“Prima di tutto mi alzo”, rispose. “Poi faccio un passo”.
Lo interruppi e dissi: “Dimmi tutti i modi possibili di andare da questa stanza a quella stanze”.
“Ci si può andare correndo”, rispose, “camminando, ci si può andare saltando, ci si può andare saltellando, facendo capriole. Si può andare a quella porta, uscire dall’edificio, entrare per l’altra porta dentro la stanza. Oppure se uno vuole può scalare la finestra…”.
“Hai detto che li avresti detti tutti, ma hai tralasciato un modo, che è il più importante”, dissi io. “Io di solito comincio col dire così: ‘Se voglio andare in quella stanza da questa stanza, io uscirei da quella porta lì, prenderei un taxi fino all’aeroporto, comprerei un biglietto per Chicago, New York, Londra, Roma, Atene, Hong Kong, Honolulu, San Francisco, Chicago, Dallas, Phoenix, tornerei indietro in macchina e entrerei nel giardino posteriore attraverso il passaggio di dietro, entrerei per la porta di dietro ed entrerei in quella stanza’. E abbiamo pensato solo ai movimenti in avanti! Non hai pensato di andare all’indietro, vero? Non hai pensato all’andare carponi”.
“E neanche a strisciare sulla pancia”, aggiunse lo studente.
È proprio vero che ci limitiamo così terribilmente in tutte le nostre forme di pensiero!

Milton Erickson [1]

L’HIKIKOMORI

Mi reco in Giappone nell’aprile 2019. Esco la mattina all’ora di punta, circa le 8 del mattino. La città di Tokyo è silenziosa come una faggeta. Non c’è traffico, pochissime automobili, molte biciclette e pedoni, comunque non sufficienti a dare il senso occidentale dell’ora di punta. Salgo sulla metropolitana, in particolare prendo la linea verde “Yamanote”: con quasi 4 milioni di utenti al giorno (poco meno dell’intero sistema di trasporti di New York), essa costituisce una delle linee metropolitane più grandi del mondo. Il suo percorso funge da circolare per la città di Tokyo e disegna un anello intorno al centro della città, incrociando gran parte delle altre linee dei trasporti di essa, più di 50. La folla è massiva, il silenzio tombale. All’interno dei convogli, sui quali si sale con grandi difficoltà ma altrettanto silenzio, si sta strettissimi. Eppure non si sente rumore, se non quello degli annunci riguardo la fermata successiva. Tutti i passeggeri sono fissi sul proprio tablet o telefonino, non si ha alcun contatto, la solitudine riempie la metro. Non si dovrebbe: guardo sui loro schermi, tutti in giapponese, voglio entrare in contatto con questo silenzio: sono videogiochi, non i social che l’occidentale si aspetterebbe. Dall’altra parte, non c’è nessuno. O meglio, ci sono dromedari e robot che altri utenti nel mondo stanno personificando. Molti portano la mascherina tipica, per una questione di igiene o di rispetto verso gli altri nonché di riservatezza: non si mostra, così, il rossore sul volto, se compare. Per indicare che la prossima è la nostra fermata, faccio “psiu” alla persona che mi accompagna in questo viaggio, lontana da me e, gesticolando e sussurrando, comunico timidamente: “Dobbiamo scendere”. Il mio sussurrio rimbomba nel vagone sovraffollato. Mi guardano tutti.


Romina Ciuffa, Kyoto

Hikikomori (引きこもり o 引き籠もりsignifica letteralmente, in giapponese, “stare in disparte, isolarsi” [2], dalle parole hiku “tirare” e komoru “ritirarsi” [3]). Il termine si riferisce a coloro che hanno scelto di appartarsi dalla vita sociale, cercando anche livelli estremi di isolamento e confinamento, per fattori personali e sociali di varia natura. In Giappone – dove per primo il fenomeno è stato definito – vi è, nondimeno, tra tali fattori, la particolarità del contesto familiare, che si dice caratterizzato dalla mancanza di una figura paterna e da una eccessiva protettività materna; ciò si aggiunge alla grande pressione della società verso l’autorealizzazione ed il successo personale cui l’individuo viene sottoposto fin da sempre.

Per scegliere una definizione che più si avvicina a quest’ultimo fattore, quella di Marco Crepaldi: “L’hikikomori è una pulsione all’isolamento fisico, continuativa nel tempo, che si innesca come reazione alle forti pressioni di realizzazione sociale, tipiche delle società capitalistiche economicamente sviluppate” [4].

Si tratta, infine, della difficoltà adattiva di trarre sensazioni positive e stimoli dalle relazioni interpersonali e, più in generale, dalle dinamiche sociali moderne.

Fino a “ieri”, in Italia si parlava di hikikomori come di un fenomeno “strambo”, “antropologizzato” dall’effetto distanza, che porta a ritenere – secondo la scrivente – che, più chilometri intercorreranno tra una cultura e l’altra, minore sarà il “contagio”. Se, infatti, la trasmissione – base della culturalizzazione e, di seguito nel tempo, dell’antropologizzazione – è un processo tramite il quale l’informazione passa da un individuo all’altro attraverso meccanismi quali l’apprendimento sociale, l’imitazione, l’insegnamento o il linguaggio, fino al momento dell’avvento di una rete capillare come quella web si poteva ritenere che tali elementi mancassero tra due Paesi che distano quasi 10 mila chilometri l’uno dall’altro. Come pensare di contrarre una malattia da una tribù africana o la tubercolosi da una favela brasiliana.

Aguglio scrive [5]: La cultura non va considerata come qualcosa di esterno all’individuo, ma come una struttura specifica di origine sociale che contiene e rende possibile il funzionamento dell’apparato psichico; Beguin già nel 1952 affermava che “si è folli in rapporto a una data società”. Non può esistere alcun processo psichico senza l’esistenza di un filtro culturale che ordini e fornisca gli strumenti necessari per l’interazione della persona con il mondo. Le sindromi culturali comprendono un insieme eterogeneo di malattie, l’importanza e l’attualità delle quali è stata riconosciuta anche nel DSM-IV TR 3; nell’appendice è infatti presente una classificazione delle “cultural bound syndrome” che ha lo scopo di integrare l’inquadramento diagnostico multiassiale e di delineare le difficoltà che si possono incontrare applicando i criteri del DSM-IV in un contesto multiculturale. Il DSM-IV TR le definisce come: “Modalità ricorrenti, caratteristiche di certe regioni, di comportamento aberrante e di esperienza disturbante che possono essere o meno collegabili a qualche particolare categoria diagnostica del DSM-IV”. Si potrebbe dire che queste sindromi siano un modo specifico di una determinata cultura per esprimere una condizione di disagio psichico. Mentre le basi scientifiche della cultura occidentale permettono di classificare i sintomi psichiatrici in quadri ben precisi, nei luoghi in cui le sindromi culturali si verificano vengono spesso accettate come eventi non patologici. Inoltre, il sistema medico occidentale opera una netta distinzione fra mali di ordine fisico e mali d’ordine psichico; nelle culture tradizionali invece questa distinzione si perde, sia per quanto riguarda le procedure terapeutiche, che spesso non si differenziano, sia per quanto attiene alla ricerca delle cause della patologia. (grassetto mio)

Se poi ci si concentra sull’elemento “linguaggio” – intrinsecamente culturale – è evidente che nella trasmissione del disturbo essa è basicamente assente, trattandosi di due ceppi linguistici e antropologici completamente differenti. Il giorno e la notte, anche in termini di fuso orario. Lo stesso valga per l’imitazione, praticamente impossibile in due Paesi tanto distanti con popolazioni tanto distinte.

Se la trasmissione culturale è una componente fondamentale dell’evoluzione, essa non è l’unica. L’hikikomori più avanzato infatti, oltre che da un parallelismo culturale (due rette che prima dell’era web non si incontravano mai, non sottoposte a contagio ma a sviluppo evoluzionistico), deriva da un disagio sociale che riguarda tutti i Paesi economicamente sviluppati, nei quali si delinea un atteggiamento competitivo e perfezionista in vari ambiti di vita. Proprio nel senso di fallimento sociale sono da rintracciarne le cause profonde: lì dove si crea un gap tra il proprio sé ideale e la realtà nascono le paure di fallire, di deludere, di perdere tempo e, come conseguenza, un senso di vergogna di sé. Al disagio e alla sofferenza sperimentata si sommano pensieri valutativi più complessi quali repulsione, sfiducia e delusione verso un luogo e verso le persone che ne fanno parte, i cui valori appaiono a un hikikomori troppo distanti dai propri [6]. Questo luogo, oggi, è infinito: questo luogo, oggi, è online ed è wireless, senza fili.

Il contagio dunque non è causa, bensì concausa accelerata dall’effetto-web. L’hikikomori non è “malattia” in sé, bensì e prima di tutto disturbo cui può essere associata una malattia strictu sensu, ossia un’entità clinica sostenuta da alterazioni lesionali fisiche (in questo caso corticale); ma in esso prevale l’interiorizzazione di esperienze e, delle stesse, l’esteriorizzazione successiva a seguito di rielaborazione. Con una puntualizzazione: l’hikikomori in quanto tale non è stato riconosciuto ufficialmente – né in Giappone né dalla comunità scientifica internazionale – come una psicopatologia. Il che, sia pur escludendo il fenomeno dalla categorizzazione nosologica, lo rende flessibile. Questo glielo si deve: di esso, l’unica variabile strettamente caratterizzante e generalizzabile è l’impulso all’isolamento sociale. Le altre dimensioni variano da soggetto a soggetto: da chi presenti un forte quadro depressivo non legato a fobia sociale, a chi soffra di una profonda crisi esistenziale, a chi sia colpito da apatia; da chi soffra maggiormente le pressioni di origine sessuale a chi sia esposto a quelle legate al confronto con i pari. In altre parole, l’isolato sociale volontario non apparenecessariamente depresso, fobico sociale, dipendente da internet o psicotico, e a volte, addirittura, esce. Fisicamente.

In sintesi, pur non essendo stato categorizzato, l’hikikomori ha uno sviluppo dimensionale. Il modo di agire della stessa imperatrice giapponese Masako è stato accostato a quello degli hikikomori ma, secondo le fonti ufficiali, avrebbe invece sofferto di depressione [7], tanto da meritare la nomea mediatica di “principessa triste”. Per la sua grande, tentacolare dimensionalità il fenomeno sembra essere di scarsa diffusione come tutti quei fenomeni dei quali è difficile la vista (lo stesso motivo per cui il transessualismo MTF – male to female – è conosciuto da tutti mentre, diversamente, quello FTM – female to male – da pochi: la variante, tra le altre, è la visibilità concreta e percepibile del fenomeno dall’esterno dello stesso [8]); esso è, così, poco considerato a livello di problema sociale e viene chiuso negli stretti margini del problema individuale.


L’imperatrice giapponese Masako, anche detta “la principessa triste”

Reclusi sociali, eremiti, ragazzi spariti non fanno notizia perché non esistono a tutti gli effetti. La famiglia è reticente, tende a non enfatizzare il problema o, a maggior ragione ed effetto, a non vederlo, riconoscerlo, considerarlo tale: a ben vedere, da sempre si è preferito avere figli che escono poco a figli che escono molto. Da sempre la discoteca è stata il catalizzatore di ogni difficoltà. Eppure, in questi casi lo è la stanza da letto. Quella arredata dai genitori, quella che garantisce protezione. Qui tale protezione diviene maleficio e gli effetti della chiusura possono condurre e, di fatto conducono, a depressione, suicidio, dissociazione, alienazione, insicurezza, “haterizzazione” (odio in rete), distorsione della propria immagine, comportamenti ossessivo-compulsivi, automisofobia e manie di persecuzione, “autismo selettivo” od “a contesto specifico”, mutismo selettivo, disturbo d’ansia generalizzata e molto altro.

La comfort zone si trasforma nella discoteca più pericolosa che esista, in cui è presente uno spacciatore di droghe dai cui effetti difficilmente si uscirà. Si tratterà, nello sviluppo della patologia, di una “adolescenza senza fine” [9]. I ragazzi, in alcuni casi, non riescono a immaginare se stessi adulti o hanno l’impressione di non stare crescendo. La mancanza di contatto sociale e la prolungata solitudine hanno effetti profondi sullo hikikomori, che gradualmente perde le competenze sociali, i riferimenti comportamentali e le abilità comunicative necessarie per interagire con il mondo esterno [10].

Ne sono colpiti anche gli adulti. In Giappone, dove sono presenti le stime più concrete, nel 2016 il Governo parlava di 541mila soggetti coinvolti con un’età compresa tra i 15 e i 39 anni, e di 613mila appartenenti alla fascia di età tra i 40 e i 64 anni, generalmente indicati come la prima generazione hikikomori, di difficile reinserimento in società da quando, superata la soglia dei 60 anni e rimasti orfani, perdano l’unica fonte di sostentamento a disposizione [11]. Un elemento culturale strettamente collegato al fenomeno è la categoria dei parasite single (パラサイトシングル parasaito shinguru), ragazzi che continuano a vivere coi genitori ben oltre la maggiore età, i quali sembrano possedere, in una certa percentuale di casi, stili comportamentali simili e sovrapponibili a quelli di uno hikikomori.

Il termine hikikomori fu coniato dallo psichiatra Tamaki Saitō, riflettendo sulla similarità sintomatologica di un numero sempre crescente di adolescenti che mostravano letargia, incomunicabilità e isolamento totale [13], ed uno stile di vita caratterizzato da un ritmo circadiano sonno-veglia completamente invertito [14], “con ore notturne spesso dedicate a componenti tipiche della cultura popolare giapponese, come la passione per il mondo manga e, soprattutto, la sostituzione dei rapporti sociali diretti con quelli mediati via Internet” [15].


Tamaki Saitō

È lo stesso Saitō a fare una analogia tra parasite single e “mammoni” italiani: “Oggi i Paesi colpiti da questo fenomeno sono il Giappone e la Corea, aree di cultura confuciana, le cui società hanno assimilato il concetto di pietà filiale, enfatizzandone molto il valore. I genitori accudiscono i figli per essere da questi accuditi in vecchiaia, nel rispetto dell’alternanza dei ruoli. In America e in Inghilterra, una volta diventati adulti, i figli lasciano la casa paterna; in Giappone invece rimanere in casa è normale. Qui li chiamiamo ‘parasite singles’, mentre in Italia si chiamano’ mammoni’”.

Questo a significare quanto non siano poi così lontane le culture. Aggiunge: “Nei Paesi in cui la famiglia ha una grande importanza ci sono più hikikomori. In Giappone è così, e lo stesso in Corea. La pietà filiale. Forse anche in Sicilia, nella parte meridionale dell’Italia, ce ne sono. No? Nei Paesi in cui i rapporti familiari sono importanti, anche se il figlio si emargina guarderà sempre i genitori con rispetto e dipenderà da loro. Poiché c’è il problema dell’amae (dipendenza parentale). In Giappone senz’altro è importante il giudizio degli altri. Un ragazzo hikikomori è motivo di vergogna per il genitore; per questo viene rimproverato. Anche il ragazzo si preoccupa molto di cosa possono pensare gli altri e si tormenta. Così facendo però si convince di essere sbagliato e si isola sempre di più. In Giappone non c’è un dogma religioso, la gente non ha un credo, crediamo agli occhi degli altri, ci preoccupiamo di come ci vedono. Siamo molto sensibili al giudizio altrui e ci fa male essere disprezzati. In questa condizione diventa difficile superare lo hikikomori” [12].

L’hihikomori, o come in Italia lo si voglia chiamare dopo quanto detto, incarna lo spirito di una società giovane che soffre a causa dei cambiamenti sociali e i cui membri non sono in grado di affrontare il duro sistema educativo, la crescente instabilità del lavoro e la grande pressione sociale a partire da quella stessa famigliare.

Da parete a rete. Molti di loro, di qualunque età, sia pure confinati nella loro camera, ne oltrepassano le pareti: si collegano alla rete, sul web, ed entrano in mondi lontani. Nell’impossibilità (psicologica) di far uso del loro corpo costruiscono un avatar con il quale intraprendono battaglie epocali e interagiscono virtualmente con milioni di utenti, di cui antesignano fu il Pacman.

Va però sottolineato come la dipendenza da internet, spesso indicata come una delle principali responsabili dell’esplosione del fenomeno, rappresenti invero una conseguenza dell’isolamento, non la causa: il fenomeno ha origine ben prima della diffusione del personal computer.Prima che esistesse internet, l’isolamento degli hikikomori era, però, totale.Ad oggi, solamente il 10 per cento degli hikikomori naviga su Internet, mentre il resto impiega il tempo leggendo libri, “girovagando” all’interno della propria stanza o semplicemente oziando, incapace di cercare lavoro o frequentare la scuola.

I primi casi in Italia sono stati “diagnosticati” nel 2007, per poi diffondersi ed essere sempre più individuati come tali [16]. Nel 2013 la Società Italiana di Psichiatria ne individua circa 3 milioni tra i 15 e i 40 anni [17]. Il disturbo può essere anche associato alle culture nerd e geek, o ad una semplice dipendenza da Internet, limitando il fenomeno a una conseguenza del progresso della società e non a una chiara scelta volontaria del soggetto[18]. Una stima riferita al 2018 parla di 100 mila casi di hikikomori in Italia.

Ne ho conosciuta una.
O meglio: ho ritenuto che la stessa definizione, per lei, di hikikomori FOSSE già la terapia. Ossia la diagnosi è, in realtà, la tecnica: definire qui è curare.
Il caso è coperto da segreto professionale. Seguono solo le mie riflessioni.

RIFLESSIONI POST TRANCE IPNOTICA SU UNA PAZIENTE “HIKIKOMORI”

Il percorso terapeutico, in questo caso, non si fonda sul considerare l’isolamento come un problema di socializzazione. In particolare, a mia paziente non presenta problemi nella capacità di interagire all’esterno, bensì nel movimento e nella motivazione al movimento. Lo stesso Saitō ha specificato che, prima che l’hikikomori fosse definito in questo modo, si soleva parlare di Sindrome di Apatia. E in effetti l’apatia (dal greco a-pathos, “senza emozione”) consta di una riduzione dei comportamenti finalizzati dovuto a un problema di espressione della motivazione.

Ciò che vale la pena sottolineare, nel caso della mia paziente, è la distinzione tra apatia e depressione: il paziente apatico non prova disagio per la propria condizione, mentre la depressione si correla spesso con stati ansiosi, un tono negativo dell’umore e assenza di piacere (anedonia) che può arrivare fino al desiderio di morire. Nell’oscillazione tra depressione ed apatia si trova la mia paziente.In particolare, il riferimento all’hikikomori mi è servito per parlare con il suo stesso linguaggio, un linguaggio di terre lontane quando non fantastiche, nel particolare caso il Giappone, da dove nasce una delle più floride letterature immaginifiche.

L’hikikomori, dunque, qui è una tecnica mascherata da diagnosi: usare questo esempio, infatti, trasporta già la paziente fuori dal proprio contesto e la sblocca nei movimenti mentali, proprio come in una ipnosi non formale, indiretta, che è quella su cui maggiormente ho condensato i miei interventi su di lei.

In questo tipo di ipnosi, la paziente si è trovata completamente a suo agio, e si è completamente lasciata andare, piangendo e ridendo e muovendosi fra mondi.

Nella ipnosi formale, ho voluto concretare il suo pensiero magico: l’ipnosi in questo caso, sia pure tecnica dello psicoterapeuta che può giungere in luoghi ritirati nel paziente, diviene vero e proprio oggetto, ossia qualcosa che lei è in grado di osservare in quanto appassionata di tematiche quasi fantasmiche, mondi da raggiungere “stando qui”, una sorta di Netflix incarnato nel proprio inconscio.In questo modo, ho smosso la motivazione alla sua stessa radice, e nonostante l’abbia collocata in un luogo più semplice per lei da raggiungere, lei si è recata in un ambiente desertico. La sua motivazione a muoversi è stata così messa in risalto dalla sua stessa volontà, più che dal mio concreto condurla e “accompagnarla”.

Descrivendomi i luoghi durante la trance ipnotica, piangendo, ha voluto rendermi partecipe di questo suo viaggio “oltre”. La ridefinizione, ad opera sua, della scala che le ho chiesto di visualizzare (da grande scalinata a scaletta da pozzo) mostra il suo desiderio di non tornare, e la sua difficoltà a gestire la risalita, che ha definito “faticosa”, ha rinforzato comunque il suo spostamento che, sebbene fosse un ritorno a casa, ha motivato un allontanamento eventuale, futuro, futuribile. Ha dato delle possibilità. Ha lasciato intravedere la forza di un’arrampicata complessa, che però compie. O compirà.

Romina Ciuffa

 

BIBLIOGRAFIA

[1] ERICKSON M., “La mia voce ti accompagnerà”, Astrolabio, 79.
[2] MARIANI A.,Hikikomori, nulla oltre il pc, Avvenire.it, 1 novembre 2012.
[3] ZIELENZIGER M., Non voglio più vivere alla luce del sole. Il disgusto per il mondo esterno di una nuova generazione perduta, Elliot Edizioni, 2008, 30.
[4] CREPALDI M.,Hikikomori. I giovani che non escono di casa, 2019.
[5] AGUGLIA E. et al., Il fenomeno dell’hikikomori: “Cultural Bound” o quadro psicopatologico emergente?, in Giornale Italiano di Psicopatologia, vol. 16, 2010, pp. 157-158.
[6] CREPALDI M., cit.
[7] La “principessa triste” torna a viaggiare, in TG1 Online, 28 aprile 2013:TOKYO – Sarà il primo viaggio all’estero, quello di Masako di Giappone: da sette anni, la principessa “triste” soffre di depressione, malattia che l’ha tenuta lontana dagli eventi sia nipponici, sia esteri. DESTINAZIONE OLANDA. La principessa, 49 anni, ex diplomatica, accompagna il marito per assistere alla intronizzazione del nuovo re olandese Willem-Alexander, il 30 aprile ad Amsterdam. L’agenzia imperiale ha precisato che, durante la visita di sei giorni, la principessa assisterà all’incoronazione, ma potrebbe non prendere parte ad altri eventi ‘‘a causa del suo stato’’. UN VIAGGIO FUORI DALLA NORMA. Per Masako, 49 anni, si tratta del primo viaggio all’estero dopo il 2006 quando trascorse due settimane proprio in Olanda su invito della regina Beatrice, ma per una vacanza familiare. Da circa 11 anni invece – dopo avere visitato l’Australia e la Nuova Zelanda nel 2002 – la principessa, che ufficialmente soffre di depressione dal 2004, non ha più partecipato a viaggi ufficiali. Secondo la stampa nipponica, la sua condizione è causata anche dalla forte pressione della corte imperiale, incluse quelle sulla nascita di un erede per assicurare la successione. La donna ha invece avuto solo una figlia, Akiko, di 12 anni”.
[8] CIUFFA R., Tra uomini e donne non ci sono confini, in Panorama, www.archivio.panorama.it/archivio/Tra-uomini-e-donne-non-ci-sono-confini e in Mutatis Mutandis, www.rominaciuffa.com/transessuali-izzo-tolu/, 2006.
[9] SAITŌ T., Hikikomori: Adolescence Without End, University of Minnesota Press, 2013.
[10] MANGIAROTTI A., Chiusi in una stanza: gli hikikomori d’Italia, in Corriere della Sera, 11 febbraio 2009.
[11] HOFFMAN M., Nonprofits in Japan help ‘shut-ins’ get out into the open, in The Japan Times, 9 ottobre 2011; Aging hikikomori children’s lifelong dependency on parents, in Japan Today, 14 agosto 2013 (senza firma).
[12]PIERDOMINICI C., Intervista a Tamaki Saitō sul fenomeno “Hikikomori”, su Psychomedia.it.
[13] PIERDOMINICI C., cit.
[14] AGUGLIA E. et al., cit., pp. 157-164.
[15] OHASHI N., Exploring the Psychic Roots of Hikikomori in Japan, ProQuest, 2008.
[16] SPINIELLO R., PIOTTI A., COMAZZI D.,Il corpo in una stanza. Adolescenti ritirati che vivono di computer, p. 304, 2015.
[17] NICOLETTI G., L’Hikikomori entra nel vocabolario e nella realtà italiana, in La Stampa, 17 ottobre 2012.
[18] GIAMMETTA R., Hikikomori: isolarsi per troppa vergogna e dire no al conformismo, su quipsicologia.it, 25 febbraio 2013.




ADDIO ANTONIO MARINI, MORTO SUPERSTITE DEI TERRORISTI

di ROMINA CIUFFA (22 agosto 2019). Fino alla fine un superstite, un sopravvissuto alla giustizia-come-si-deve, quella del tempo che fu, che fino all’ultimo non è stato ucciso da chi lo voleva morto. Lo si conosce come l’uomo dell’antiterrorismo, il Pubblico Ministero con PM maiuscole come in un bravo codice di procedura penale; io lo conosco come colui che, pur vedendomi crescere, mi chiamava “direttore”. Non una figura a caso nel patrimonio meteoritico italiano e mondiale della Giustizia, anche l’uomo che ha regalato a Papa Wojtyla il proiettile che non lo uccise, sottraendolo ai reperti giudiziari perché, a fini processuali, non serviva più. Se lo diceva lui, era così. E in questo modo fece sì che quel frammento di piombo fosse incastonato, come voleva Giovanni Paolo II, nella corona della Madonna di Fatima. A tutt’oggi.

Oggi che Antonio Marini non c’è più da ieri, 21 agosto. I giornali si sono precipitati a pubblicare i loro coccodrilli, tutti uguali, nessuno distinto, e probabilmente già pronti essendo lui portatore di un male inesorabile che, per il principio di non contraddizione, non lo ha scalfito minimamente nell’essere, lasciandolo – come sempre – nel suo umore e nella sua forza.

Ne sono testimone: mi chiamava carico di intenzioni, di costanza, mandava messaggi e foto, e parlava di futuro. Suo e del suo libro, la raccolta degli articoli sul terrorismo che lo hanno reso da sempre un grande collaboratore del nostro Specchio Economico, progetto che aveva quasi terminato con il direttore Victor Ciuffa ma che la scomparsa di quest’ultimo fermò. O meglio, rallentò. Ogni mese, per decine di anni, Marini scriveva per noi due rubriche: Giustizia e Terrorismo. Con costanza e attualità, con il senso del tempo e l’importanza di fissarlo.

Umilmente consapevole di non essere uno qualunque, non un “comune mortale”, nel combattere – prima come Procuratore generale facente funzioni, poi avvocato generale della Corte d’appello capitolina – delicate lotte in delicati processi come quelli sull’attentato al Papa, sulla strage della scorta di Aldo Moro in via Fani e il di lui omicidio, sulla morte della studentessa della Sapienza Marta Russo, sull’agguato, firmato dalle nuove Brigate Rosse, costato la vita al giuslavorista Massimo D’Antona.

Alcuni suoi processi sono raccolti nel suo sito in un’apposita sezione: http://www.antoniomarini.com/processi-2/. Il libro voluto da lui e da Victor Ciuffa sul terrorismo uscirà entro l’anno.

Marini muore “in sordina” perché è il giorno in cui, caduto il Governo, se ne attende uno nuovo (i veri eroi non amano essere notati). E così è per me più opportuno dar conto, con le sue stesse parole negli anni, di come si sia sviluppata quella politica (nello specifico antiterroristica) che è anche alla base del cambiamento di oggi in tema di “straniero”.

Ricordando che mi chiamava ogni volta e mi diceva: “Direttore, ti ho mandato l’articolo. Leggilo e dimmi cosa ne pensi”.

  • “Ci si chiede: quanta libertà siamo ancora disposti a sacrificare in nome della sicurezza?”, (ottobre 2006);
  • “Uno dei nodi ancora da sciogliere nella lotta al terrorismo internazionale è la definizione stessa di terrorismo (…)”, (novembre 2006);
  • “Ora, non v’è dubbio che la costituzione delle unità investigative interforze costituisca un importante passo in avanti nell’azione di contrasto del terrorismo internazionale e che, ferma restando l’assoluta libertà del pubblico ministero di avvalersi di altre strutture di polizia giudiziaria nello svolgimento delle indagini, tali unità sapranno fornire un contributo particolare all’accertamento dei delitti più gravi di terrorismo. (…) Le unità antiterrorismo non hanno ancora visto la luce, mentre la pianta malefica del terrorismo internazionale cresce invece a vista d’occhio giorno dopo giorno. A quanto pare, si teme di provocare un accavallamento di competenze e una dispersione del patrimonio investigativo o, peggio ancora, una trasfusione sul piano giudiziario di attività che sono principalmente mirate alla polizia di sicurezza. Ma forse la ragione del ritardo è un’altra. Mancano le risorse finanziarie necessarie a rendere operativo il progetto, risorse che dovrebbero essere individuate e reperite da ministri degli Interni in quelle già disponibili, senza generare nuovi capitoli di spesa. Come al solito la coperta è troppo corta: in mancanza di nuovi fondi, se si copre una parte si rischia di scoprire l’altra (…)”, (gennaio 2007);
  • “L’esperienza accumulata in questi ultimi anni nella lotta al terrorismo dimostra che la comunicazione via internet costituisce uno dei mezzi più efficaci e meno controllabili per organizzare cellule terroristiche e fare proselitismo (…)”, (gennaio 2006);
  • “Mentre le esigenze di prevenzione e di repressione del terrorismo anche internazionale non possono assumere alcun rilievo relativamente al rispetto di alcuni diritti intangibili e assoluti, esse possono però giustificare l’adozione di misure restrittive incidenti sull’esercizio di altri diritti, purché siano soddisfatte le condizioni all’uopo previste dalle singole disposizioni che li tutelano (…)”, (luglio 2007);
  • “Insomma, è tempo di gettarsi dietro le spalle le due tragiche ideologie che hanno dominato il secolo scorso con il loro delirio totalitario. Quanto agli ex terroristi, è tempo che smettano di cercare tribune da cui esibirsi, fornire la loro versione dei fatti, tentare ancora subdole giustificazioni. Lo Stato democratico che intendevano abbattere si è mostrato fin troppo generoso nei loro confronti. Pur avendo il diritto di reinserirsi nella società dopo aver pagato i conti con la giustizia, devono farlo con discrezione e misura, senza mai dimenticare le proprie responsabilità morali che non sono meno importanti di quelle penali (…)”, (giugno 2008);
  • “Così come non dovrebbero dimenticare le proprie responsabilità morali anche coloro che hanno contribuito a teorizzazioni aberranti e a campagne di odio e di violenza da cui sono scaturite le peggiori azioni terroristiche, ovvero hanno offerto al terrorismo motivazioni, attenuanti, coperture e indulgenze fatali. Il riferimento ai «cattivi maestri» e ai tanti fiancheggiatori rimasti impuniti appare evidente (…)”, (giugno 2008);
  • “L’esigenza di combattere il terrorismo non fa venire meno il divieto di estradare o; di espellere lo straniero dal territorio dello Stato quando esistono seri e concreti motivi per ritenere che esso corra il rischio reale di essere sottoposto, nel Paese di destinazione, a tortura o a trattamenti inumani e degradanti (…)”, (settembre 2008);
  • “Configura il delitto di «atto di terrorismo», previsto e punito dall’articolo 280 bis del Codice penale, aggravato dalla finalità di eversione dell’ordine costituzionale, la collocazione di un ordigno micidiale sul davanzale di una finestra dell’ufficio elettorale del candidato alle elezioni per il rinnovo del Parlamento della Repubblica (…)”, (settembre 2010);
  • “Si va consolidando la tendenza a considerare il territorio europeo non più solo un riparo e una retrovia logistica, ma anche un teatro operativo e una base per pianificare iniziative da consumare altrove (…)”, (dicembre 2010);
  • “È, però, principio centrale del diritto internazionale dei diritti umani che esso debba tenere il passo con il mondo che cambia. Alcune delle più gravi violazioni dei diritti umani sono oggi commesse da o per conto di attori non statali che operano in situazioni di conflitto di un tipo o dell’altro, anche mediante reti terroristiche nazionali o internazionali. Di qui l’esigenza di adeguare la normativa alla realtà, riconoscendo le vittime degli atti di terrorismo come vittime di gravi violazioni di tale diritto (…)”, (ottobre 2012);
  • “Il prolungarsi della crisi economica aumenta i fattori di rischio sul fronte dell’eversione e del terrorismo (…)”, (maggio 2013);
  • “Non v’è dubbio che l’Isis, a differenza di altri gruppi terroristici che combattono in Iraq e in Siria, abbia un grande «appeal» tra i giovani stranieri, spesso occidentali (…)”, ottobre 2014.

Non solo il grande PM Marini. Anche un uomo di mondo, che amava l’Opera e le prime, le cene tra amici, perché no la mondanità sic et simplicter ma sempre e comunque colta, le presentazioni dei libri, gli incontri ad altro livello, i salotti di un certo tipo (frequentatore assiduo di quelli di Anna Maria Ciuffa, sempre in prima linea nel giro dei grandi invitati), le alleanze mentali, le rivelatrici disquisizioni su Italia ed internazionale con tutti, ma anche chiacchierate alla mano, contraddistinte da serietà, giocosità, buon umore, dolcezza, energia (insignito anche del Premio Simpatia 2015 nella Sala del Campidoglio). Sempre con la moglie Elisabetta, una coppia nota nel mondo romano ed italiano per intelligenza ed  affettuosità, classe, presenza (spesso ritratta sul Dagospia di Roberto D’Agostino).

Per me il Palazzaccio, la Corte dove mi riceveva e restavamo a parlare per lungo tempo al fluire del Tevere. Per me la promessa di portarmi al Carcere di Regina Coeli, che non conoscevo, sapendo che avevo esercitavo da psicologa in quello di Rebibbia. Per me, giurista e penalista, ma soprattutto grande costituzionalista, un esempio da seguire.

Andato in pensione solo nel 2015, ricevendo subito il Premio alla Carriera Giudiziaria e il Premio Colosseo D’oro. La nuova, più definitiva assenza di Antonio Marini lascia un vuoto invalicabile nel panorama intellettuale e culturale italiano e nella lista di coloro che possano essere consultati per “capire cosa fare”, soprattutto in un momento – quello odierno – in cui mancano combattenti tanto da non esserci nemmeno un voto, e così, con essi, le idee e l’onestà intellettuale, l’esperienza, il coraggio, l’animo. Viene meno un giudice, un uomo di legge, un lottatore, un sentimentale, un romantico, un cervello, un amico.

Solo un terrorista non è riuscito a sconfiggere, ma lo si ricorderà per quelli che ha fermato. In tutti i casi incluso l’ultimo, risolutivo, con una costante: senza paura. (Romina Ciuffa, il tuo direttore e la tua amica)

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HO INTERVISTATO UNA GATTA PIANISTA: NORA, THE PIANO CAT

Ho intervistato un gatto. Ma, cosa ancora più importante, ho intervistato l’unico musicista, in tutta la mia vita, che ho stimato anche come persona.

Gioacchino Rossini aveva scritto un Duetto buffo di due gatti, brano per piano e due voci femminili che interpretano il miagolio suadente e lamentoso di due mici. Il testo faceva proprio «miao». Un pezzo ironico composto per ricordare quei due gatti che lo svegliavano tutte le mattine nella sua residenza di Padua e che appartenevano alla padrona di casa, alla quale lo dedicava. Oggi in Pennsylvania c’è Nora, una gatta che sa suonare il piano da quando aveva un anno: sa scegliersi le note, cerca quelle nere, conosce il ritmo e lo segue, sa cambiare il volume. Appoggia anche la testolina sulla tastiera mentre suona, come faceva Beethoven da che divenne sordo. Non sarà un caso, allora, che ha ottenuto milioni di visite su Youtube questa micia. Vive con altri cinque gatti e due umani, Betsy Alexander e Burnell Yow, che la presero per caso in un negozio di animali del New Jersey, il Cherry Hill.

Nora the Piano Cat

Betsy, diplomata in Composizione, suona e canta dal 1978, a 15 anni scrisse il suo primo musical, su Caino e Abele, si trasferì a New York, scrisse i musical Stakin’ My Claim, Another Kind Of Hero, poi un musical su Anna Frank, un altro basato sulla commedia I Never Saw Another Butterfly e molti altri per bambini. Per la sua gatta ha scritto duetti, che ha pubblicato perché i suoi allievi potessero studiarli: Nora the Piano Cat’s Easy Piano Duets (because not everything in life should be hard) e Nora The Piano Cat’s Impressive Sounding Duets (because sometimes you just want to impress other people). Burnell è un pittore e un musicista autodidatta. Insieme a Betsy ha creato il Raven Wings Studio (www.ravenswingstudio.com).

Domanda. Nora, come hai imparato a suonare il pianoforte?
Risposta.
Ho vissuto con Betsy e Burnell per circa un anno prima di cominciare a suonare. Mentre i miei fratelli sonnecchiavano al piano di sopra, io trascorrevo tutto il mio tempo sotto, nello studio con Betsy e i suoi allievi. Ballavo – specchiandomi nel riflesso delle mie zampe – sopra la coda del pianoforte formando circoli mentre loro suonavano, e dalla coda del piano osservavo dall’alto i libri di musica sul leggio e le loro dita; altre volte mi sedevo accanto agli allievi sulla panca o sulla poltrona e guardavo Betsy fare lezione. Mi piaceva soprattutto infilarmi nel fodero della chitarra. Vedevo l’attenzione che Betsy dava ai suoi allievi mentre suonavano ed io adoro essere al centro dell’ attenzione.

Di solito non faccio follie per essere coccolata o tenuta in braccio, ma mi piacciono gli applausi e i complimenti: un giorno semplicemente sono saltata sulla panca e mi sono seduta proprio come gli altri allievi, ho usato i cuscinetti delle zampe per premere sulle note e mi sono compiaciuta di ascoltare i suoni che ne uscivano. Betsy e Burnell mi hanno sentito e sono corsi giù per le scale esultanti: è lì che ho deciso di continuare a studiare pianoforte. È stato come un viaggio premio: ricevo mail da tutto il mondo e i fans mi vengono a trovare per sentirmi suonare. Sono felice di ispirare gli altri a raggiungere il proprio potenziale e scoprire la gioia di suonare uno strumento.

D. Ti viene mai da cacciare una mosca che ti ronza intorno mentre suoni? O meglio: i tuoi istinti animali prevalgono mai sui tuoi talenti umani privandoli di razionalità?
R. Come ho scritto sul mio libro, Nora The Piano Cat’s Guide to Becoming a Good Musician (or How To Get Good At Anything Hard), Betsy è umana e ha l’attenzione di un umano; io sono un gatto e, per natura ho l’attenzione di un felino. Il rumore più sottile, il movimento più fine mi distraggono, ahimé, così procedo a intervalli, ma riesco molto perché sono molto concentrata durante le lezioni di pratica e lavoro duramente sulle parti più difficili. Tuttavia, se un insetto mi vola davanti, devo smettere di fare ciò che sto facendo e vado a cacciarlo. Sono un predatore, dopo tutto. E se uno dei miei fratelli si avvicina al piano mentre sto suonando, devo interrompermi e dirgli di andar via: è il mio pianoforte e non mi piace dividerlo con nessuno, nemmeno con Betsy. È importante non doversi comparare agli altri mentre s’impara a suonare uno strumento. Naturalmente traggo ispirazione dai musicisti talentuosi, ma accetto chi sono e faccio il meglio con ciò che ho. Betsy ha dieci dita ma io ho solo due zampe e la mia testa da usare, e suono con passione ed entusiasmo a prescindere da questi limiti. Credo di essere come il primo astronauta che ha camminato sulla luna: sono un pioniere, un esempio per tutti gli altri gatti del pianeta, e ispiro tutti a esaudire i proprio sogni.

D. Chi è il tuo musicista preferito? Chi ti fa fare più fusa, chi ti esalta, chi ti fa venir voglia di suonare di più?
R.
Facile: Betsy è la mia musicita preferita! L’ascolto ogni giorno. Faccio rumorose fusa anche mentre sono io a suonare il piano (le faccio a volte anche quando dormo e mi accarezzano la pancia). Il solo fare musica è in grado di eccitare ogni parte di me, come accade ad ogni altro musicista professionista.

Ho anche degli artisti preferiti: innanzitutto Johann Sebastian Bach, un genio. Tutte le volte che ascolto suonare il suo Minuetto in Sol, dal libro di Anna Magdalina, o il dolcissimo, delirante Preludio in Do, o qualunque altra sua brillante composizione, devo correre al piano e suonare, anche se stavo riposando. Sono anche una grande fan di Beethoven, in particolare di Per Elisa. E sono stranamente colpita da Mary Had A Little Lamb.

D. Qual è il tuo genere preferito?
R. Sono una musicista classica. Essendo un’intellettuale, non posso che immergermi nella perfezione matematica ed emotiva di questo genere, ma sono aperta a tutti i tipi di musica e di strumenti. Se solo potessi tenere un flauto, proverei a suonarlo: grazie al cielo sono stata adottata in una casa con un pianoforte!

Mi dicono sempre che sembra che suoni del jazz, e sono d’accordo: è facile per me suonare il tritono perché tra il si e il do o tra il mi e il fa non ci sono tasti neri. Per questo mi ascolterete spesso suonare un si e un fa insieme: è un intervallo buonissimo per la mia zampetta. Ma posso anche raggiungere i tasti neri, che aggiungono molto sapore al suono. Preferisco le note sopra il do: sono sempre stata attratta dalle note alte poiché posso ascoltarle molto meglio di quanto non facciate voi umani. Eh già, tutti abbiamo dei limiti da superare nella vita.

D. Sai davvero cosa stai facendo mentre suoni il pianoforte, o suoni a caso?
R. Mi prendi in giro? Certo che so quello che faccio. Se guardi i miei video, noterai che spesso nei duetti suono nella medesima chiave in cui suonano gli allievi. Non è un caso: decido davanti a quali note sedermi prima di suonare. Suono anche ritmi diversi e ripeto note da pianissimo a forte e al contrario. Quando l’allievo smette di suonare, anche io termino nel duetto. Ogni volta. Sempre. Quando lui smette, io smetto. Come potrebbe essere un caso?

Una volta, sotto Natale, Betsy insegnava usando il mio piano, così mi sono seduta all’altro e ho suonato: la la la, la la la, la do fa sol la in ritmo perfetto, l’esatta introduzione di Jingle Bells. Quando sono da sola, improvviso. Se Betsy e Burnell entrano per riprendermi, io mi interrompo e salto giù – non mi piace essere interrotta durante momenti di intensa creatività -. A volte utilizzo una zampa per tenere una nota e uso l’ altra per suonarne un’altra, così posso produrre un suono uniforme.

D. Cantare è un’ipotesi?
R.
Una volta Betsy e Burnell stavano rilasciando un’intervista al piano di sopra, ed io ho cominciato a suonare furiosamente e a cantare (mi piace essere sempre nello «spotlight») miagolando più forte che potevo: nel futuro proverò anche a cantare mentre suono.

D. Ti senti un gatto differente, o un umano differente?
R. Mi sento un gatto. Ultimamente mi hanno detto che sono ingrassata: perché la gente comune ha queste aspettative rispetto a una celebrità? Perché bada solo alle apparenze? Noi siamo come tutti. Come Oprah, mi piace mangiare e ho un metabolismo lento. Mi piace stare da sola, o con Betsy. Il mio unico amico è mio fratello Ronnie, i miei fan mi adorano e per me è un piacere essere intervistata da te. Saluto tutti i miei ammiratori italiani e auguro che i loro sogni di tonno divengano realtà. (a cura di Romina Ciuffa)

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SETTIMANA DEL CERVELLO 2019: CHE GENERE E CHE GENDER DI CERVELLO?

In collaborazione con PSICHELOGIANon dovrebbe essere solo una l’anno, la settimana del cervello. Dovrebbero essere 366 giorni, almeno. Ma intanto un passo. Al via dall’11 marzo la Settimana Mondiale del Cervello alla sua quarta edizione, appoggiata dall’Enpap, l’Ente di previdenza e assistenza degli psicologi: 834 eventi in 800 città e oltre mille professionisti psicologi, psicoterapeuti, neuropsicologi, biologi, neuroscienziati, medici, logopedisti, insegnanti, tutti con l’obiettivo di diffondere i benefici e i progressi delle scoperte neuroscientifiche e di “animare il cervello”. La “Brain Awareness Week” nella versione italiana è coordinata dalle psicologhe Donatella Ruggeried Elisabetta Grippa.

GUARDA TUTTI GLI INTERVENTI

Per il presidente dell’Enpap Felice Torricelli, un dato vale la pena sottolineare: “Abbiamo sempre più strumenti che ci consentono di intervenire in maniera efficace per aiutare le persone a vivere una vita di migliore qualità: collaborare in maniera costruttiva e creativa tra professioni diverse mettendo insieme punti di vista diversi sul cervello, che non è soltanto il substrato fisiologico su cui costruiamo la nostra attività fisica, ma è anche un elemento di studio su cui convergono attenzioni da parte di discipline professioni molto varie, a disposizione di tutti per dare più possibilità a una vita piena e più dignitosa”.

Felice Torricelli, presidente dell’ENPAP

Federico Zanon, vicepresidente ENPAP

Molta attenzione è data al genere, nelle sue varie declinazioni: orientamento sessuale, coppie di fatto, discriminazioni, rapporti donna-ricerca. Federico Zanon, vicepresidente dell’ente di previdenza, spiega:

“La ricerca scientifica sulla psicologia delle differenze di genere sta aiutando a fare luce sulle reali caratteristiche che differenziano uomini e donne, differenze che sono molto lontane dagli stereotipi popolari su cui si fondano le gravi discriminazioni di cui la nostra società purtroppo è ancora intrisa. Queste discriminazioni, purtroppo, hanno effetti tangibili e molto concreti: dal gender pay gap alle difficoltà che le donne incontrano nel mondo del lavoro. Contiamo che la psicologia e i suoi risultati scientifici possono giocare un ruolo determinante nei prossimi anni per un’evoluzione sul piano dell’eguaglianza e dei diritti civili, e contro ogni forma di discriminazione basata sul genere e sull’orientamento sessuale”.

Istituita nel 1996 dalla Dana Alliance for Brain Initiatives, in corso ogni anno a marzo, la campagna italiana “La Settimana del Cervello” è organizzata e coordinata da Hafricah.net, portale di divulgazione neuroscientifica partner della Dana Foundation e creato da Donatella Ruggeri, psicologa e coordinatrice dell’evento.

Le psicologhe Elisabetta Grippa e Donatella Ruggeri

Dal 2007 Hafricah.net funge da anello di congiunzione tra il mondo accademico e il pubblico interessato all’argomento. Di anno in anno, sono cresciuti i consensi e le iniziative offerte ai cultori della materia e ai cittadini. Rispetto all’edizione precedente, quella del 2019 interessa tutte le Regioni (erano 19 nel 2018), gli eventi e i momenti di incontro sono 234 in più, e i professionisti impegnati sono passati da 600 a 1.139.

In questa edizione, come sottolinea la psicoterapeuta Elisabetta Grippa, è stato introdotto anche il Progetto Scuola, curato da Giorgia Marziani e Nicoletta Agostinelli e dall’Associazione Calliope. Il progetto ha vinto un prestigioso premio di riconoscimento da parte della Federation of European Neuroscience Societies (FENS), volto a dare a bambini ed adolescenti, attraverso un opportuno linguaggio, nuove conoscenze scientifiche, e inserendole in un apposito eBook di teorie e attività da svolgere in classe. Oltre ad offrire momenti dedicati alla conoscenza, nelle scuole potranno essere effettuati screening sulle abilità dell’apprendimento, per l’identificazione precoce dei DSA (disturbi specifici dell’apprendimento).

Da destra a sinistra: Federico Zanon, vicepresidente ENPAP, psicologo; Felice Damiano Torricelli, presidente ENPAP, psicologo; Antonella De Minico, moderatrice; Donatella Ruggeri, psicologa e UX designer, coordinatrice nazionale Settimana del Cervello; Elisabetta Grippa, psicologa, coordinatrice nazionale della Settimana del Cervello

“La figura dello psicologo è vicina ai bisogni delle persone, diffonde conoscenza–specifica Grippa–. Cominciare a compiere quest’opera già a partire dalla giovane età aiuta ad avere consapevolezza nelle scelte quotidiane, ad attuare decision making, a riconoscere le notizie vere da quelle false mettendole in discussione aldilà di pregiudizi e stereotipi. Perché la conoscenza rende liberi, più riflessivi e più inclini al pensiero critico”. Aumentano anche le possibilità di effettuare screening cognitivi per gli adulti, promossi con un protocollo uguale in tutta Italia e coordinati dalla Scuola di specializzazione in Neuropsicologia del Dipartimento di Psicologia dell’Università La Sapienza di Roma, che ha dato all’evento il patrocinio istituzionale.

Michela Balconi, coordinatrice del progetto dell’Unità di ricerca in Neuroscienze sociali e delle emozioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

È inoltre introdotto il paradigma dell’hyperscanning: cosa accade nel nostro cervello e in quello dell’interlocutore quando iniziamo a interagire durante una conversazione e in che modo ci si sintonizza? Non più l’attenzione ad un cervello, bensì a due, in interazione, in una neuroscienza “a due persone”. Tema che trova applicazione utile in diversi settori, sociale, aziendale, clinico e riabilitativo, a cui risponde la professoressa Michela Balconi, coordinatrice del progetto dell’Unità di ricerca in Neuroscienze sociali e delle emozioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

“Divulgare, diffondere, oggi, vuole anche dire utilizzare i social network“, sottolinea la RuggeriL’edizione 2019 della Settimana del Cervello è anche online e sui social. In rete sono state lanciate due campagne: #chegeneredicervello e #ricerchepazze. La prima indaga sulle innegabili differenze tra cervello femminile e maschile, sottolineando come queste differenze siano un punto di forza e non un motivo per continuare ad alimentare gli stereotipi di genere; la seconda si propone di intrattenere il pubblico raccontando alcuni tra gli studi neuroscientifici più stravaganti.

Iscrivendosi alla newsletter del sito www.settimanadelcervello.it si può ricevere l’eBook “Share some Lobe”, ricco di informazioni scientifiche sul personaggio Mr. Brain (link diretto per iscrizione alla newsletter: http://bit.ly/2GYMOtf).

La settimana terminerà, ma l’auspicio è che il cervello non faccia la stessa fine. (ROMINA CIUFFA)

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NASCE WEDŌ LABEL, L’ETICHETTA DI MUSICA COPERNICANA

Presentazione: Cortile Cafè (Via Nazario Sauro 24/A), Bologna – lunedì 26 novembre 2018 h 21.30 

Sarà presentata, lunedì 26 novembre alle ore 22 negli spazi dello storico Cortile Cafè di Bologna, la nuova etichetta indipendente WEDŌ ma anche “social”, nata dall’ingegno di Francesco Maria Gallo, comunicatore cresciuto negli ambienti del DAMS di Bologna, allievo di Umberto Eco e seguace di Luciano Nanni, nonché cantautore e musicista. Con lui nel team la giornalista, editrice e scrittrice Romina Ciuffa, tra le prime cantautrici ad essere prodotta dalla label (qui di seguito il link ai tre estratti dell’album in uscita, “Sandra e Raimondo”, “Pellicine” e “Su un filo di imene: PLAYLIST @ https://www.youtube.com/watch?v=cwP1fJZqbd8&list=PLP32VaNlelOr0D1ezijG2hXtqjMGw98al).

Il nome WEDŌ significa tante cose e, tutte, con o senza trattino, spiegano il significato del progetto. “We do” in inglese significa “facciamo”, perché questo è un fare: fare musica. “Do” in italiano indica il dare: dare musica. Il trattino di WEDŌ è inserito di proposito per distinguerlo dalla connotazione inglese, perché si legga come il “do”, la nota musicale. Ma non solo: dō, nel linguaggio kanji giapponese, significa “ciò che conduce”, nel senso di disciplina vista come via, percorso, cammino, in senso fisico e spirituale. In latino, l’interiezione “ō!” esprime altresì un’ampia gamma di emozioni: gioia, dolore, desiderio, ammirazione, stupore. Un’invocazione, un’esclamazione, l’unione degli opposti, il disco del sole e della luna.

Dischi: sono quelli che, insieme a Mauro Alberghini, conduttore radiofonico di Radio Città del Capo, saranno presentati in prima nazionale durante l’evento, trasmesso in diretta nazionale radio e video. Si esibiranno dal vivo i primi prodotti selezionati fra moltissimi dai talent scouter di WEDŌ: oltre agli stessi Francesco Maria Gallo e Romina Ciuffa in veste di produttori ed artisti, lo spagnolo Jay The Truth, con un brano che scivola dialetticamente tra spagnolo, inglese e spagnolo senza soluzione di continuità, il quale non rivela il proprio volto per scelta personale e, pertanto, il suo brano sarà presentato dalla performance di danza contemporanea di Laura Ulisse. Quindi i volti scoperti della neonata label: Nicoletta Noè, Andrea Mazzacavallo, Honey & Red Wine (Lisa Maria Gelhaus e Max Marchetti feat. Claudio Vignali), Tiziana Scimone, Le anime leggere (Nicola Bagnoli e Tiziano Tarli) e il già noto Legality Band Project (Francesco Maria Gallo, Filippo Lambertucci, Manuel Goretti, Daniele Raffaelli e Agostino Raimo).

Mauro Alberghini, Radio Città del Capo

WEDŌ non è solo un’etichetta discografica o un produttore. Canale digitale della nuova frontiera della musica emergente e indipendente, sviluppa offerte modellate sulle esigenze specifiche del pubblico e coglie le opportunità di ampliare il pubblico potenzialmente raggiungibile. Rappresenta una vera e propria rivoluzione copernicana, perché equivale all’individuazione di tutta quella nuova generazione di compositori, autori, cantautori ed interpreti, che in tutto il mondo, attraverso il social WEDŌ, interagiranno con i loro follower condividendo le proprie produzioni: l’un con l’altro incrementeranno la conoscenza, la diffusione, la vendita e lo streaming di un prodotto di qualità, altamente selezionato dal principio. Non è un mescolone, è una selezione. La selezione di quelli bravi, o di quelli che a WEDŌ piacciono. Questo sistema di sharing people tra artisti indipendenti stima una community in un anno di oltre 4 milioni di utenti in Italia e 15 milioni di utenti in Europa.

Francesco Maria Gallo

WEDŌ è anche una piattaforma che, attraverso una serie di servizi trasversali (videointerviste, live streaming di house concert, videoclip, raccolta di partiture e booklet, mappatura di autori indipendenti nel mondo, geolocalizzazione dei concerti indie, geolocalizzazione dei compositori) offre opportunità di migliorare l’engagement digitale degli appassionati della musica emergente e indipendente. Il team WEDŌ sfrutterà la molteplicità relazionale della piattaforma digitale per promuovere le produzioni in-store, allestendo, di volta in volta, specifiche campagne marketing interattive attraverso cui aumentare e implementare nel mondo social il coinvolgimento diretto degli appassionati prima durante e dopo della pubblicazione del prodotto digitale.

La distribuzione coinvolge: AppleMusic, YouTube Music, Spotify, Amazon Music, Google Play, Pandora, Deezer, iHeartRadio, Napster, MediaNet, TouchTunes / PlayNetwork, VerveLife, Tidal, Gracenote, Shazam, 7Digital, Juke, Slacker, KKBox, Akazoo, Anghami, Spinlet, Media neurotico, Yandex, Target Music, ClaroMusica, Zvooq, Saavn, 8tracks, Q.Sic, Kuack, Boomplay Music, SimfyAfrica.